Premio Racconti nella Rete 2018 “Rosso” di Antonella Mari
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Oggi Napoli è frenetica.
Fu la prima cosa a cui Andrea pensò aprendo la porta in ferro battuto, che affacciava sul terrazzino condominiale.
Quel pensiero lo divertì.
Aveva scelto il giorno migliore per gettarsi di sotto.
Immaginava già la macabra scena del suo corpo riverso sull’asfalto con qualche arto posizionato in maniera snaturata e il cranio fracassato; la gente diramarsi in direzioni opposte, urlando e imprecando che un figlio di puttana aveva fatto iniziare loro la giornata nel verso sbagliato, lanciandosi dal quinto piano di una palazzina. Buttò un’occhiata di sotto: le persone camminavano a passo spedito, stringendosi nei loro impermeabili, magari nuovi, magari di seconda mano.
Non potevano essere così insulsi i suoi ultimi pensieri.
Andrea si picchiettò la fronte con la mano sinistra. Era un tic che lo caratterizzava: tamburellare le dita su qualsiasi superficie, compreso se stesso, per concentrarsi.
Atteggiamento ossessivo compulsivo lo aveva definito Lea, la psicologa del secondo piano che l’aveva preso a simpatia, offrendogli sedute gratuite alcune sere quando l’orario di visite era ormai finito.
Lea aveva preso l’abitudine di lasciare la porta socchiusa, mettere a bollire l’acqua per il tè e attendere finché non lo vedeva scivolare dentro casa come un’ombra; sentirgli dire posso? e prender posto sul divanetto di cuoio. Tirava fuori dalla credenza due tazze, entrambe sbeccate e vecchie, versava l’acqua e intingeva le bustine. Andrea si perdeva dietro a quei gesti meccanici, diventati familiari. E per un breve istante si sentiva invaso da una calma apparente.
« Oggi come vanno le cose Andrea? »
Gli rivolgeva la domanda di rito mentre si sedeva accanto a lui. Era una confidenza che con gli altri pazienti non si prendeva, perché sapeva bene che evitare di stringere rapporti di intesa con uno di loro era prerogativa di ogni psicologo che si rispettasse. Ma con Andrea le cose erano diverse. Lo erano state fin dall’istante in cui lo aveva trovato davanti alla porta di casa, con due occhi spenti, il viso stanco e qualche scusa un po’ banale che giustificasse la sua irruzione a quell’ora tarda della notte. Si era trasferito da un paio di mesi nella palazzina, lasciando la casa precedente: troppo grande per una persona sola.
E non aveva aggiunto altro a riguardo.
Un giorno Andrea aveva notato una leggera affluenza di persone nelle prime ore del pomeriggio e ne aveva chiesto spiegazione alla signora che abitava sul suo stesso pianerottolo. Questa gli aveva allora raccontato di Lea e del suo studio.
« Sai, aiuta le persone a stare meglio. »
La signora Lombardi gli aveva poi sorriso e ringraziato per averla aiutata con le buste della spesa.
« Avrei bisogno di stare meglio anche io. »
Quelle parole gli uscirono dalle labbra a voce bassa ma ferma e Lea non potè far altro che aprire la porta, accogliere in casa quel cane randagio e offrirgli un pasto.
Mentre si sedeva sul cornicione lasciando le gambe a ciondolare nel vuoto, Andrea la immaginò tra le pareti accoglienti del suo studio, intenta ad appuntare qualcosa sull’ agenda in pelle nera.
« Mi raccomando Andrea, niente stronzate. »
Ricordò le ultime parole che Lea gli aveva rivolto la sera precedente mentre lo accompagnava alla porta, quasi come se avesse percepito nella sua aria afflitta qualcosa di più macabro del solito.
Lui si era limitato ad accennarle un sorriso e voltandole le spalle, ebbe il timore, anche se solo per un istante, che quella donna fosse in grado di leggergli nella mente.
Niente stronzate.
Si ripeté ancora una volta, fissandosi gli orribili mocassini neri ai piedi e tamburellando le dita sui pantaloni.
