Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Una ragione per vivere” di Marta Cerù

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Il risveglio fu brusco. Non aveva dormito bene, dopo la telefonata della sera prima. “Sono la mamma di Pietro. So che era da te fino a qualche ora fa e ora sta malissimo. Vomita è in stato confusionale, non ci vede. Che avete fatto? Avete preso qualcosa?” “Abbiamo solo fumato erba. Quando è andato via stava bene. Comunque io gli ho detto di non esagerare”. Lei aveva attaccato dicendo che era arrivata l’ambulanza.
Durante la notte si era chiesto se chiamare qualcuno, se parlare a suo padre. Ma lui era già a letto, così si era infilato le cuffie e aveva ascoltato Jamil in King del Bong, fino a crollare addormentato.
Si alzò di corsa. Aveva dormito vestito e in pochi minuti uscì di casa. Arrivò a scuola prima possibile in sella al suo scooter. Mentre parcheggiava lo accolsero i soliti saluti: “Bella frà”, “C’hai la Giulia?”, “Scialla rega, oggi stiamo in campana…”. Si accorse che Francesco mancava all’appello e raccontò agli altri della telefonata la sera prima. “Di nuovo?” reagì uno dei tre. “Era uscito dall’ospedale settimana scorsa”. “Ma che è successo?” “Czzo, non ho idea. So solo che sua madre stava fuori stanotte”.
Invece di andare al solito parchetto a rollarsi una canna, entrarono a scuola, decidendo di non dire nulla a nessuno.
La prima ora andò come al solito. Poi entrò la bidella e lo chiamò: “Sei convocato dalla Preside”. Lui la seguì sotto gli occhi curiosi e interrogativi dei compagni e del professore di turno. Camminò verso la presidenza con fare sicuro. “Tanto la frego anche questa volta”, pensò.
Rimase di stucco quando vide i suoi genitori seduti con la Preside. Non era solito vederli insieme. Vivevano separati da tre anni e si scambiavano solo telefonate, mai visite. Lui aveva scelto di stare con il padre. Ne aveva guadagnato in libertà, visto che lui non c’era mai. Suo fratello più piccolo invece stava dalla madre, tranne in alcuni fine settimana.
Il sorriso stampato ebbe un tremito, mentre sentiva la Preside rivolgersi ai genitori: “Vi ho chiamati per chiedervi di ritirare vostro figlio da scuola. Non sono più disposta a tollerare i suoi comportamenti”.
“Ma che vuol dire? Ci vuole spiegare? Non mi sembra questo il modo…” replicò il padre, mentre lui restava muto.
“Sono tre anni che vostro figlio fuma e spaccia dentro e fuori dalla scuola. Ne ho le prove. Non sono più disposta ad averlo tra i miei studenti”.
“Ma di cosa parla?” Mentre la madre guardava il figlio con aria interrogativa, il padre si alterò e alzò il tono della voce. “Come si permette. Mio figlio non usa droghe, non fuma erba o altro. Vive con me e io lo conosco meglio di lei. Sta prendendo un grosso abbaglio”.
La preside sollevò dalla cattedra un cellulare e mostrò la foto di una schermata whatsapp. “E allora come mi spiega questo messaggio?”
Sulla schermata apparve l’intestazione del ragazzo e una sua risposta a qualcuno: “Non abbiamo preso altro. Abbiamo solo fumato erba”.
“Questo non prova nulla”, il padre ormai quasi urlava.
“Lo dice lei”, replicò la Dirigente. “Vi prego di chiarire con vostro figlio cosa è successo. Un suo compagno è finito in ospedale. È stato male dopo aver fumato con lui. Un altro suo compagno è stato fermato dalla finanza due settimane fa, proprio qui a fianco alla scuola. Dobbiamo andare a fondo e voi dovete aiutarmi. Ma se non volete farlo, allora almeno abbiate la decenza di ritirare il ragazzo da questa scuola”.
“Siamo noi a decidere se trasferire nostro figlio, e al momento non abbiamo nessuna intenzione di cambiare scuola”.
Con queste parole i tre si alzarono e uscirono dalla Presidenza. Dopo aver aspettato che la bidella prendesse dalla classe lo zaino del ragazzo lasciarono in silenzio la scuola.
