Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “L’educatrice e il brigante” di Marinella Emilia Brizza

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

A volte succedono cose inspiegabili, ai limiti della umana ragione. A volte c’è solo una porta a separare il razionale dall’irrazionale. Quella porta può essere aperta in qualsiasi momento. Non lo decidiamo noi. Possiamo solo scegliere se restare sulla soglia oppure oltrepassarla.

Nella storia che vi racconterò, io ho scelto ben poche cose. Tutto è successo grazie ad una serie di eventi fortuiti. A iniziare dall’incontro che avrebbe cambiato la mia vita.

Tutto iniziò quando incontrai Giuseppe. Giuseppe Musolino, di professione brigante.

 

Era il 20 novembre 2003. Alla guida di una 600 blu, mi lasciavo alle spalle le pareti impervie della mia terra, la Calabria. Passavo sui ponti, incapace di dare anche solo un’occhiata ai baratri sottostanti, ricacciando indietro lacrime di paura e amarezza.

In quell’istante, sentii una presenza vicino a me.

Mi voltai verso il lato passeggero e vidi uno strano personaggio. Il volto mi era familiare e l’abbigliamento inusuale ricordava certe fotografie degli anni trenta: pantaloni  color caffè, scarponi, camicia bianca e giacca scura alla cacciatora, baffi lunghi su un volto scurito dal sole. Mi sorrise con fare sornione, togliendosi il berretto in segno di saluto. Gli occhi neri brillavano di puro divertimento alla vista della mia faccia allibita. Notai un  fucile a doppia canna accanto a lui.

“Sarà un effetto della tensione,” dissi ad alta voce.

“Buongiorno, Romina,” replicò l’ allucinazione.

“Adesso sento anche le voci! Forse non sarei dovuta partire da sola.”

“Sono qui già da un po’ di tempo,” disse lui, “potresti farmi il favore di prendere le curve con maggiore delicatezza?”

“Cosaaa? Mio Dio, sto impazzendo!”

Mi fermai alla stazione di servizio. Scesi dall’auto, accesi una sigaretta e cercai di respirare.

È solo suggestione,” pensai, “ora tornerò in macchina e quella specie di brigante del secolo scorso sarà svanito.

Tornai all’auto e diedi un’occhiata all’interno. Non c’era nessuno. Sollevata, mi rimisi in viaggio. Accesi lo stereo e le note di Eugenio Bennato riempirono l’abitacolo. Mi allontanavo dal Sud a ritmo di taranta.

Sospirai. Cominciai a canticchiare Brigante se more; avevo sempre adorato quella vecchia canzone di protesta.

“Bella canzone! Mi ricorda tante cose…”

Sobbalzai sul sedile.

“Ancora tu?” urlai. “Ma chi sei? E cosa vuoi da me?”

Lui rise, mostrando una fila di denti bianchissimi.

“ Mi presento,” disse togliendosi la coppola e piegando il capo in segno di rispetto, “mi chiamo Giuseppe… Giuseppe Musolino, di professione brigante.”

Per poco non andai a sbattere contro il camion davanti a me.

“Il brigante Musolino? Se non ricordo male, sei morto in un ospedale psichiatrico almeno sessanta anni fa!”

“I briganti come me non muoiono mai, Romina. Continuano a vivere nell’anima dei calabresi che non si arrendono e non piegano la testa davanti a nessuno!”

“E io cosa c’entro con loro? Io sto partendo. Io e la Calabria abbiamo chiuso. Lei non mi vuole! Mi sta cacciando, non lo vedi?”

Mi guardò con una certa compassione.

“Mi spiace, Romina. So quanto sia difficile.”

“Ma cosa puoi saperne tu? Tu hai combattuto solo per te stesso,” risposi, stizzita, “e ucciso per vendetta personale.”

“Credi di sapere tutto di me,” ribatté lui, offeso. “Ma non fa niente,” riprese allegramente, “avremo tempo per conoscerci meglio.”

