Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Il giorno del mio fidanzamento” di Martina Palandrani

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Lunedì 13 Novembre, la solita giornata nebbiosa che rattrista le persone, tranne me. Mi sono svegliato prima del solito, fuori era ancora notte. “Se uno già sa che è il giorno più bello della sua vita deve farlo durare il più possibile così ne sembrano quasi due!”, mi sono detto ieri sera mentre mettevo la sveglia alle 5.00.

Ho aperto la finestra, l’aria fredda è venuta a farmi compagnia; è da tre anni, da quando Lucia si è sposata, che vivo solo in questa casa; anzi no, per fortuna c’è Faustino che, almeno lui, non mi ha ancora abbandonato. Mi sono rifatto il letto, ho sistemato nell’armadio i vestiti sparsi per la camera. Da quando la mamma se n’è andata ho dovuto imparare a pulire, cucinare, lavare i panni: cose da donne perché mia sorella non si è mai interessata di me; due vite parallele le nostre: lei sempre con le amiche, i fidanzati, e su Facebook; io: lavoro e visite alla mamma. Lucia non mi manca per niente e, da quando si è sposata, ci siamo visti sei volte, a Natale e Pasqua.

Ho cambiato la lampadina dell’ingresso, qualcuno, che non c’è mai stato qui, potrebbe inciampare nel tappeto o sbattere contro il mobile del telefono; non voglio che pensino di me che sono una persona trasandata. Ho fatto colazione, orzo e fette biscottate, mi sono vestito con i panni da lavoro e sono andato in fabbrica.

Sono sceso dall’autobus alla fermata più vicina. Con l’ombrello chiuso, puntato a terra, mi sono aiutato nei cento metri che devo fare a piedi fino al salumificio. Lo porto sempre con me l’ombrello: in inverno perché sono più le volte in cui piove che quelle con bel tempo e in estate perché può piovere da un momento all’altro. Ho timbrato alle 6.55 e sono andato nello spogliatoio a mettermi la divisa. Alle 7.00 ero pronto, al mio posto, per rivestire di retine, anche oggi, qualche migliaia di salamini e lonze con Fernando a destra e Marcello a sinistra. Per quanto ero di buon umore stamattina, per la prima volta, non mi ha dato fastidio l’odore delle carni macellate, macchiate di sangue e trattate con coloranti e conservanti.

I miei compagni di sventura si raccontano il fine settimana spostandosi con le teste in avanti per non farsi ostacolare dalla mia. Hanno fatto più o meno tutti e due le stesse cose: Fernando sabato pomeriggio era stato costretto dalla moglie ad andare a comprare dei vestiti nuovi per loro figlio che cresce mese per mese, domenica era stato a pranzo dai suoceri che detesta, perché avrebbero voluto che la figlia sposasse un impiegato di banca e non un operaio. Nel pomeriggio era andato a vedere la partita della squadra locale, che ha perso, e per questo, ogni tanto nel discorso, gli se ne esce qualche bestemmia e la sera era rimasto a casa a guardare in tv i risultati della Serie A. Anche Marcello il pomeriggio di sabato l’aveva trascorso a fare compere ma non per il figlio, perché non ne ha, e credo che la sua espressione, sempre tra il triste e l’arrabbiato, può dipendere soprattutto da questo. A pranzo di domenica però era stato dai genitori suoi perché lui gliel’aveva detto chiaro e tondo alla moglie che i suoceri non li sopportava e non li voleva sentire all’infuori delle feste comandate; la sera rigorosamente a seguire la sua squadra del cuore che giocava nel posticipo. E io sto lì in mezzo che ascolto facendo finta di non ascoltare e intanto penso che quando sarò sposato con Emilia per me sarà un piacere accompagnarla nei negozi, stare a pranzo dai suoi, che ancora non ho conosciuto ma sono sicuro saranno persone gentili e affettuose.” Chissà se quella donna vestita di scuro, che ho visto andar via da casa di Emilia, sarà sua madre?”, e poi io non seguo il calcio, né altri sport, e la domenica la dedicherei tutta a lei.