Appena fuori, il silenzio si ruppe. “Ma che diavolo è successo?” Urlò il padre al ragazzo. La madre invece prese il cellulare: “Dammi il numero della mamma del tuo amico che voglio parlarci”.
“Pronto. Lei ha chiamato mio figlio la scorsa notte? Ma come si è permessa di chiamare un minore?”
“Ma che cosa dice? La stavo cercando anche io stamattina per spiegarle cosa sta succedendo. Forse non si rende conto che mio figlio è in ospedale. E che era insieme a suo figlio la scorsa notte.” I toni si smorzarono e le due donne si accordarono per incontrarsi di lì a poco con i mariti e chiarire l’accaduto.
Si incontrarono di fronte al portone di casa dei due genitori reduci dalla notte in ospedale. I cinque si salutarono e presentarono, non si erano mai visti prima. Eppure il ragazzo abitava con il padre a pochi isolati.
Il padre di Pietro fu il primo a parlare. “Non vogliamo accusare nessuno. Vogliamo solo raccontarvi cosa sappiamo, perché sospettiamo voi siate ignari. Un paio di settimane fa un amico dei nostri figli è stato fermato dalla finanza con bustine di fumo. L’abbiamo saputo da Pietro che, nonostante fosse sconvolto, negava la gravità del fatto. Abbiamo poi saputo che i tre ragazzi avevano formato una società. Compravano fumo e lo rivendevano ai compagni. La cosa è andata avanti per un paio di mesi, prima che uno di loro fosse fermato. Ora nostro figlio è in ospedale. Questi sono i fatti di cui volevamo informarvi. Vostro figlio era con il nostro l’altra sera e, nonostante l’arresto del loro amico, stavano continuando a fumare. A questo punto tutti noi genitori siamo coinvolti e informati. Potete fare quello che volete di queste informazioni”.
La madre del ragazzo aveva cambiato faccia. La freddezza iniziale si era trasformata in preoccupazione. Il padre si rivolse al ragazzo chiedendo: “È vero?” E lui rispose: “Abbiamo solo fumato dell’erba che mi ero procurato a San Lorenzo. Nient’altro”. Al che la madre di Pietro intervenne guardandolo negli occhi: “Volevo ringraziarti per aver risposto al telefono stanotte e avermi detto quello che avevate fumato. È stato importante per i medici per agire tempestivamente. Ma voglio anche dirti che ognuno di voi ha le proprie responsabilità che ricadono sugli altri. Pensa a quello che state facendo, potresti trovarti tu addormentato in ospedale al posto di Pietro”. E a questo punto la voce si ruppe. Non ci fu molto altro da dire. Si salutarono in modo impacciato, dicendo che si sarebbero sentiti per aggiornarsi.
Il ragazzo e i due genitori si allontanarono silenziosi.
La madre li lasciò quasi subito dicendo che doveva andare a prendere il piccolo a scuola. Così lui tornò a casa con il padre che per una buona mezz’ora non gli rivolse la parola.
“E da quando bazzichi a San Lorenzo? Chi diavolo conosci? Una società di spaccio, ma che ti sei messo in testa?”
Il padre aveva spalancato la porta della camera e cominciato a urlare. Lui si era alzato dal letto, in difesa: “Come se te ne fregasse qualcosa”.
“Non hai il diritto di accusarmi. Non mi pare di averti fatto mancare niente. Ma metterti a spacciare, cazzo. Potevi trovare altri modi di attirare l’attenzione”. “Che cazzo vuoi dire. Non mi frega un cazzo della tua attenzione. Fanculo”.
“Da oggi in poi si cambia regime”, tagliò corto suo padre sbattendo la porta.
E infatti da quel giorno la libertà era finita. Non più a casa da solo, niente scooter, il ragazzo veniva accompagnato e ripreso da scuola tutti i giorni dal padre. Non più uscite il sabato fino a nuovo ordine.
Ma al ragazzo non importava nulla di tutto questo. Aveva provato a chiamare Francesco nei giorni a seguire ma nessuna risposta. Così anche i suoi amici, ai quali i genitori avevano dato informazioni vaghe: “Pietro sta meglio ma per ora non può vedere nessuno”.