“Conoscerci meglio?” Strillai, “non ci penso nemmeno. Qualunque cosa tu sia, io voglio che TU scenda dalla mia macchina!”

“ Ehi,” mi riprese lui, “credi mi piaccia viaggiare su una scatoletta? Avessi almeno un SUV!”

Mi resi conto che non avrei ottenuto niente da lui.

Proseguimmo così per qualche chilometro. Fui io a riprendere a parlare.

“ Giuseppe, perché hai scelto proprio me?”

“Lo capirai da sola,”disse lui, “ora guida e abbassa il volume della radio. Voglio dormire”!

Ubbidii.

 

Arrivammo a destinazione verso sera e passai la notte da Anita, mia sorella. Il giorno dopo avevo un colloquio di lavoro.

Dormii male e mi svegliai presto. Di Giuseppe non c’era traccia. Pensai fosse stato un infelice frutto dell’immaginazione e non ne feci parola nemmeno con Anita. Mi preparai e mi avviai verso il luogo dell’appuntamento. Avevo un indirizzo, un numero di telefono e un senso dell’orientamento già provato dal lungo viaggio attraverso l’Italia. Naturalmente, mi persi nelle campagne del Monferrato. Capii di trovarmi sulla strada giusta solo quando vidi un grande cancello verde con l’insegna che cercavo.

Percorsi il vialetto fino ad arrivare nel cortile di una grande casa. Il suo aspetto mi turbò inspiegabilmente. Per qualche strana ragione, rabbrividii. Sentii la voce di Giuseppe.

“Eccoci arrivati, finalmente!”

“Di nuovo tu,” esclamai esasperata, “come se non fossi già agitata di mio…”

“Eehhh, stai calma, signurì! Prendi i tuoi fiori di Bach, respira e scendi da questa macchina!”

“Tu come fai a sapere…? Va bé, lasciamo stare!”

Giuseppe mi guardò con aria di compatimento indicandomi una donna intenta a strappare delle erbacce nelle aiuole. La donna sollevò lo sguardo e si mosse nella nostra direzione.

“Devi andare a parlare con lei, Romina,”  disse serio, stai attenta.”

“Attenta? Giuseppe, ma cosa vuoi dire?”

Ebbi appena il tempo di accorgermi della sua scomparsa, che la donna era già vicino all’auto. Mi affrettai ad aprire la portiera.

“ Salve, tu devi essere Romina! La targa dell’auto parla per te. Io sono Miriam, la psicologa della Comunità. Ci siamo sentite per telefono.”

“Salve, sono proprio io. Ho faticato a trovarvi,” aggiunsi, guardandomi intorno, “è un bel posto, ma parecchio isolato.”

La casa era spettrale e affascinante allo stesso tempo. I vecchi  muri, di un giallo ormai sbiadito, sembravano impazienti di raccontare la loro storia. Le finestre dalle consunte persiane di legno somigliavano a tanti occhi con lo sguardo fisso sui nuovi arrivati. Alberi secolari circondavano l’abitazione e le aiuole lungo il marciapiede del cortile erano una pallida imitazione della natura che si ergeva superba tutto intorno. La donna mi invitò a seguirla in ufficio.

“Vado a lavarmi le mani,” disse, “quando vedo delle aiuole trascurate, soffro. Il giardinaggio è una mia grande passione.”

“Prego, faccia pure,”risposi.

Approfittai di quei pochi minuti per guardarmi intorno liberamente. La spaziosa scrivania era ingombra di fogli sparsi e cartellette colorate. Alle pareti dei pannelli dalle scritte, chiaramente realizzate da adolescenti, ravvivano l’ambiente di per sé squallido.

Ben presto la donna tornò e il colloquio ebbe inizio. Per quaranta minuti parlai e ascoltai.

Ci lasciammo entrambe soddisfatte.

“Ci vediamo lunedì,” disse Miriam.

“A lunedì,” risposi, prendendo borsa e cappotto.

“Un’altra cosa, Romina,” esitò, “non pensare di poterli salvare. Noi possiamo fare ben poco per questi ragazzi.”