All’inizio, diciassette anni fa, quando cominciai a lavorare qui, il lunedì Fernando e Marcello chiedevano anche a me cosa avevo fatto nel fine settimana ma quando capirono che il sabato, tutti i sabati, andavo a trovare mia mamma, che la domenica, tutte le domeniche, andavo a messa e a pranzo stavo a casa con mia sorella e il gatto, e che la sera, tutte le sere, andavo a dormire alle 21.30; cominciarono a non chiedermelo più e a non chiedermi neanche altre cose.

Nella pausa, quando ho visto Antonio, il ragazzo del reparto delle impastatrici, andare alla macchinetta del caffè, sono andato al suo posto e, sopra ad una mensola, dentro ad un barattolo bianco, ho trovato quello che cercavo. Ho preso dalla tasca del grembiule una bustina da congelatore e c’ho versato un misurino di quella polverina, giusto 5 grammi, ho chiuso il barattolo e l’ho rimesso al suo posto, ho chiuso bene anche la bustina e l’ho fatta scendere piano nella tasca del grembiule, assicurandomi che nessuno mi vedesse. Tornato al mio posto, ho fatto un sospiro di sollievo, non posso dire di essere un ladro ma di certo ho fatto una cosa che non si fa. Nelle altre ore mi sarò toccato la tasca circa venticinque volte per essere sicuro che la bustina stesse ancora lì. L’urlo della sirena è stato una liberazione. Sono andato velocemente allo spogliatoio, mi sono cambiato e in cinque minuti ero già alla fermata.

“Niente più lavoro per oggi!”.

 

Arrivato a casa, ho aperto l’armadio, quello in camera della mamma dove ci sono i vestiti da cerimonia; prima ce n’erano tanti, ora ce n’è solo uno, il mio; lo guardo. Pantaloni blu gessati uguali alla giacca, camicia celeste a quadri bianchi e gialli e la cravatta pressappoco dello stesso colore del vestito. Tutto nuovo di zecca! L’ho messo solo al matrimonio di Lucia. Non è tarlato, lo metto sul balcone così perde un po’ l’odore di naftalina. Apro la scarpiera, cigola, prendo le scarpe che sembrano più nuove di come sono veramente; in questi casi è una fortuna non poter guidare così le scarpe, soprattutto la destra, non si riempiono di righe sul davanti per via della pressione esercitata sui pedali. Intanto che cerco l’intimo nel comodino, faccio uscire l’acqua calda dalla doccia, la caldaia non è più nuovissima e ci mette un po’ a scaldare. Mi spoglio velocemente, fa freddo, i termosifoni non li accendo mai, consumano troppo. Entro nella cabina, il getto d’acqua è violento sulla testa, i capelli mi scendono sulla fronte e sgocciolano sul viso, i peli si distendono in ordine sulla pelle e la fanno sembrare più scura, mi insapono il corpo con la saponetta che, con quella superficie liscia, mi fa pensare al palmo vellutato di una donna innamorata.

Sogno Emilia, la mia amata Emilia, che oggi chiederò in sposa.

