Premio Racconti nella Rete 2018 “A casa” di Serena Brugnoli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Sono stanca. Mi trascino a mala pena in questo lurido appartamento dove mi spezzo la schiena con metodica sopportazione. Passano tutti di qui, prima o poi. Forse anche voi siete stati con me. Forse siete uomini d’affari tanto affascinanti e raffinati fuori quanto rozzi e perversi dentro, oppure siete solo dei ragazzi ubriachi, spavaldi o timidi, mai indecisi.
Perché penso a voi? Non lo so.
Ogni volta che uno mi sbatte su questo letto rancido di eredità altrui la testa mi porta altrove, cerco di immaginare le vostre donne: madri, figlie, sorelle o compagne. Cosa raccontate loro quando tornate a casa?
Casa… che parola sconosciuta. Niente per me è casa: neppure questo corpo squartato ogni volta dalla vostra voracità. Mangiate questa mia carne come farebbe un lupo, ma lasciate gli avanzi di carogna all’avvoltoio successivo.
Alle volte mi picchiate perché questo vi diverte e vi fa sentire forti. Ti ho rivisto sai, l’altro giorno, sì proprio tu, con quella giacca azzurra che tua moglie ti ha costretto a indossare per andare in chiesa. Hai finto di non vedermi mentre ti passavo a fianco e lei bisbigliava “sgualdrina”. Sei senza pelo con lei, non hai la forza nemmeno di alzare la testa sul collo, figurarsi qualcos’altro. Eppure quando mi hai spezzato un braccio hai riso. Se non ricordo male mi hai sputato addosso e mi hai detto che almeno i tuoi soldi sarebbero finiti in medicine.
Guardati ora: sei solo latte bollito, come tutti gli altri luridi esseri che madre chiesa ha messo alla guida del mondo.
Una volta ho provato a parlare con uno di voi, un pretino chiuso nella sua bella gabbietta al riparo da sguardi indiscreti. L’unica cosa che ha saputo dirmi è stato chiedere se chi veniva con me sosteneva il ritmo della lavatrice. Misero infame.
E ora ecco l’ennesimo della giornata. Ride. Fa lo spiritoso. Credete veramente che mi piaccia? Siete così inutili da pensare di essere così importanti? Vi guardo e ho il vomito. Prendete il mio corpo e non vi tirate indietro, non guardate negli occhi e vi sentite Dio. Prendete, prendete, prendete. L’uomo nasce col verbo prendere sulla bocca. Lo sputa fuori anche mentre dice per la prima volta “mamma” e prende, prende, prende. Finirete mai?
Madre Santa, quanto mi fa male la schiena! E questo sopra di me è lento a venire mentre tenta di inseguire anche lui come gli altri il ritmo della lavatrice… siete così tanto sporchi dentro che l’unica cosa alla quale sapete pensare è sbattere al ritmo di una lavatrice. Dell’inquilina di sotto poi, accidenti! Ha settant’anni e per quaranta si è spezzata la schiena alla mia stessa maniera. Ora lava in continuazione per dimenticare.
Che Dio mi fulmini se farò la stessa fine. No, io no. A me non toccherà.
Voglio tornare al mio paese: piccole casupole racchiuse da monti protettivi, un lago verso sud dove fare il bagno con ingenuità. Un verde di speranza, un azzurro a sognare il futuro. Ecco come mi vedo, ecco come il mio cuore regge tutti questi pesi che si alternano su di me. Sogno la leggerezza del cielo su una casa dove i panni stesi ad asciugare sono di un biancore abbagliante, sogno il silenzio delle mie montagne e le corse con gli amici. Sogno di tornare da dove son partita, di riposare la schiena sulla terra fertile che mi ha dato al mondo. Ora il mio cuore è arido ma lo forzo a mangiare questo mio sogno proprio come voi mangiate me. Non ho perso la speranza che smetta di essere sterile e che possa partorire, un domani, una vita migliore.
Voi siete convinti di prendermi ma è la vostra stessa vita che vi divora: non ce la fate, correte e scappate ma non potete fuggire la fine che è per tutti. Io lo so e questo mi rende più viva di tutti voi. Prendere una donna vi fa sentire immortali, ma non lo siete, no, morirete come tutti e nel peggiore dei modi: creperete senza un passato e senza un presente, quando oramai la parola futuro sarà solo un’ipoteca non più concessa.
Ma io no, ho il mio sogno. So che morirò, il mio corpo può contare i giorni che mi separano dalla mia ora, eppure sento che tornerò al mio paese. Saprò godere di quel verde e di quell’azzurro, sazierò la bocca, come solo un bambino sa fare, con i sapori della valle e correrò, sì, correrò incontro alla mia morte nei luoghi dove son cresciuta. Ogni istante, ogni minuto sarà il mio presente e il mio futuro e mentre morirò guarderò verso l’alto e so che non vedrò più la faccia di un uomo che mi sbava addosso ma un cielo limpido, splendente.
La Madonna mi verrà a prendere e mi dirà:
“Figlia mia, vieni. Andiamo a casa.”
Bello e struggente.
bello, tagliente da far male. Grazie
L’uso della prima persona accentua il tono drammatico e accorcia le distanze con il lettore. Sembra una lettera, flusso di coscienza. Forti i toni di accusa, lacerante il dolore della protagonista.
Un pugno dritto nello stomaco.
Lo stile ti catapulta immediatamente nel dolore della protagonista e ti accompagna con forza fino a divorare ogni singola parola. Un racconto forte urlato nel silenzio. L’autrice davvero brava!
Ho apprezzato molto l’apparente contrasto tra la “critica” verso madre chiesa e la sacralità nella protagonista che invoca Dio e attende la Madonna …complimenti Serena, brava.
La cosa più triste è che, in effetti, non c’è scambio, nessuno scambio con nessuno. Solo un presente rancoroso di una lei che anela alla circolarità di una vita, alla speranza di tornare da laddove è partita, perché – per fortuna – almeno quello che c’era in partenza si è salvato. Non lo so se mi piace.