Salita in macchina, ripensai a quelle parole. Il tono col quale erano state pronunciate mi lasciò addosso, per tutto il giorno, una strana inquietudine.

Poco dopo rividi Giuseppe seduto al solito posto.

“Mi chiedevo dove fossi finito!”

“Vedo che cominci ad abituarti alla mia presenza…”

“È difficile non notarla.”

“Lo so,” ribatté compiaciuto, “ho sempre avuto un certo, come si dice… carisma? Sì, carisma! Quando ero latitante sull’Aspromonte… ”

“Giuseppe, credo tu non abbia colto l’ironia. Ma d’altra parte quando mai si sono viste delle allucinazioni con  il senso dell’umorismo?”

Giuseppe tornò serio.

“Vedi Romina, tu oggi pensi che io sia un’allucinazione. Eppure, io sono solo una delle possibili presenze. Presto te ne renderai conto.”

Lo guardai sbalordita. L’auto si piegò pericolosamente a destra.

“Stai attenta, signora educatrice, io sono già morto, ma tu hai ancora tante cose da fare!”

“Cosa vuoi da me?”

“Voglio solo proteggerti.”

“Proteggermi? E da cosa?”

“Lo capirai presto. Adesso pensa a guidare e vai piano!”

Quando arrivai sotto casa di mia sorella, Giuseppe non c’era più.

Il lunedì successivo iniziai a lavorare in Comunità Terapeutica. Non sarebbe stato facile, lo capii subito. Nonostante tutto, la vecchia casa esercitava uno strano potere su di me anche se non potevo comprenderne la ragione. Gli eventi dei giorni successivi complicarono le cose. Le parole di Giuseppe circa l’esistenza delle possibili presenze acquisirono nuovo senso divenendo decisamente più chiare.

 

La casa dei sussurri

 

Capitava spesso che noi educatori fossimo richiamati in turno per un’emergenza. Vivevamo in costante stato di allerta. I problemi dei ragazzi, ospiti della casa, urlavano e tiravano calci e pugni. Le chiamavamo crisi e raccoglievamo i frammenti dei vetri spaccati da rabbia e dolore. Il contenimento fisico era largamente incoraggiato dalla Direzione. Si vociferava, persino, circa l’esistenza di una squadra di picchiatori.

In ogni caso, in una di quelle occasioni, venni a conoscenza dell’esistenza della vecchia signora.

Arrivai in cortile. Il vento agitava i rami degli alberi producendo un effetto sonoro mai sentito prima. Col tempo mi abituai al particolare fruscio in grado di creare suoni simili a sussurri. Voci sommesse percepibili solo a un orecchio ben affinato, pronto a cogliere e accettare verità impossibili da raccontare in un altro modo. Vento e alberi rivelavano i segreti della casa, ma gli sprovveduti frequentatori  ?  me compresa  ?   non potevano saperlo. Quella fredda sera di gennaio, Giuseppe era seduto accanto a me. Mi accinsi a scendere dall’auto, ma il brigante mi fermò. Aveva un’espressione molto preoccupata. Non lo avevo mai visto così.

“Cosa c’è? Ho fretta, Giuseppe!”

“C’è una donna davanti alla porta.”

“Io non vedo nessuno.”

“Evidentemente non vuole farsi vedere da te…”

“Ci risiamo! Un altro fantasma?” chiesi più spazientita che spaventata, “e perché non vuole farsi vedere da me? Forse crede, giustamente, che vedere te sia già sufficiente?”

“Non scherzare, Romina. La sua faccia non mi piace per niente.”

“E come sarebbe? Peggiore della tua?”

Ero particolarmente acida. La fretta e l’assurdità della situazione accrescevano la tensione.

“È una donna anziana. Sta guardando verso di noi.”