Sono agitatissimo, come si fa a chiedere ad una donna di sposarti? A me non è mai capitato: mai ho pensato di sposare un’altra ragazza prima di Emilia anche perché le ragazze di oggi sono tutte strane. Tutte truccate, coi capelli sempre aggiustati, mo’ di un colore mo’ di un altro, con le unghie colorate, le gonne corte e le maglie scollate. Mi sembra di rivedere quell’amica di mia sorella, com’è che si chiama? Simona o Sonia. Me la ritrovai una sera con Lucia a cena a casa nostra; io avevo già mangiato, stavo leggendo le prime pagine di “Conversazione in Sicilia” e non posso negare che qualche lacrima mi era caduta sulla lettera del padre. Mia sorella mi chiamò e mi costrinse a stare a tavola con loro. L’amica era una mitragliatrice: sparava parole su parole, velocemente, facevo pure fatica a capirla, parlava di sé, del suo lavoro di commessa che la entusiasmava perché poteva stare sempre al passo con la moda e comprare tanti bei vestiti con lo sconto del 20%. E mentre lei parlava e rideva e si toccava i capelli in continuazione, girandoli da un lato e poi da un altro, io mi chiedevo cosa ci trovasse di tanto entusiasmante nel vendere dei vestiti che non erano neanche suoi, e mi chiedevo pure se per quella ragazza non esistesse un fermaglio per capelli così la smetteva di sventolarmeli addosso. Ad un certo punto mise una mano sotto al tavolo e cominciò a chiedere di me: “Quanti anni hai? Che lavoro fai? C’hai Facebook?” ed io sentivo qualcosa che si arrampicava sulla mia gamba, passando per il ginocchio fino alla coscia, nella parte interna, e, quando capii che era la sua mano che stava andando ad azzannare i miei testicoli, dissi:” Ho trentasette anni, odio Facebook perché è una collezione di persone che neanche si conoscono ma che si chiamano amici, lavoro in un salumificio e domattina devo alzarmi presto”. Tirai indietro la sedia, mi alzai “Buonanotte” e andai in camera. Lungo il corridoio continuavo a chiedermi se fosse normale quello che mi era appena successo: una ragazza che t’infila la mano in mezzo alle gambe! Roba da matti! E poi io voglio arrivare vergine al matrimonio. Per fortuna che ho incontrato Emilia, lei non ha niente a che vedere con quella pazza. E’ dolce nei modi, negli sguardi, ha un viso delicato, la pelle liscia e pallida, gli occhi scuri e i capelli raccolti, semplice nell’abbigliamento, non le piace la confusione e non faremo mai l’amore senza essere prima marito e moglie.

Chiudo l’acqua, indosso l’accappatoio con le mie iniziali “G.C”, un regalo per i miei trent’anni. Mi avvicino allo specchio sul lavandino, la barba è di qualche giorno, devo raderla, non voglio pungerla nel baciarla. In realtà non l’ho baciata ancora mai in bocca, solo sulla guancia; il fatto è che ci vediamo sempre e solo a casa sua, lei non me l’ha mai detto, per non farmi dispiacere, ma io l’ho capito che i suoi genitori non vogliono che esca con un ragazzo più grande di lei, almeno fino a quando non diventa il suo fidanzato ed io oggi lo diventerò!

 

Andrò da lei, la saluterò con un bacio ed una carezza, le chiederò come sta, poi le dirò che ho una cosa per lei, prenderò dalla tasca della giacca l’anello e glielo infilerò all’anulare sinistro, la guarderò negli occhi e le dirò:” Emilia, mi vuoi sposare?” e lei dirà, senza nemmeno pensarci: “Sì”. Lo so, dirà così, l’ho sempre saputo, dalla prima volta che l’ho vista. Lo ricordo ancora come fosse ieri.

 

Ero andato a trovare la mamma, ci vado un giorno sì e uno no, lei è sempre stata la mia unica confidente. Non ho mai avuto amici: quand’ero piccolo i miei compagni di classe mi prendevano in giro perché non avevo un papà né i soldi per uscire con loro e vestire come loro. Poi, dopo l’incidente durante la leva militare in cui mi scoppiò una mina sotto al piede destro, ritrovandomi con due dita in meno, senza sensibilità fino al tallone e zoppo, mi prendevano in giro dicendo: “Chi va con lo zoppo impara a zoppicare!”, ridevano e si allontanavano. Solo lei riusciva a consolarmi quando tornavo da scuola piangendo.