Guardò di sotto: la gente camminava, le auto proseguivano in file disordinate, i tavoli del bar Da Ciro si affollavano. Si concentrò sul semaforo prima rosso, poi verde e poi di nuovo rosso. Notò le aiuole secche e non curate che separavano le carreggiate; i marciapiedi sporchi; le vetrine dei negozi con le decorazioni natalizie gia affisse; la fioraria Rosa dal seno prosperoso e le guance sempre rosse annaffiare le piante esposte fuori. Guardò la vita dall’alto scorrergli sotto il naso e si chiese come fosse possibile che il resto del mondo andasse avanti con i propri impegni, quando invece c’era chi stava pensando o attuando un piano per finirla.
La gente é egoista, non capisce, sentenziò.
Nessuno avrebbe potuto capirlo, neanche Rosa che ogni mattina vedendolo passare, lo braccava finché Andrea non si sentiva costretto ad ascoltare altri aneddoti sui suoi figli, che la facevano disperare ma che amava alla follia.
« Tu e la tua signora dovreste proprio mettere al mondo un marmocchio, vi stravolgerebbe la vita. »
Andrea si limitava ad annuire senza aggiungere altro, divertendosi ogni volta per i suoi tentativi grossolani di cavargli da bocca qualche notizia in più sul proprio conto. Lasciava Rosa ai suoi servizi e alle sue più disparate congetture.
No, neanche Rosa avrebbe potuto capirlo.
Neanche Lea.
Neanche Andrea capiva Andrea.
Continuò ad osservare quello scenario di vita quotidiana e si sentì quasi offeso per quella indifferenza ricevuta.
Inspirò profondamente, lasciando che l’odore di Napoli, cibo fritto e smog, gli pizzicasse le narici. Seguiva con lo sguardo ancora una volta i movimenti di Rosa, intenta a parlare con una cliente quando la sua attenzione fu catturata da un dettaglio: una chioma rossa.
E fu come se da quel terrazzo si fosse gettatto e schiantato al suolo per davvero.
Un’onda di ricordi lo invase, insinuandosi anche negli angoli più remoti della sua mente e non ebbe altra scelta che lasciarsi trasportare inerme dalla marea del passato.
Divenne spettatore della sua stessa vita.
Vide un Andrea giovane, con più barba e meno casini per la testa, in una casa di cui ricordava ancora i dettagli: le mura bianche, le porte in mogano, il corrimano delle scale di un verde acido.
Vide se stesso in bilico su una scala, intento ad affissare un quadro alla parete, mentre una chioma rossa gli girava attorno frenetica, intimandogli di far attenzione.
« Cosa ne pensi? Lo lascio così? »
Lei annuì in segno di assenso. Andrea scese dalla scala, fece qualche passo indietro per ammirare il lavoro svolto. Le circondò la vita e l’attirò a sè, stringendosela forte al petto. I suoi capelli gli solleticavano il mento, facendolo sorridere.
Si vide, poi, girare a piedi nudi sul parquet con indosso solo i boxer e in mano un birra fredda, mentre una musica blues proveniva dalla cucina. Vide lei armeggiare ai fornelli, con i capelli raccolti in uno chignon disordinato, il collo sudato per l’afa estiva.
E poi ancora lei, nel lungo vestito rosso, con le labbra tinte e gli occhi grandi, così intriganti e pieni di mistero, che lo spingevano a domandarsi a volte se conoscesse realmente la donna che gli sedeva di fronte, che la notte lo spogliava per farci l’amore e il mattino lo svegliava col caffè. Quella donna a volte moglie, a volte madre.
« Devi promettermi una cosa. »
Sollevò il capo per poterlo guardare.
Andrea si perse nei suoi occhi scuri come il fondo dei caffè.
« Devi promettermi che non manderai tutto a puttane, se dovesse accadere qualcosa a me, a noi. »
Andrea sbuffò.
« Prometti! »
Lo incalzò lei, inchiodandolo con gli occhi.
« Lo prometto. »
« Per davvero. » ribattè lei.
« Per davvero. » giurò lui.
L’avvolse in un abbraccio, facendola scomparire dentro di lui. Tuffò il naso nei suoi capelli, inspirò il profumo all’arancia del suo shampoo ed ebbe quasi l’impressione che il petto potesse esplodergli per l’emozone.
Si domandò se di troppo amore si potesse anche morire e la vita gli rispose.
I polmoni andavano in fiamme, le gambe macinavano chilometri, il cuore martellava veloce nel petto e nelle orecchie. Scansava la gente, evitava le macchine, riceveva insulti dagli automobilisti, che si vedevano sbucare davanti un uomo che correva disperato, come se si trattasse di vita o di morte.
Morte.