La  vecchia era abbigliata con una semplice camicia da notte bianca, o forse di un azzurro sbiadito, troppo lunga e larga per il magro corpo. Persino dal punto in cui ci trovavamo, Giuseppe riuscì a distinguere il bianco attorno alle iridi grigie, beffardamente posate su di noi. I capelli radi e corti le conferivano un’aria ancora più spettrale. Naturalmente, tali informazioni mi furono date in seguito dal brigante.

“Vado a parlarle,” disse il brigante.

In una frazione di secondo lo vidi in piedi davanti alla porta a parlare col nulla. Dopo qualche minuto tornò da me.

“Allora? Cosa vi siete detti?”

“Non molto, in realtà.”

Sbuffai con una certa impazienza.

“Ma chi è?”

“È la proprietaria della casa.”

“E cosa vuole?”

“Non lo so ancora. Ma tu non le piaci…”

“Perfetto! E anche molto rassicurante, direi!”

“In ogni caso, adesso puoi entrare.”

“Mi ha dato il permesso?”

“Romina, ti ho già detto di non scherzare e di non provocarla. Vai, ora.”

“Lei è ancora lì?”

“È casa sua. Lei è sempre qui.”

Scesi dall’auto. Percorsi il breve tragitto fino alla porta di ingresso con le gambe tremanti. Infilai la chiave nella toppa ed entrai, mentre una folata di vento gelido mi accompagnò su per le scale fino all’ufficio educatori.

 

 

Dopo quella notte iniziai a fare delle domande sulla casa e su chi vi aveva abitato. Venni così a sapere della leggenda nata attorno alla casa dei sussurri.

La casa era appartenuta a una ricca famiglia piemontese. I proprietari  ?   marito e moglie – vi avevano vissuto felici fino a quando la malattia della donna aveva gettato un’ombra cupa sulle loro vite. Per molti anni, ella visse segregata nelle sue stanze, in preda a tremende visioni e orrendi deliri. Furono interpellati sacerdoti e medici, ma non furono mai trovati esorcismi e medicine in grado di lenire il dolore e il tormento della povera signora.

Un giorno l’ammalata riuscì a fuggire dalla sua prigione e, obbedendo a sordide voci interiori, cercò di uccidere il marito. L’uomo, colto di sorpresa, reagì aggredendo a sua volta. Colpì la moglie alla testa con un pesante candelabro e questa cadde a terra in una pozza di sangue. Credendola morta, si diresse verso la scrivania, aprì il secondo cassetto, prese la pistola e si sparò alla tempia. Per l’intervento di chissà quale entità suprema, la donna si risvegliò dal torpore dell’agonia. Urla sovrumane si sentirono fino in paese, parole terribili furono pronunciate: “maledetta sia la casa e tutti i suoi abitanti per generazioni e generazioni! Chiunque dormirà in queste stanze avrà lo stesso crudele destino; pazzia e morte troveranno gli incauti stolti! Un enigma ha sconvolto la mia mente, solo risolvendolo si potrà riavere la pace della mente e dell’anima.”

Negli anni a seguire, si verificarono molti episodi insoliti tra le sue mura. La gente del paese narrava di un bambino morto cadendo dall’albero di fronte alla villa. La madre, resa folle dal dolore, morì suicida e, fino alla fine, non volle credere alla teoria dell’incidente occorso al figlio. Qualcuno affermava anche di aver   visto due figure con le medesime loro sembianze,  vagare in casa e in giardino, scenario del dramma che vi si era consumato.

Io stessa sentii più volte un pianto infantile e un rumore di tacchi femminili salire (o scendere?) frettolosamente le scale da un piano all’altro.

La casa dei sussurri era rimasta vuota fino a quando un imprenditore locale non l’aveva affittata per farne una comunità psichiatrica. Tutti l’avevano ritenuta la soluzione ideale. Cosa poteva succedere a chi si trovava già nei pressi della follia?

Ma io mi ponevo senza sosta un’altra domanda: qual era il mistero o l’enigma la cui soluzione avrebbe potuto spezzare la terribile maledizione? E qual era il mio ruolo in tutto questo?

Di tanto in tanto la vecchia dava i segnali della sua presenza e si divertiva a spaventarci.

