Premio Racconti nella Rete 2018 “Ofelia muore” di Leonardo Niglia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Così che quando lei disse che era stanca, anche del camerino e dei vestiti che aveva addosso, a lui venne in mente il gusto dolciastro dello sciroppo che sua madre gli faceva bere quando, da bambino, era malato.
Già allora scuoteva la testa e i riccioli gli cadevano sugli occhi, a dargli fastidio. Il sapore delle mandorle. Gli veniva sempre da vomitare.
«Sono stanca,» aveva detto. Con la mano, la sinistra, si toglieva il trucco da sotto gli occhi. Era pallida sotto il cerone.
«Stanca di questo costume, di questo camerino. Sono stanca di morire tutte le sere, solo perché tu non sei in grado di amarmi quel tanto che basta da salvarmi.»
«Perché? Tu pensi che un amore possa salvarti?»
«Nella stessa misura in cui può perdermi.»
«D’accordo, ma non è stato scritto così. C’è un testo, una commedia, un autore. E tu devi morire ogni sera e io ogni sera disperarmi e perderti e soffrire. Non c’è alcuna via di fuga, non c’è nessuna te che si alza dal pavimento, si alza e sputa il veleno e mi corre incontro.»
«Potessi almeno smettere di bere il veleno.»
«Preferisci annegare, di nuovo? Come facevi una volta? Non è molto meglio il veleno?»
«No, ti prego. Non voglio più annegare. Sono contenta che anche il pubblico lo abbia capito. Non riuscivo più a sopportare quella sensazione di soffocamento.»
«Lo vedi? Non c’è alternativa. E io poi cosa dovrei fare? Se tu non morissi, cosa potrei fare? Niente. Cosa pensi…che mi metta a improvvisare? E poi non potrei disperarmi e soffrire, come se fossi pazzo. E sai che quella parte mi viene davvero bene.»
«Sai che gusto ha quel veleno? Sa di mandorle, assomiglia a uno sciroppo per la tosse.»
«E poi ogni sera, da quindici anni, vengono da ogni parte, persino da altre città, per vedere te che muori e io che impazzisco. Abbiamo anche delle responsabilità, per tutto quello che gli altri si aspettano da noi. Non credi?»
«Potresti morire tu, una sera, e io impazzire. Così capiresti cosa vuol dire prendere tutte le sere, e due volte al giorno, nei fine settimana, un veleno che ti fa venire in bocca il gusto dolciastro delle mandorle, e cadere sul palcoscenico e poi smettere all’improvviso di muoverti, di respirare, di avere un pensiero. Sentire solo il freddo e duro legno e capire quanto il tuo vestito è sottile e quanto diventa sottile, anno dopo anno, dopo quindici anni, e come alla fine non c’è nessuna differenza tra te e il pavimento, che è poi questo legno che calpesti anche tu, che anneghi con le tue lacrime inutili. (Se avessi pianto un po’ quando ero in vita, quando avevo quindici anni di meno, avessi pianto un poco, almeno un poco, ma questo ovviamente non glielo disse). E ogni sera è sempre più difficile farsi trascinare fuori quando spengono le luci e tu avanzi sul proscenio. Alzarsi, smettere di essere pavimento, ricominciare a muoversi, respirare, avere un pensiero, eccetera eccetera. Insomma quello che ogni sera da quindici anni perdo per colpa del tuo amore imperfetto, e cioè vivere.»
E allora, come se vivere stesse a significare qualcosa di più di quel che era, e cioè solo un segno grafico, o un fonema, in quel particolare caso, lei si alzò di scatto, respingendo la sedia alle sue spalle e lui pensò, Come è teatrale.
Aveva il volto ancora per metà truccato, il mascara secco sembrava un fiume seccatole sulla guancia. La luce le tagliava perfettamente il viso, lasciandone una metà in ombra.
«Spostati da lì,» le disse.
«Perché?»
«Voglio vederti intera.»
«Sono quindici anni che mi vedi.»
«Non è la stessa cosa, » disse lui «Allora non sei tu quella che vedo.»
«Come fai a esserne sicuro? Da quando sai dividere vita e finzione?» Gli si era avvicinata e aveva tra le labbra carminio una sigaretta. Le pendeva come un ramo di salice, un salice che scivolava velocemente e senza ritorno nel fiume di fiamme che scorreva attraverso gli occhi di lui e le labbra rosso carminio di lei.
