Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “La scelta di Xerox” di Marco Stanzani

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Mi chiamo Xerox e sono stato il più bello tra tutti gli ascensori.

Fui progettato nel 1996 da alcuni ingegneri nipponici che mi resero il più richiesto tra tutti quelli della mia gamma perché per la prima volta ero privo di locale macchina.

Fui il primo al mondo a potermelo permettere.

Perfetto comfort di marcia, design italiano, efficienza energetica migliorata del 35 per cento rispetto ai miei colleghi del passato.

Con una corsa di 1/3 metri al secondo, uno sviluppo di almeno 250 metri in altezza ed una portata fino 25 quintali e mezzo, potevo ospitare fino a 30 persone e percorrere 60 piani !!!

Dopo una serie di opportuni collaudi il destino mi portò ad essere impiantato nel bel mezzo del vano scale mobili del Midtown Tower di Tokyo, il quarto grattacielo più alto di tutta la città.

Mi ricordo ancora come se fosse ieri. Era il 31 marzo 2007 ed erano presenti tutti coloro che mi avevano dato alla luce. C’erano l’architetto Skidmore e i colleghi della Nikkei Sekkei oltre ai miei paparini della Takenaka e della Taisei Corporation.

Il primo viaggio ufficiale non si scorda mai: erano da poco passate le 9 del mattino quando su di me salì una delegazione al seguito del governatore. Erano in tutto 24 persone quelle che portai per prime dal piano 0 fino al 53mo dove ha sede il Ritz-Carlton Hotel, un albergo lussuosissimo

di 248 camere, e poi ancora su su su fino agli uffici di Yahoo Japan.

 

In mezzo stavano invece quelli della Cisco Systems, della Fast Retailing ed ai piani ancora inferiori c’erano gli uffici della Hudson Soft e Konami, quelli della Nikko Asset Management e infine quelli della State Street.

Da quel giorno d’inizio primavera cominciò la mia carriera di traghettatore di anime …

 

Beh, questa è la mia storia.

 

In principio i visitatori del Midtown Tower si disponevano su due file davanti agli ingressi dei diversi piani ed attendevano pazientemente che io sopraggiungessi per poi salire sulla mia piattaforma semi-panoramica in rigoroso ordine di arrivo.

Ma già dopo pochi mesi si manifestarono con una certa frequenza alcune scene d’intemperanza, litigi, discussioni su chi fosse arrivato prima ed avesse dunque diritto ad usufruire dei miei servigi. In un paio di occasioni queste discussioni sfociarono persino in un accenno di rissa. Erano usanze tipicamente occidentali queste che portarono spesso i contendenti a scaricare i nervi anche con calci alle mie porte d’accesso.

Io non mi sono mai lagnato di tutto ciò, anzi… scene così costituivano un ottimo argomento di chiacchiericcio tra me e le mie amiche Aki e Hana, le due scale mobili che mi stavano attorno.

Aki, che per voi occidentali vorrebbe dire “luccicante”, aveva il compito di portare ai primi tre piani superiori le persone che non hanno voglia di attendere che sia io a farlo.

 

Hana, ovvero “fiore”, faceva esattamente il contrario di Aki. Per questo dicevo sempre a loro che non sarebbero mai andate d’accordo. Infatti, benché si assomigliassero come due gocce d’acqua, trovavo fossero così diverse. Voglio dire, si capiva perfettamente che erano sorelle, ma oltre alla questione del tragitto, avevano sempre avuto visioni opposte su tutto.

Aki per esempio mi invidiava il fatto che io potessi annusare e catalogare i profumi che si sprigionavano nel mio abitacolo che, per quanto capiente, si mostrava sempre come un osservatorio privilegiato sulle diverse personalità- Hana invece diceva che non avrebbe mai potuto essere un ascensore perché non sopportava l’odore di aglio che qui in Giappone consumano come se non ci fosse un domani. In effetti capitava di sovente di trasportare genti dalle “essenze” che definire particolari parrebbe quasi un eufemismo se non fosse che al mio interno furono installati i più sofisticati sistemi anti-incendio del mondo, meccanismi talmente sensibili che anche al solo pensiero di una scorreggia si sarebbe corso il rischio di dare via al “piano di evacuazione A” di tutto il grattacielo, quello dal quale io purtroppo ero escluso. Non ho mai capito perché, qualora si fosse scatenato il sequel dell’Inferno di Cristallo dentro al Midtown Tower, io avrei dovuto starmene li zitto ad osservare tutto questo fuggi fuggi generale senza nemmeno poter contribuire a fare nulla.

Le cose che ho amato di più nella mia carriera di ascensore per umani sono state due: innanzitutto le musichette scelte dalla direzione per accompagnare i visitatori all’interno del mio abitacolo. E poi Marina.