Mi convinsi che tutti i racconti di fantasmi ascoltati da bambina avessero una largo fondo di realtà. Sentii voci, passi e, durante la notte, le pesanti sedie al primo piano venivano rumorosamente spostate. Vidi oggetti spostarsi da soli e volare nella stanza. La sensazione di freddo diventò familiare segnale dell’arrivo e della presenza della vecchia. Notai una certa correlazione tra le apparizioni e il malessere dei ragazzi. Decisi di fare qualcosa.

 

“Giuseppe, devi aiutarmi!”

“A fare cosa?”

“Devo trovare il modo di spezzare la maledizione.”

Il brigante si tolse gli occhiali da sole e si lisciò i baffetti con aria perplessa.

“È pericoloso, Romina. Troppe persone hanno interesse a non modificare lo stato attuale delle cose.”

“Cosa significa,” chiesi stupita, “di chi stai parlando?”

“Pensaci bene, Romina. A chi conviene che la gente impazzisca?”

“Non capisco, mi stai confondendo.”

“Sei proprio un’ingenua, mia cara. Ma siccome mi sei simpatica ti aiuterò. La vecchia ha degli alleati nella casa.”

“E chi sono? Altre presenze?”

“No.”

“Sii chiaro, per favore! Mi stai esasperando! Sei qui per aiutarmi o cosa?”

“Io sono qui per proteggerti. C’è differenza, cara!”

“Sai cosa ti dico? Non proteggermi, non ne ho bisogno. Tornatene nel tuo manicomio a Reggio Calabria!”

Giuseppe non si scompose. Alzò il sopracciglio destro e aggiunse:

“Miriam ha ragione: hai proprio un pessimo carattere!”

“Come fai a saperlo? E perché dovrebbe fare un’affermazione del genere? Lei mi stima!”

“Dove credi che sia quando non sono con te? Io controllo. Vedo. Ascolto. E so.”

“Cosa sai?”

Sospirò.

“Tra poco sarai trasferita. Non ti vogliono qui. La storia di Simone non è andata giù ai capoccia. Ti immischi troppo e dai fastidio.”

Le parole di Giuseppe mi colpirono come un pugno in faccia. Non ebbi la forza di proferire parola. Il volto pieno di lividi di Simone mi comparve davanti agli occhi.

“Sono loro gli alleati della vecchia nella casa, vero?”

Giuseppe annuì.

 

Il giorno dopo ricevetti la lettera con la quale  mi si comunicava l’imminente trasferimento presso un’altra sede, a diversi chilometri di distanza dall’attuale. Non avevo più molto tempo a disposizione.

Quella notte sognai Giuseppe, il Brigante.

Eravamo in Calabria, nel meraviglioso luogo dove andavo in vacanza con le  amiche di allora. Per arrivarvi, camminavamo per una stretta stradina sterrata, tutta curve e salite. Giunte in cima, avevamo l’abitudine di sederci in prossimità dello strapiombo e restavamo lì per ore, a fumare e contemplare il punto dove il cielo e il mare si toccavano in perfetta simbiosi con l’impalpabile vuoto azzurro e bianco dell’aria.

Nel sogno, Musolino portava moderni occhiali da sole ed era comodamente sdraiato su un lettino da spiaggia. Fumava una sigaretta, aspirandola lentamente e facendo anelli di fumo con la bocca. Io, invece, ero stremata. Mi sedetti vicino a lui, ancora con il fiatone.

“Ti vedo molto affaticata, Romina,” disse, con tono ironico.

“La cosa ti stupisce, forse?”risposi stizzita, “non sono mica un fantasma io! Non solo ho lavorato tutto il giorno, ma sono pure arrivata qui a piedi! Certo che sono stanca!”

“Sei venuta qui per lamentarti?”

“Certo che sei proprio uno stronzo!”

“Hei signurì, non ti infiammare alla prima provocazione, come ti succede sempre.”

“Tu sai sempre tutto, vero?”