«Non è la stessa cosa» ripeté lui, indietreggiando.
«Sempre che si possa davvero fare una divisione, una divisione vera, tra vita e finzione.»
«Adesso non sto recitando.»
«Sei sicuro? Sei sicuro che per la prima volta in quindici anni non sia davvero solo questa l’unica volta in cui reciti, e la tua vita, la tua vera, sola, unica vita non sia quella che ogni sera impazzisce e mi priva della mia, là fuori?» e indicò con la mano il corridoio, buio in quel momento, che portava alle quinte.
«Non c’è nulla là fuori, smettila.»
Adesso erano entrambi seduti, ma molto distanti. Lui era davanti allo specchio. Non sapeva nemmeno come ci era arrivato. Per darsi un contegno si mise a ordinare le matite che lei usava per delinearsi il contorno degli occhi, dalla più lunga alla più corta, partendo da destra. La più lunga era un’ocra scuro, la più corta un blu notte.
«Non mi ero mai accorto che avessi gli occhi con dei colori così belli. Mai una volta in quindici anni.»
Lo disse cercando di dare alla sua voce un timbro ben preciso, come di uno a cui interessi veramente dei suoi occhi dipinti di notte, e si rammarichi per non averli mai visti davvero in tutto quel tempo.
«È perché sei un bravo attore. Non mi hai mai guardato negli occhi. Pensi che se mi avessi guardato, anche solo una volta, in questi quindici anni, avrei deciso di uccidermi?»
«Non sei tu che decidi, te l’ho già detto.» Tornò a contemplare i suoi accessori per il trucco, le rose appassite nel vaso.
«Dovresti buttare via queste rose o dare loro un po’ d’acqua.»
«Stanno bene dove stanno, a segnare il tempo di questo posto. Il tempo. Un lento appassire di fiori in un vaso.»
Rabbrividì.
«Puoi piangere se vuoi. O toccare le matite o qualsiasi altra cosa vuoi. O entrambe le cose. Ti vedo nello specchio.»
Lei sorrise e lui capì di avere la febbre.
Quando il temporale se ne andava lasciava sempre nell’aria della sua città un profumo di rose selvatiche e more. Si aggrappava alle finestre e cercava di penetrare attraverso le imposte, chiuse perché non sbattessero. I raggi del sole lasciavano striature di luce, sornione come gli occhi socchiusi dei gatti, sul pavimento lucido della stanza e sul cuscino sgualcito del suo letto, sul suo viso malato.
Poi arrivava sua madre, cantando dall’altra stanza, in uno svolazzare di profumo, e spalancava le imposte e la luce entrava prepotentemente, svegliando i gatti e facendo ruzzolare il cielo, adesso sgombro, di nuovo luminoso, assolutamente dimentico, nella stanza e nei suoi occhi, e sua madre diceva, È finito di piovere, mio caro, è l’ora della medicina.
Salutava con la mano la giovane sposa che stendeva i panni sul filo che univa i loro due balconi e lui diceva tra sé e sé che un giorno si sarebbe aggrappato con entrambe le mani al filo e poi al cornicione della casa dirimpetto e sarebbe penetrato con una rosa in bocca nella camera da letto della giovane sposa e nella giovane sposa anche. L’avrebbe amata senza gentilezza, consapevole che non era nulla per lui, e poi l’avrebbe pugnalata con la rosa. Gliel’avrebbe piantata direttamente nei denti, perché ogni giovinezza deve morire, ma con dolcezza.
Ma poi sua madre gli porgeva il cucchiaio colmo di sciroppo e gli diceva di bere e lui beveva, e prima che potesse pensare altro la nausea lo inchiodava al letto, i gatti rientravano silenziosi nella stanza, accucciandoglisi sulle tempie, e qualcuno prendeva a cantare da nessundove.
Quando si svegliò, un mattino, gli dissero che aveva dormito a lungo, dal momento in cui lo avevano raccolto dal ciglio della strada. Era caduto da più di dieci metri d’altezza e sua madre gli disse, piangendo, che era felice, e che non avrebbe più dovuto prendere la medicina, e allora lui stesso fu felice. Per molto tempo.
