Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Giappominkia” di Eugenio Miosi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Matteo era un giovane ricercatore in Lingua e Letteratura Giapponese. Aveva dedicato gli anni del dottorato alla sua tesi sull’estetica nella narrativa di Kawabata Yasunari, che nel 1968 fu il primo giapponese a vincere il premio Nobel per la letteratura. Era stata proprio la lettura di questo autore ad avvicinarlo al Giappone e alla sua cultura ai tempi del liceo, determinante per la successiva scelta del percorso universitario da intraprendere.

 

All’università aveva familiarizzato anche con i classici, primo fra tutti il classico per eccellenza, La storia di Genji, di cui ammirava specialmente le poesie che ne intervallavano la prosa; gli piaceva citarle a lezione, spesso anche a sproposito.

 

Matteo lo si poteva definire un accademico nell’accezione un po’ critica del termine: devoto al canone, mal sopportava tutto quello che se ne distanziava. Dovendo avere però a che fare con dei ventenni per via della sua professione, suo malgrado si confrontava quasi quotidianamente con una certa fauna di studenti che condividevano interessi diametralmente opposti a quelli del loro docente. Amanti della cultura pop del Giappone contemporaneo, dichiaravano senza remore di essersi iscritti a quel corso di laurea solo perché spinti dalla passione per una certa band in voga al momento, o perché fans di un’autrice di una serie a fumetti che stava spopolando.

 

Tutto questo per il giovane prof. era intollerabile. Non riusciva a capacitarsi di come fosse possibile affidare una scelta tanto importante e cruciale come quella della carriera universitaria a un passatempo, a una distrazione. Certo anche lui era stato bambino e aveva avuto a che fare con cartoni animati e giochi del Sol Levante, ma riteneva che a una certa età tutto questo dovesse passare in secondo piano se non addirittura venire abbandonato in favore di interessi più alti.

 

A volte a lezione accadevano episodi che succhiavano via i residui di genuina voglia di insegnare e trasmettere che gli erano rimasti. Ad esempio alla lettura di un brano che conteneva parole o nomi propri già familiari per via di frasi celebri di qualche personaggio di fantasia, potevano partire risatine o gridolini più o meno soffocati, che gravavano in modo non indifferente sul sistema nervoso dell’insegnante.

 

Oltre all’udito, anche il senso della vista era quasi una maledizione durante le sue lezioni. Dalla prospettiva della cattedra Matteo aveva una visione che gli dava la nausea: quaderni, astucci e zainetti con mostriciattoli accostati in modo blasfemo agli ideogrammi, sublime forma di scrittura data in pasto a disgustosi rappresentanti del consumismo contemporaneo.

 

L’apice tuttavia era raggiunto da ragazze che senza il minimo pudore entravano in aula in abiti da cosplay, il vestirsi da personaggi di fumetti e cartoni, una tendenza che Matteo derubricava come carnevalata. Quella era la stessa risma di gente che ripeteva gli esami infinite volte, costringendo il povero ricercatore a rivedere quelle facce in aula per anni.

 

Matteo aveva scoperto che c’era una parola per definire quel tipo di persone: giappominkia, riduzione semantica del più generico bimbominkia, avrebbe osservato un collega linguista.

 

Era curioso, ma questo neologismo del mondo di Internet non gli procurava l’orticaria come poteva essere prevedibile; forse perché finalmente il suo disprezzo aveva trovato una sequenza di suoni che in un certo senso lo concretizzava, gli dava pieno valore e provava che in fondo Matteo non era solo in questa battaglia contro i mulini a vento, che c’era chi attraverso questa parola condivideva il suo stato d’animo davanti a certi errori di Madre Natura.

 

Questa solidarietà però non gli servì a nulla quel giorno, l’ultimo giorno per l’ultimo appello della sessione invernale, il giorno in cui Katia S. si presentò all’esame con una borsa gialla e pelosa che sorrideva; sì, la borsa aveva stampato addosso il sorriso vuoto ed ebete di un coso che aveva pure due palle rosse a mo’ di guance e tre file simmetriche di baffi che partivano da un triangolo viola che doveva essere il naso.