“Ahahah, ti ho vista stamattina. C’è mancato proprio poco! Il ragazzone biondo stava per suonartele di santa ragione. Sei un metro e mezzo di rabbia e fuoco. E tutto per difendere quella ragazzina…”

“Cosa fai, mi psicanalizzi, adesso? Non sopporto chi se la prende con i più deboli, tutto qui!”

“Lo so, Romina,” aggiunse dolcemente, “cerca però di conservare l’energia per arrivare fin quassù: sullo strapiombo sul mare.”

Mi svegliai improvvisamente. Nelle orecchie sentivo ancora il rumore del mare.

 

Chiesi alla Direzione spiegazioni sulle reali motivazioni del trasferimento. Mi fu ripetuto quanto avevo già letto sulla raccomandata: esigenze di riorganizzazione del personale.

Il mobbing ha questa dicitura,”  pensai amaramente.

Non pensai nemmeno per un attimo di accettare. Ormai era tutto chiaro e deciso: non avrei accettato e avrei perso il lavoro, ma prima volevo a tutti i costi cercare di spezzare la maledizione! Lo dovevo ai ragazzi e a me stessa. Non potevo contare sull’aiuto di nessuno. I colleghi erano spaventati. Ciò che era successo a me poteva succedere a loro, soprattutto se mi avessero sostenuta. Non li biasimo, ma all’epoca non potei fare a meno di sentirmi delusa e amareggiata.

Non mi rimase che chiedere il sostegno dell’amico brigante.

“Giuseppe, non abbiamo molto tempo. Dobbiamo sbrigarci.”

Giuseppe esitava. Gliene chiesi la ragione.

“La vecchia è molto potente. Te lo ripeto: può essere molto pericoloso sfidarla!”

“Non mi importa. Possibile che tu non lo capisca?”

“È furba e infida. E può avere molte facce.”

“Va bene. Cosa devo fare?”

“Devi cercare qualcosa che è appartenuto alla vecchia. Se ancora esiste! Di più non so.”

 

Iniziai a perlustrare la casa sperando di ritrovare una traccia qualsiasi dell’antica proprietaria. La ricerca ebbe delle conseguenze di cui si continua a parlare ancora oggi.

Un pomeriggio, rimasi sola con una ragazzina febbricitante e ne approfittai per curiosare in giro. Entrai nel locale adibito a scarpiera, l’unico rimasto ancora inesplorato perché vi si trovavano tracce di escrementi di topi. L’avversione per questi animali era antica. Piccoli mostri grigi dalla coda sottile affollavano i miei incubi nei momenti di maggiore tensione sin da quando ero bambina. Facendomi violenza, entrai nella stanza e la perlustrai attentamente. Il locale era una stanzetta rettangolare, ma fu il piccolo corridoio laterale ad richiamare la mia attenzione e curiosità. Vincendo la repulsione per le inequivocabili  testimonianze del passaggio delle orride bestioline, scavalcai le scatole impolverate che mi ostruivano il passaggio e lo percorsi per l’intera lunghezza. Osservai attentamente la parete. Era coperta da un pesante pannello, fissato al muro con dei chiodi arrugginiti. Alcuni, però, erano lucidi e allentati, come se qualcuno li avesse messi da poco. Fu sufficiente utilizzare una chiave per svitarli completamente. Spostai il pannello e la sorpresa per ciò che mi trovai davanti agli occhi, mi tolse il respiro. Finalmente le mie fatiche avevano dato un risultato insperato!

Davanti a me vi era una camera da letto,  appartenuta, con tutta probabilità, alla vecchia signora proprietaria della casa! Tutto sembrava fosse rimasto come allora. Il grande letto a baldacchino troneggiava al centro della stanza, addossato alla parete di fronte. A destra il mobile da toilette con lo specchio a piombo. Mi avvicinai lentamente. Il silenzio soprannaturale che regnava nella casa sembrava essere spezzato solo dai battiti accelerati del cuore. Sul mobile c’erano una spazzola, un pettine, una testa utilizzata per posarvi le parrucche e uno scrigno rettangolare. Lo aprii. All’interno vi era custodita una lunga treccia grigia. Un rumore improvviso mi paralizzò ogni muscolo del corpo. Sentii una presenza alla mie spalle. Mi girai e la vidi.