E pensò che in quel momento, in cui lui stava davanti a uno specchio, con le mani tremanti e gli occhi vacillanti, con il sapore delle mandorle invischiato al palato, la febbre che gli strisciava nel corpo, in quel momento, da qualche parte, un temporale doveva aver lasciato odore di rose selvatiche e more, rampicante sui cornicioni di una città, e si stava dirigendo verso un’altra città, forse stava per precipitarsi sul loro teatro. Sarebbe entrato, con le sue dita tamburellanti di pioggia dal soffitto, dalla porta, senza pagare il biglietto, avrebbe tuonato dal loggione, gettando sprezzante foglie marce sul palcoscenico, avrebbe strappato un applauso frusciante alle tende del sipario, avrebbe cercato e trovato la via dei camerini, divelto in un soffio impetuoso la moquette consunta e mangiucchiata dai topi, si sarebbe raccolto in un vortice dietro la porta, a cui la donna era appoggiata, e l’avrebbe scardinata, facendola volare in mille pezzi sul suo viso riflesso nello specchio.
«Levati di lì.» le disse, passandosi una mano sulla fronte sudata.
Lei ubbidì meccanicamente e andò a finire la sua sigaretta nel bagno, una luce giallastra, che si
apriva alle spalle dell’uomo. Ma lui poteva vederla capovolta nello specchio. La sua vestaglia verde scintillava.
Regnava, profondo, lontano, il silenzio.
Cominciò a truccarsi. Lei lo guardava assorta, dalla porta del bagno, pensando alle cattive parole, a tutte le cattive parole, che aveva detto a sua sorella, che vedeva abbastanza raramente. Gli chiese distrattamente cosa faceva. Le rispose, Non lo vedi?
E lei allora sorrise e cominciò a sfiorire, per la prima volta in quindici anni, ai suoi occhi.
Cominciò dai capelli.
Lui entrava in scena quando lei era morta da poco. Aveva un bellissimo cappello di piume e uno spadino legato al fianco che pareva vero, era vestito di nero, come un lutto previsto e anticipato.
Era stesa sul palcoscenico – morta ovviamente – ma di lei si vedeva solamente l’orlo verde del vestito, impolverato come tutti se lo immaginavano, e il polso, bianco, dove un tempo scorreva a pieno ritmo la vita, mentre adesso, che pena, sono solo venature celesti che attraversano, incidentalmente come nuvole estive, il marmo.
Poi, da dietro, con una calma precisa e sudata, la tiravano via dal palco e la luce era tutta per lui che all’improvviso si rendeva perfettamente conto di molte cose, come ad esempio che le lacrime non scendevano più come una volta a rigargli il volto, come la prima volta che aveva recitato quella scena, quindici anni prima, ah ma allora erano gli anni Settanta, diceva a mo’ di giustificazione, quando piangevo perché ti perdevo, e che il riflettore centrale si stava istericamente spegnendo e non poteva farlo un’altra sera, non quella che era venuto il Ministro, e che doveva essere stato davvero stupido per permettere che lei ogni sera si uccidesse per causa sua e che il suo polso strisciasse bianco sulle assi del palcoscenico, privo di vita. Stupido, davvero stupido.
Capì che lei doveva essere stanca di quella non vita.
Si girò nella direzione in cui pensava di trovarla ma non la vide ferma al suo posto.
Era di nuovo con le spalle alla porta, ed era nuda.
Si accorse di stare guardandola per la prima volta, per la prima volta in quindici anni.
Capì che lei non poteva saperlo. Ma faceva lo stesso.
Erano due sconosciuti che si vedevano per la prima volta e parlavano come se si conoscessero da sempre.
I seni erano diversi da come li ricordava ed erano certo più cadenti, ma comunque erano una buona imitazione della vita e del tempo trascorso.
«Vorrei toccarti.»
«Rovineresti tutto.»
«Vorrei poterti salvare, domani.»
«Non ci sarà nessun domani in cui potrai salvarmi. Domani non sarò più qui»
«Tu sei pazza.»
«Ho un aereo da prendere, tra un’ora circa. Devo prendere un taxi. E un mazzo di violaciocche per mia sorella.»
«Tu non hai sorelle.»
«Questo lo dici tu, perché non le hai mai viste. Ho una sorella a cui ho detto cattive parole, tempo fa, non ricordo.»
«Dimmi il nome di tua sorella.»
«Il nome?Ho un aereo da prendere.»
«Non ci sono aerei nella commedia. Non li hanno ancora inventati.»
Le sue mani avevano preso a stringere la maniglia della porta in modo spasmodico.
«E non ci sono battute che potranno aiutarti ad aprire quella porta, perché non c’è niente dietro.»