Ero lì in giardino con la mamma che le raccontavo com’era andato il lavoro, quando sentii dalla casa accanto, che dista due metri da quella della mamma, dei singhiozzi, forse un pianto. Allora mi avvicinai pensando che qualcuno non stesse bene e avesse bisogno di aiuto, vidi una donna vestita di scuro, chiudere il cancello alle sue spalle ed allontanarsi nella direzione opposta alla mia con la testa abbassata ed un gatto attorno ai piedi. Guardai oltre il cancello da cui quella signora era appena uscita, non l’avevo mai fatto le altre volte, so che non è corretto curiosare tra le cose degli altri, ma quel giorno fu diverso, sembrava come se una corda mi tirasse verso quella casa e mi avvicinai.

Al di là della recinzione c’era un piccolo cortile pavimentato di cemento con tanti vasi di fiori e, più in là, una casa alta e stretta con tante finestre disposte su due colonne e, ad una di queste, era affacciata una ragazza che non sembrava affatto preoccupata per quella signora che era appena andata via piangendo e continuava a guardare fuori, tranquilla. Dopo un po’ si accorse di me ma non sembrava infastidita dalla mia presenza estranea, anzi, nel suo sguardo c’era un velo di sorriso che sembrava dire:” Avvicinati!”, incuriosita. Lo feci: appoggiai la mano sulla maniglia del cancello, la spinsi verso il basso e l’aprii, due passi ed ero nel cortile, altri due ed ero sotto alla finestra della ragazza. Da quella distanza potei rendermi conto di quanto fosse giovane e bella, talmente tanto che mi sentii in soggezione. “Salve, perdoni l’intrusione, sono Giuseppe Conti, stavo nella casa accanto, ho sentito dei lamenti e mi sono preoccupato. Tutto bene?”. Avevo cercato di utilizzare un italiano che fosse il più corretto possibile, rimpiangendo di non aver potuto continuare gli studi. Il viso bello e delicato di quella ragazza mi faceva pensare che appartenesse ad una famiglia d’alto rango. Lei annuì, andava tutto bene e si chiamava Emilia Passamonti. Mi sembrò da subito timida, parlava poco e a bassa voce, non volli metterla a disagio e la salutai con un “A presto”. Tornato a casa quella sera, non riuscivo che a pensare a lei. Rivedevo i suoi occhi luminosi e scuri, la fronte spaziosa da cui i capelli neri formavano una treccia lunga e ben fatta. Senza un filo di trucco, la pelle liscia e chiara, le labbra morbide, socchiuse, da cui si intravedeva la schiera bianca dei denti, il collo fino che portava ad un busto esile rivestito da un golfino di lana e le gambe, nascoste dietro al muro, le immaginavo già, lunghe e snelle. Intanto pregavo di rivederla la volta successiva e di trovare una scusa credibile per fermarmi a salutarla.

 

“Mannaggia, un altro taglio! Non comprerò mai più queste lamette!”. Tampono la ferita con un po’ di cotone imbevuto d’alcol; brucia.

 

Quando andai a trovare la mamma, la volta successiva, davanti casa di Emilia, finsi di inciampare con i sassolini che stavano sulla strada e, mentre, chino, massaggiavo la caviglia mimando smorfie di dolore; girai lo sguardo in direzione della sua abitazione e lei era lì, di nuovo. In un attimo mi dimenticai della slogatura e del mio nuovo mestiere di attore e andai spedito verso di lei per salutarla. Fu fin troppo cortese con me, dato che era solo la seconda volta che ci vedevamo: mi fece accomodare nel suo giardino colorato di gerani e viole. Tutti quei fiori mi fecero pensare che ne fosse appassionata, finsi allora d’esserlo anch’io e, giacché c’ero, inventai d’aver fatto, qualche anno prima, un corso di botanica che mi aveva poi permesso di lavorare parecchio tempo in una serra grandissima con fiori e piante provenienti da tutto il mondo. Allora i miei complimenti sulla qualità del suo giardino assunsero un tono autorevole e lei sembrò molto compiaciuta dei miei apprezzamenti. Credo però che quando saremo sposati dovrò dirle che era tutta una finzione e che non ho mai innaffiato una pianta in vita mia!