Svoltò l’angolo correndo a perdifiato e rischiando più volte di inciampare. Si raddrizzò, fermandosi di colpo. La strada era bloccata, la sirena dell’ambulanza era un fischio assordente che trapanava il cervello. La folla si accalcava per vedere, curiosare, come se stessero girando la scena di un film d’azione. Si fece avanti sgomitando tra la gente, poi s’arrestò.
La vide: una chioma rossa, sotto un telo bianco che ricopriva un corpo inerme.
Napoli viveva sotto i suoi piedi.
La gente rincorreva la propria vita. Rosa era ancora intenta a parlare con la ragazza dalla chioma rossa. La salutò, consegnandole una pianta che Andrea non riuscì a riconoscere. Vide la ragazza farle un cenno con la mano e la seguì con lo sguardo. Fissò i suoi capelli mossi dal vento pungente di novembre fin a quando non sparì, risucchiata dalla frenesia caotica di Napoli.
E per Andrea fu di nuovo tutto rosso.
Lea si destò all’improvviso.
Dei colpi secchi alla porta la fecero trasalire.
Trascinò i piedi scalzi sul marmo freddo del pavimento verso la porta, massaggiandosi la base del collo e maledicendosi per essersi addormentata sugli appunti presi durante le sedute del pomeriggio.
Guardò di sfuggita il grande orologio in legno nell’angolo della stanza.
Erano quasi le tre del mattino.
Altri colpi secchi alla porta.
Accelerò il passo.
Fece girare il chiavistello.
Aprì.
E non si sorprese nel trovarselo davanti, con il volto cianotico e quell’aria di chi capitava lì per caso. Mosse le labbra per invitarlo ad entrare, ma lui la fermò.
« Lo sa che ci sono animali che non vedono tutti i colori? »
Lea corrucciò la fronte, interdetta per quell’affermazione a quell’ora tarda della notte.
« Notizia stupefacente Andrea, ma avresti potuto aspettare anche domani mattina per dirmelo. »
Andrea, intestardito, la ignorò.
« Di che colore vede lei ? »
Lea alzò gli occhi al cielo, la stanchezza la rendeva meno affabile con gli altri.
Andrea non le staccava gli occhi di dosso e Lea si sentì costretta a rispondere, capendo che nessuno dei due si sarebbe mosso di lì senza finire prima la conversazione.
Gli fece di nuovo cenno di entrare, ma lui scosse il capo.
« Risponda. »
Lea non riusciva a spiegarsi perchè Andrea le desse del lei, nonostante i pochi anni di differenza che avessero. Era un paritolcare che la irritava, facendola sentire distante da lui.
Sospirò, socchiudendo appena gli occhi.
« Sono una persona tranquilla, serena e anche in pace con se stessa ed è per questo che credo di vedere in verde. Un verde pastello, diluito con l’acqua, una passata leggera sulle cose. E tu? »
Lea lo incalzò.
« Rosso. »
« E perchè rosso? »
« Perchè il rosso è il colore delle promesse. »
Lea non capì, inclinò appena il capo, appoggiando il peso del proprio corpo alla porta.
« Che tipo di promesse? » domandò scrutandolo.
« Di non mandare tutto a puttane. »
Il fantasma di un sorriso apparve sul volto di Andrea.
E Lea pensò che quello era il massimo che potesse ricevere da lui, almeno per il momento.
Andrea si è perduto e si capisce bene. Rimane appeso alle promesse dell’amore. Non sappiamo se si salverà…qualcuno gli tiene aperta una porta, come dire che c’è sempre una via d’uscita.
Brava, hai detto tanto con pochi elementi incontrando esperienze universalmente vissute e note.
Mi è piaciuto, anche se a un certo punto mi ha colto la frenesia di voler capire dove andava a parare la storia e ho dovuto rileggerlo più volte per comprendere.
Ciao Ilaria, ti ringrazio per il commento. Ammetto che temevo questa cosa, che il racconto potesse apparire frenetico, a volte anche sconnesso, come se corresse via. Credo però che questo mio modo di scrivere sia conseguenza proprio del mio modo di vivere e pensare, sempre veloce, sempre in movimento. Dovrei imparare a fermarmi a volte. Se hai critiche/consigli da rivolgermi li accetterò ben volentieri. È la prima volta che ho un confronto diretto su un mio racconto e sento davvero il bisogno di dovermi migliorare.