«Come niente?», rise. «C’è un lungo corridoio, con la moquette mangiata dalla muffa e dai topi. Al fondo ci sono due porte: quella di destra porta al palcoscenico, l’altra porta a un ingresso di servizio, che dà in strada. Lo sai meglio di me.»
«Lo so, dici? E tu come lo sai, se non l’hai mai visto?»
«Come non l’ho mai visto?»
Allora l’uomo dal viso truccato per metà si alzò dalla sedia e diede le spalle allo specchio e avanzò verso la donna che si appiattì ancora di più, se questo fosse possibile, contro la porta. Sentiva la maniglia fredda, contro la schiena nuda.
«Lascia che ti tocchi.» disse
«No, te l’ho già detto.»
«Vorrei poterti salvare domani, davvero. Lo sai, ma non posso.»
«Di’ il mio nome.»
«Perché?»
«Perché voglio sentire la tua voce.»
«È un’eternità che parliamo.»
«Voglio sentire la tua voce che dice il mio nome.»
«Come sai che lì, dietro quella porta, non c’è nulla?»
«Ascolta. A volte mi addormento dalla parte sbagliata del letto e sogno sempre questa scena, di te che ti alzi, ti togli il trucco e mi dici che sei stanca.»
«E allora?»
«E allora niente. Il sogno finisce sempre che tu non puoi passare quella porta e mi dici che hai freddo alla schiena, un freddo mortale, e non trovi più i vestiti e piangi perché sei nuda e tutti ti possono vedere, ma qui ci sono solo io.»
«Io non ho freddo. Io dico solo che sono stanca e che vorrei andarmene, prendere un taxi e andare all’aeroporto, perché c’è mia sorella, che non vedo da molto tempo.»
«Perché non lo fai allora?»
«Lo farò,» disse lei, in tono di sfida, ma non si mosse.
L’uomo la guardò. Una pena sconosciuta, una pena profondissima nei suoi occhi.
«Ho paura del buio. Da bambina non potevo addormentarmi se era buio. Lì fuori è tutto buio, non ho fiammiferi.»
Allora l’uomo tornò stancamente allo specchio e si mise ad alitare sul vetro, come se fosse la cosa più importante del mondo. Poi, quando fu un po’ appannato, prese a disegnare col dito dei piccoli cerchi concentrici.
«Forse se provassi a sognare qualcosa di diverso», suggerì lei.
«Diverso come?»
«Forse se sognassi,» disse lei, prendendo coraggio, «forse se sognassi che riesco ad aprire la porta e andarmene, potrei farlo, potrei essere libera. Forse ci sarebbe luce anche, invece del buio, se provassi a cambiare lato del letto.»
«Ma ora non sto sognando.»
«Beh ma potresti.»
«Non ho sonno.»
«Potresti poggiare la testa qui» e indicò il suo ventre «e dormire un poco. Non credi che meriti di andarmene, dopo quindici anni? Non posso essere stanca?»
Lui continuava a scrivere sul vetro appannato.
Maledetto, pensò, mi avrà già fatto perdere una buona mezza dozzina di taxi. Come ho potuto morire per lui, come ho potuto fingere (se mai ho finto) di provare amore per lui?
Per lui che è grasso adesso, ma un tempo non lo era, quando erano entrambi giovani e avevano messo su la commedia. Allora sua madre si era arrabbiata ed era più o meno a quell’epoca che aveva detto a sua sorella delle parole molto cattive, che l’avevano ferita, ma non ricordava quali; e lui passava ogni sera sotto casa sua a prenderla con la sua decappottabile verde (che aveva comprato a rate) e ogni sera aveva un fiore diverso, poi, quando aveva finito i fiori (ed era passato un bel po’ di tempo), le aveva chiesto se voleva andare a vivere con lui e lei era arrossita tutta e aveva detto che le sembrava una buona idea (Sì, certo, verrò a vivere nella tua casa) dopo tutti quei fiori (l’ultimo era stato un giglio), e lui ai giornalisti che venivano ogni sera, dopo lo spettacolo, rispondeva sempre quando gli chiedevano per quanto avrebbero continuato, Tutta la vita, (Per tutta la vita), e che commenti meravigliosi che ne erano venuti, la sua foto e la foto di loro due abbracciati sommersi dai fiori le sorrideva da tutte le pagine dei giornali, ed era stato più o meno in quel periodo, più o meno quando si era rotta la maniglia della porta, che aveva troncato tutti i rapporti con la sua famiglia e si era illusa che avrebbero potuto continuare così davvero per sempre, fino a quando lui non aveva preso a mettere su pancia e a dimenticarsi le battute e lei aveva preso a sfiorire lentamente, la tappezzeria aveva preso a scollarsi, l’intonaco a crollare e la gente a smettere di pagare il biglietto per vederli perdersi entrambi in quell’agghiacciante parodia che erano diventati, sera dopo sera, nel buio insonne del teatro.