Da quel pomeriggio di fine aprile le visite a mia mamma si fecero più brevi, più lunghe invece le chiacchierate con Emilia e più intenso il nostro affetto.

 

Mi vesto velocemente, la sveglia segna le ore 16.00. Apro lo zaino da lavoro, dentro c’è ancora il panino di stamattina, ci metto una bottiglietta d’acqua, un bicchiere e un cucchiaino, controllo che ci sia la scatoletta con l’anello e la bustina. C’è tutto; me lo metto sulle spalle e vado a salutare Faustino. Gli riempio due ciotole col suo mangiare per gatti ed altre due d’acqua: gli basteranno almeno per tre giorni. Gli accarezzo il muso, lui appoggia la sua testina sulla mia mano, per un secondo chiude gli occhi poi li riapre, si gira verso la ciotola e si allontana leccandosi i baffi. Chiudo a chiave la porta e vado alla fermata.

L’autobus arriva dopo due minuti, salgo, posto finestrino; i campi di grano provano ad inseguirci ma l’autista va più veloce, li seminiamo!

Intanto io continuo a ripetere le parole che tra un po’ dirò a Emilia. Arrivo alla mia fermata, scendo, sono in perfetto orario. Saluto Gino, il fioraio che ha un negozio un po’ arrangiato proprio lì vicino; lui mi guarda perplesso, è abituato a vedermi vestito con i panni da lavoro e non da cerimonia. Compro due rose rosse e vado via. Con l’ombrello puntato a terra, percorro il viale che porta a casa di Emilia, si sta facendo buio, gli alberi ai lati della strada sono scuri e le loro punte si muovono spinte dal vento. Non si sente nessun rumore, sembra che stiano dormendo tutti qui ma la maggior parte delle case è illuminata da tante piccole luci calde.

Arrivo da mia mamma, una rosa è per lei; le sono sempre piaciuti i fiori. Le dico che sono agitato, i sospiri mi escono dalla bocca più delle parole, invece lei, come sempre, ne ha tante di parole per rassicurarmi e darmi forza. Mi sento già più tranquillo, le do un bacio e le dico che dopo le racconterò com’è andata.

Entro nell’atrio di casa di Emilia, lei mi sta già aspettando, affacciata alla finestra. In questi mesi ho capito che i suoi genitori sono molto all’antica e non vogliono che la figlia si esponga troppo ad un ragazzo di cui non sono certe le intenzioni. Io li capisco e con questo anello anche loro capiranno me.

La saluto, il mio bacio sulla sua fronte fresca è più intenso del solito, le porgo la rosa, lei mi ringrazia con un sorriso; c’è una sedia tra i vasi, l’avvicino a me, mi siedo davanti a lei e allontano il mio sguardo dai suoi occhi solo per prendere lo zaino. Lo appoggio sulle gambe che un po’ tremano, apro la cerniera, prendo la custodia dell’anello, la nascondo nel palmo sudato della mano e la infilo nella tasca della giacca; voglio che sarà la sorpresa più bella che abbia mai ricevuto e il regalo di compleanno più gradito.

Oggi Emilia compie gli anni ed io voglio festeggiare con lei tutti i compleanni che verranno.

Tiro fuori dallo zaino il bicchiere, lo riempio d’acqua, poi apro la bustina da congelatore e verso nel bicchiere la polverina che ho preso stamattina in fabbrica. Mi è venuta sete. Giro il tutto col cucchiaino, l’acqua si fa bianca e densa. Speriamo sia dissetante. Porto il bicchiere alla bocca, anche la mano ora trema e sento la canottiera appiccicata col sudore sulla schiena, Emilia mi guarda confusa, non sa ancora che vivremo insieme per l’eternità. Bevo con un unico sorso, è insapore, inodore e indolore, è una dose di nitrito di sodio: la chiave d’accesso al mondo di Emilia.

 

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