 

“Tu non dovresti essere qui, lo sai, vero?”

Un sudore freddo mi bagnò la fronte.

“Miriam, io… me ne vado subito,”  balbettai, terrorizzata dall’arma puntata contro di me,  “ero solo curiosa, ma perché la pistola? Non ho fatto niente!”

“Mi spiace, Romina, è troppo tardi. Dovevi stare lontana. Io ho cercato di fartelo capire in tutti modi! Ti ho anche fatta trasferire, ma tu… niente! Hai dovuto curiosare in cose che non ti riguardano. Tutte quelle domande sulla casa e sulla maledizione. E l’assurda determinazione nel volerla spezzare! Non te lo permetterò mai, non l’hai ancora capito?”

“Non puoi spararmi. Tutti sanno che sono nella casa. Si faranno delle domande!”

La risata di Miriam mi ghiacciò il sangue.

“Ha ragione il tuo amico brigante: sei proprio un’ingenua! Ho previsto tutto. Ogni minimo particolare!”

“Ma tu come fai a sapere di…?”

“Semplice, cara mia! Gli ho parlato. Ricordi la sera davanti alla porta?”

Improvvisamente tutto mi fu chiaro. Nel piccolo universo parallelo in cui ci stavamo muovendo e dove niente era davvero ciò che sembrava, diventarono inequivocabili anche le parole di Giuseppe. “Può avere molte facce.”

Mentre Miriam mi si avvicinò con il solito ghigno sulla faccia, Giuseppe si materializzò tra di noi.

“Fermati! Non puoi farlo e lo sai!”

“E chi me lo impedirà? Forse tu? Sei poco più di un ologramma,” disse, ridendo con cattiveria, “ormai è finita.”

“Lei ha l’immunità, non puoi toccarla nemmeno tu, vecchia strega! E comunque credo che ti debba preoccupare d’altro in questo momento.”

La lieve esitazione di Miriam  mi diede la possibilità di agire. Mi gettai su di lei nel tentativo di disarmarla. Per una volta fui grata ai miei chilogrammi di troppo per la superiorità fisica che mi conferivano. Riuscii a disarmarla e ad afferrare la pistola. Non ne avevo mai tenuta in mano una. Giuseppe mi guardava compiaciuto.

“Brava, Romina, mi è sembrato di rivedere me stesso ai bei tempi.”

“Non è il momento per le nostalgie, Giusè!”

“Tanto non riuscirai a sparare, inetta,” disse Miriam.

“Fossi in te, non ne sarei tanto sicura,” replicai puntandole con rabbia la pistola alla gola e tenendola ferma con il peso del corpo, mentre con la mano sinistra le serravo gli esili polsi.

“Non ci sporcheremo le mani con te,” disse Giuseppe,  “dimentichi che, ai miei tempi, ero maestro indiscusso degli effetti speciali.”

Gli rivolsi uno sguardo interrogativo. Subito dopo, un forte odore di fumo mi riempì le narici.

“Presto, vai via Romina, tra poco qui brucerà tutto!”

Lasciai la presa e Miriam si tirò su di scatto con gli occhi bovini fuori dalle orbite.

“Tu… tu… hai appiccato il fuoco!”

Giuseppe rideva di gusto.

“Mai sottovalutare i briganti, cara Miriam o come ti chiami!”

Li lasciai entrambi e mi catapultai fuori diretta verso la stanza della ragazza ancora addormentata, l’unica presente nella casa. La sollevai di peso e corremmo verso l’uscita sbattendo alle nostre spalle le porte taglia fuoco. Le fiamme si propagarono velocemente. L’intera ala della casa fu distrutta e con essa, purtroppo, anche ciò che avrebbe potuto spezzare la maledizione.