Fino a che un giorno si era deciso a citofonare al portone di Pietro.
Gli aveva risposto la madre che lo aveva invitato a salire. Entrando aveva respirato un’aria pesante: “Volevo salutare Pietro, sapere come sta”, aveva detto alla madre nell’atrio. Lei l’aveva guardato come se non lo vedesse.
Gli aveva fatto strada: “Pietro, il tuo amico è venuto a trovarti”. E così lui l’aveva seguita. La stanza dell’amico era completamente trasformata. Il letto era più grande, simile a quello di un ospedale. Pietro giaceva immobile, attaccato a flebo e computer che misuravano il battito cardiaco e l’attività celebrale. “Vieni accomodati”, l’aveva invitato la madre di Pietro. “Puoi sederti qui e parlargli. Io credo che lui possa sentirti”.
Lui si era seduto: “Ciao frà…”. Nessuna risposta.
“Ti salutano tutti da scuola. Persino quella stronza della proffa di greco. Sbrigati a guarire perché ci manchi”. Solo che a quel punto la voce aveva tremolato e il ragazzo aveva cambiato tono.
“Cazzo bro… Che hai combinato… Non puoi farmi questo … Torna in te… Ti aspettiamo tutti…”
Aveva portato la testa tra le mani e aveva cominciato a singhiozzare.
Sottovoce però, quasi per non disturbare il rumore del battito cardiaco che arrivava dalla macchina.
Finiti i singhiozzi era rimasto così a guardare Pietro per chissà quanto. Quando la madre di Pietro era venuta a chiamarlo si era stupito di vedere scuro dalla finestra. Non era riuscito a dirle nulla. Aveva raccolto il suo zaino e come era entrato era uscito. “Torna quando vuoi”, si era sentito dire, non riuscendo a reggere quello sguardo angosciato.
E in effetti era tornato, il giorno dopo e quello dopo ancora. Ormai ogni pomeriggio dopo aver finito con lo studio, usciva per andare a trovare Francesco. Non vedeva più nessun altro. Non aveva altro scopo per vivere. Si sedeva a fianco a quel letto e lasciava correre le ore, a volte in silenzio, a volte raccontando cosa fosse successo a scuola, a volte con la testa fra le mani, singhiozzando.
La madre era sempre lì, pronta a riceverlo e a dimetterlo, con poche frasi di circostanza. La vedeva ogni giorno più magra, come una clessidra i cui granelli inesorabilmente cadono. Lo accoglieva, e per un attimo le vedeva un sorriso apparire in viso. Ma era solo un attimo, poi lei lo guidava verso la camera di Pietro e li lasciava soli.
Aveva ripercorso gli ultimi mesi tante volte, e altrettante aveva immaginato come le cose sarebbero potute andare diversamente. Ma non era uno di quei fumetti dai finali multipli che aveva conosciuto grazie a Pietro mesi prima. Purtroppo ogni pomeriggio arrivava da lui e lo trovava sempre uguale, sempre immobile, sempre addormentato, sempre in pace, come se in fondo non riuscisse a trovare la ragione per svegliarsi.

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1 commento »

  1. Davvero bello. E realistico. Purtroppo oggi tendiamo a sottovalutare la gravità di certe cose, come le così dette “droghe leggere”, che saranno pure leggere ma sono pur sempre droghe. Devo ammettere che inizialmente non ho apprezzato il linguaggio che hai usato, ma mi sono dovuta ricredere. Sei riuscita a immergermi nel mondo degli adolescenti di oggi. realistica anche la reazione dei genitori che vogliono difendere il figlio anche se ha torto fino a scoprire che quello che la preside diceva non era nient’altro che la verità.
    Il finale è tuttavia la cosa che mi è piaciuta di più, è la parte della storia che più ha fatto riflettere. Il momento in cui il protagonista ha visto pietro ridotto in quel modo per colpa della cannabis è stato veramente toccante. penso che qualcosa in lui si sia risvegliato, che abbia capito quanto “una canna” non sia soltanto “una canna”. L’ultima frase è davvero molto triste quanto bella. Complimenti davvero!

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