Ogni mattina alle 8,35 ogni angolo del building veniva setacciato e controllato dagli inspector che verificavano il perfetto funzionamento delle scale mobili, lo stato di totale igiene nei bagni situati sui piani agli ingressi degli uffici, fino all’ultima lampadina veniva controllata e se bruciata sostituita. Io ero l’ultimo ad essere supervisionato in ogni intercapedine, affinché non vi fosse polvere o qualche regaluccio di un cagnolino lasciato ad imputridire in un angolo della mia moquette. Quando partiva la musichetta lounge di sottofondo già sapevo che potevo stirare i cavi e partire per una nuova giornata di saliscendi.

 

E poi ci fu Marina.

 

La prima volta che la vidi era il 12 settembre del 2012. Indossava un abitino a fiori primaverile e aveva un cerchietto che le raccoglieva i capelli castani che le cadevano sulle spalle.

Teneva stretta al petto una cartelletta in plastica arancione quel giorno che la portai fino al 43mo piano. Doveva essere un nuovo acquisto della Cisco o della Fast Retailing, pensai. Sembrava tesa e preoccupata a giudicare da quanta cura mettesse nel controllare lo stato del ciuffo che cadeva come uno scoglio e spezzare il mare dei suoi occhi verdi. Inutile starci a girare troppo attorno: me ne innamorai immediatamente. Perché anche noi elevatori abbiamo un cuore. Sta incassato proprio lì sulla pulsantiera, tra il bottone del sesto senso e quello del settimo cielo.

Quella notte ne parlai subito ad Aki e Hana che ancora una volta non si trovarono d’accordo nel consigliarmi un comportamento consono. Hana sosteneva che in fondo ero solo un ascensore e che avrei dovuto mettermi il cuore in pace perché il mio amore di metallo e cavi non sarebbe mai  stato corrisposto. Aki invece mi spronava a bloccarmi tra il 23mo e il 24mo piano per esternarle il mio sentimento magari scrivendole sul display della pulsantiera un haiku di Masaoka Shiki o una poesia di Prevert. Nei mesi successivi non trovai il coraggio di fare nulla di tutto ciò. Mi limitai ad osservare questa ragazza italiana che chiamavano Marina, che tutti adoravano per la grazia del portamento ed il sorriso gentile, trasferitasi a Tokyo per uno stage di lavoro.

Col passare del tempo Marina si integrò perfettamente nella vita del Midtown Tower, appariva ogni giorno sempre più sicura ed anche il suo abbigliamento, per quanto sempre fine, mi apparve più sfacciato rispetto agli inizi. Le gonne si accorciarono, i tacchi si alzarono, i rossetti si fecero accesi. Notai che sempre più spesso arrivava al building insieme al Presidente della Konami, un colosso dei video games in tutto il mondo. Lui era un uomo di mezza età, più alto rispetto alla media giapponese, sempre in giacca e cravatta così come il ruolo gli imponeva. Capitò un paio di volte che Marina gli sistemasse il nodo sotto al colletto e quando accadeva lui aveva per lei occhi di rugiada. Cominciai a sospettare che il periodo di stage della mia amata si sarebbe trasformato presto in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, ma non sapevo se gioire o trafiggermi i circuiti a causa della gelosia che lentamente mi stava trafiggendo il cuore. Col passare del tempo fu sempre più evidente la relazione tra i due fino a quando, una sera, sia Marina che il nostro eroe si attardarono in ufficio e furono gli ultimi ad uscire prima della chiusura generale del building. Corsero ridendo mano nella mano scivolando con le scarpe sul marmo lucido fino davanti al mio ingresso: lui perse la 24 ore nel gesto di fermarsi e lei scoppiò in un risata fragorosissima. Quando la mia piattaforma sopraggiunse al piano i due piccioncini attesero che si chiudessero le porte e subito si avvilupparono in un bacio intensissimo. Senza staccare le labbra dalle sue, Marina spinse il bottone alt ed io fui costretto a sospendere la mia corsa. Lui le alzò la gonna e la sollevò sulle sue braccia premendola contro la mia parete in acciaio. Lei si aggrappò con le braccia attorno al suo collo ed iniziò a sospirare con vigore avvinta come era da questa danza d’amore alla quale io non sapevo come oppormi. Lui teneva la testa immersa tra il collo e i capelli di Marina la quale ormai era completamente immersa in un’estasi totale. Mentre l’amore si consumava dentro di me io non potevo fare altro che trasudare dolore dalle mie pareti fino a quando, nell’attimo del massimo piacere, entrambi crollarono a terra ridendo sulla mia piattaforma, con sospiri come di chi avesse appena corso cento metri a perdifiato.

Rimasero in silenzio mano nella mano per alcuni istanti e quando si alzarono per ricomporsi non si accorsero di quanto le mie lacrime avessero inumidito le pareti. Probabilmente avranno inteso fosse stata la condensa, come quando si fa l’amore in macchina.

Quando si furono rassettati alla bene-meglio, Marina spinse il tasto “terra” sistemandosi i capelli allo specchio.

Ma a quel punto io avevo già preso la mia decisione.

E dopo il piano zero proseguii la mia folle corsa fino alla fine del pozzo, portando per sempre con me i cuori dei due teneri amanti. Insieme al mio.

 

 

 

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