Restai a guardarle, stringendo a me la ragazzina spaventata. Anche Miriam era riuscita a scappare. Non ci rivolgemmo parola. Da allora non l’ho più rivista.

Quando finalmente riuscii a tornare a casa, riapparve Giuseppe. Sorrideva.

“Sono venuto a salutarti, Romina.”

Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Scoppiai a piangere.

“Non ti vedrò mai più?”

“Ti aspetterò sullo strapiombo sul mare, Romina.”

Sorrisi, ripensando al sogno di qualche notte prima. Iniziavo a conoscere il brigante e a percepirlo come un’insolita proiezione del mio essere.

“Giuseppe, dimmi solo una cosa…”

“Cosa?”

“Hai parlato di un’ immunità. Cosa volevi dire?”

“Vedi, Romina, tu hai un’anima pura e il male non ha nessun potere su di essa. Così è da sempre. Ma dalla vecchia e il suo clan non ci si può aspettare il rispetto di alcuna legge, di alcun codice morale sia esso umano o sovrannaturale. Per questo motivo dovevo proteggerti.”

Poi svanì. Rimasi sola, troppo stanca per fare qualunque cosa. Presi un sonnifero e dormii dodici ore di fila.

 

 

Ho vissuto in Piemonte ancora per molti anni. Ho avuto la tentazione di cambiare lavoro, ma non l’ho mai fatto. Non ancora, almeno. Ho continuato a viaggiare su e giù per l’Italia guardando i diversi paesaggi attraverso il finestrino di un treno. Andata e il ritorno. Incessantemente.

La campagna piatta e perfetta, i piccoli alberi stremati dal primo freddo invernale, i prati verdi perfettamente allineati ai campi coltivati in un disegno perfetto simile a una scacchiera senza pedine. E verde tanto verde… solo verde e marrone. Il Nord mi sembrava tutto lì, ma con l’anima e occhi irrequieti cercavo ancora il nero della terra bruciata dai fuochi appiccati da uomini privi di scrupoli. Cercavo le pareti rocciose e friabili a strapiombo sul mare, gli uliveti, i fichi d’India ai cigli delle strade e le distese di fiori di pesco rosa. Così è stato per molto tempo.

Oggi osservo lo stesso paesaggio. Lo guardo con gli occhi di mia figlia,  così simili agli occhi della nonna, e sento che esso appartiene a lei, così come a me appartengono gli strapiombi sul mare. In un gioco di appartenenze reciproche che non conoscono confini geografici, lo sento più mio.

In questo intreccio mi muovo con una certa disinvoltura, portando a spasso per l’Italia il mio accento meridionale e, in fondo al cuore, l’impronta indomita, ma ormai serena del brigante Musolino. Da tempo immemorabile, egli vive alla macchia e, proprio stamattina, è uscito di nuovo allo scoperto, per un attimo soltanto. Mi ha sorriso, mi ha fatto l’occhiolino ed è svanito.

Sono sicura che lui mi stia aspettando. Lo raggiungerò presto e, ancora una volta, ci siederemo sull’orlo del precipizio, per contemplare il punto dove cielo e mare si toccano in perfetta simbiosi con l’impalpabile vuoto, azzurro e bianco, dell’aria.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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3 commenti »

  1. bello il racconto, molto credibile e riuscita la figura del bandito. Il ritmo, la suspance e la dichiarazione degli enventi accendono la curiosità e fanno in modo che il lettore arrivi fino alla fine del racconto. Grazie, per aver allietato il tempo che ho dedicato alla lettura.

  2. Mi è piaciuto molto il tuo racconto, Marinella, complimenti! La descrizione di questa donna attaccata visceralmente alla sua terra, aspra e indomita, come il brigante Musolino che la accompagnerà sempre anche quando starà lontana dalla sua Calabria.

  3. Grazie a entrambi per i commenti e per aver colto gli elementi essenziali che compongono il racconto. Il Brigante è realmente esistito e non ha ancora smesso di esercitare il suo fascino.
    Grazie

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