 

Katia S. non ebbe nemmeno la decenza di lasciare a terra la borsa, magari temendo che si sporcasse. Matteo la fissava stordito, la fissava anche troppo quella borsa, tanto che Katia S. tutta tronfia e in cerca di approvazione gli fece: “Kawaii desu ne?”

 

No, quello non lo doveva fare. Aveva messo una ciliegina marcia su una torta andata a male. Aveva osato chiedere al suo professore se anche lui pensasse che la sua borsa fosse carina, e lo aveva fatto in giapponese, utilizzando quel kawaii che molti ritengono il nuovo concetto estetico del Giappone pop. Un coniglio rosa è kawaii, una bella ragazza vestita alla marinaretta e con un ombrello dai bordi di pizzo è kawaii, un gattino che rotola senza soluzione di continuità in un video in Rete è kawaii, una stramaledetta borsa pelosa che ti fissa sorridendo è kawaii!

 

La torta e la ciliegina travolsero Matteo. Il giovane ricercatore stavolta non riuscì a trattenersi. Quasi a dover ribattere a quella parola con una formula apotropaica che ne scacciasse gli effetti malefici, Matteo si lasciò andare a un inequivocabile: “Sei una giappominkia!”

 

Gli ci vollero due settimane prima di potersi ripresentare a lezione dopo la sfuriata, la cui eco come prevedibile si era diffusa in poco tempo in tutta la facoltà. Matteo se lo aspettava e non si lasciò intimorire dagli sguardi degli studenti. Prima di iniziare con l’analisi dei testi chiarì ai presenti che quel che aveva fatto era dovuto allo stress e che in seguito aveva chiamato Katia S. per scusarsi.

 

Gli studenti erano sbalorditi: il prof. sembrava un altro! Si complimentò con Alessandra T. per il cerchietto con le orecchie, notò il titolo del fumetto che Paolo F. stava leggendo e ne apprezzò il gioco di parole, ma quello che li lasciò più stupefatti fu l’annuncio della sua partecipazione alla fiera del fumetto del fine settimana successivo.

 

“Mi raccomando, venite anche voi! Faremo il pieno di kawaii!”

 

Il sabato alla fiera Maria C. e Jessica B. lo intravidero tra la folla e tentarono di evitarlo, ma il loro giovane professore le intercettò e le salutò agitando il braccio. A malincuore dovettero raggiungerlo e scambiare qualche parola con lui. Notarono la maglietta che indossava, nera con due ideogrammi rossi in verticale.

 

“Vi piace? Si legge Rinbyoo. Significa ‘sole che attraversa le foglie degli alberi’. In due soli caratteri, non è impressionante?”

 

Le ragazze si mostrarono realmente interessate e ricopiarono i caratteri sui loro diari.

 

“Sono contento che apprezziate. Ci si vede lunedì!”

 

Il ricercatore passò il resto della giornata ad attaccare bottone con più giappominkia possibile, sia suoi studenti che perfetti sconosciuti. Il suo scopo era quello di far conoscere i caratteri stampati sulla propria maglietta nella speranza che qualcuno li avrebbe usati “ad effetto” su agende, zaini, felpe, magari perfino come tatuaggi.

 

La vendetta avrebbe raggiunto l’apoteosi qualora gli sventurati avessero incontrato dei giapponesi a cui mostrare orgogliosi quella poetica combinazione di ideogrammi e dimostrarsi così sensibili e affini ai principi estetici del Paese dei loro sogni. I giapponesi in questione li avrebbero derisi o se ne sarebbero allontanati in preda al disgusto.

 

Perché andare in giro con i caratteri per gonorrea non è esattamente quel che si definisce kawaii.

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2 commenti »

  1. Ha ha ha, il tuo racconto è davvero kawaii 🙂

  2. Forte Eugenio! Molto molto divertente, complimenti!

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