E che sciocchezza era mai quella di lui che sognava quella scena quando si addormentava dalla parte sbagliata del letto. Che assurdità. Adesso se ne sarebbe andata per sempre.
Sentì contro la pelle il freddo luccicante della maniglia. Con la mano libera – l’altra teneva stretto qualcosa che al momento non riusciva a riconoscere – risalì lungo il legno piatto e crepato della porta fino ad arrivare alla maniglia. La abbassò. Inutilmente. Il buio la inondò.
Sentì qualcuno da molto lontano ridere fragorosamente e molti altri ridere, come una folata di vento attraverso mille vasi di cristallo in frantumi.
Distintamente dall’altra parte della porta sentiva odore di terra bagnata e una donna piangere da spezzarle il cuore e lamentarsi per qualcosa che aveva perduto. E poi anche la sua bellezza andò bruscamente in frantumi e qualcosa dentro di lei si ruppe e fluì, come l’acqua che esce da un vaso di fiori rovesciato, giù da lei, sul pavimento, filtrando attraverso la fessura della porta chiusa.
E non c’era nessuna via d’uscita da quel sogno che qualcun altro stava facendo, e nessuna scorciatoia che buttasse fuori alla luce, e nessun modo di scappare, di imbrogliare, di vivere.
«Qualcuno sta sognando questa stanza! Ora! In questo momento!» disse allarmata, ma l’uomo si girò con un viso da ragazzino (non pensava che lui potesse ritrovare quel viso, dopo quindici anni, il viso delle prime rappresentazioni, il viso che aspettava sempre, sotto la finestra, che lei si calasse furtiva e lo raggiungesse) e le sorrise, abbagliandola, mentre il perimetro dello specchio prendeva fuoco e qualcuno le chiedeva ridendo se per caso non avesse voluto saltarci dentro.
Mentre la sua bellezza si aggirava smarrita nella memoria di cristallo del loro amore, così assurdo, così tremendamente eterno, aspettando di risorgere ancora una volta, chi sa per chi poi.
«Ho freddo. Ho un freddo terribile» singhiozzò, «Ho perso i miei vestiti, mi sembrava di averli con me. Ho perduto i miei vestiti. Adesso come posso, come posso uscire?»
L’uomo allora, che ora era vicino a lei, le porgeva il suo abito verde, scintillante, il suo abito liso, come a dire va tutto bene, e la aiutava a indossarlo, con mani sapienti, con mani educate a farlo, con mani vecchie di quindici anni, con mani stanche.
«Coraggio, piccola Ofelia, non c’è tempo che per un breve bacio, prima che lo spettacolo inizi.»
Bellissima idea la vita la morte in teatro. Il tempo sospeso, gli specchi. Davvero intrigante, misterioso
Grazie mille, sono contento che ti sia piaciuto..
Si può vivere per un sogno? Si può sognare che la vita non sia rappresentazione ma vita veramente? Si può morire per un sogno? Moriamo tutti per i nostri sogni, e ogni mattina lo spettacolo re- inizia sempre uguale, come da copione. Se non si segue il copione, il pubblico non ci applaude più. Non riusciamo a vivere senza pubblico, sia esso anche solo il vicino di casa? Un racconto che porta a domande su domande, amaro e realistico più che mai racchiuso com’è dentro il recinto di un palcoscenico, mentre la nostra vita, là fuori, da qualche parte ci aspetta e non ci vede arrivare, prigionieri dei nostri sogni come siamo. E potrei continuare. Mi è piaciuto molto, forse si è capito. Complimenti!
Ciao, grazie del commento. Sono contento che il testo ti sia piaciuto e la tua riflessione mi è sembrata molto interessante, come ulteriore chiave di lettura. E’ senz’altro un racconto che si presta a varie interpretazioni e di certo era questa una delle cose che speravo, scrivendolo. Grazie ancora!