Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “La profezia” di Marilena Tritto

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

<<Farai molti viaggi……viaggerai continuamente…….Sarai molto preoccupata per la salute di un tuo familiare stretto……..La lettera “A” avrà un ruolo importante nel tuo prossimo futuro>>.

Silvia si svegliò di soprassalto, si mise a sedere sul letto in preda all’angoscia, il corpo completamente impregnato di sudore e la bocca arsa. Fuori c’era un caldo torrido di pieno luglio e lei con la sua pressione bassa doveva prendere il treno per raggiungere quel posto maledetto.
Si vestì di corsa, prese la crema idratante che aveva comprato la sera prima e se la ficcò in borsa. I figli dormivano ancora, la scuola era finita da un pezzo e giustamente la mattina si attardavano nel letto. Diede un bacio sulla fronte al piccolino, salì sulla macchina e guidò a gran velocità verso il paese da cui avrebbe preso il treno per raggiungere quell’enorme ospedale a dieci piani. Alla stazione parcheggiò l’auto come sempre e attese quel regionale sporco e lento, senz’aria condizionata in cui, se ci fosse riuscita, si sarebbe addormentata per un’oretta per recuperare un po’ di sonno che negli ultimi tempi scarseggiava. Spesso si svegliava in preda agli incubi e non riusciva più a dormire. Aveva delle brutte occhiaie nere e un viso pallidissimo. Spesso si doveva fermare perché aveva giramenti di testa dovuti alla sua costante pressione bassa che, con quel caldo torrido di quell’estate, si era abbassata ancora di più. Arrivata alla stazione, l’odissea non sarebbe finita, lì avrebbe atteso almeno una buona mezz’ora il bus cittadino che l’avrebbe lasciata davanti l’ospedale, dopo aver attraversato tutta la città per circa un’ora. Prima di entrare in reparto, aspettando l’orario consentito, si sarebbe intrattenuta al bar per una veloce colazione e poi nella cappella dell’ospedale, a godere del fresco dell’aria condizionata, o a pregare, non aveva ancora deciso con se stessa la priorità che la spingeva ad andare in quel luogo.
Il treno regionale correva più lento del solito e al suo interno si sentiva un fetore inimmaginabile. Ogni volta lei metteva un fazzoletto bianco sul sedile prima di sedersi perché non sopportava di toccare col suo corpo qualcosa che fosse sporco; aveva necessità che fosse tutto pulito e asettico e lontano da infezioni. Avrebbe lavato e disinfettato il mondo intero se avesse potuto. In quell’ambiente in cui la polvere si odorava non riusciva a rilassarsi, a concedersi un po’ di riposo per prepararsi all’incontro, per essere positiva e al meglio di se, prima di entrare in quella stanza.
Aveva ripensato molto, negli ultimi tempi a quella serata incredibile e a tutto quello che era successo dopo. Quella sera erano particolarmente allegre. Era l’ultima sera che sarebbero state insieme , prima di rivedersi per la seconda sessione del corso. La mattina dopo, ognuna avrebbe intrapreso il proprio viaggio di ritorno per giungere alla propria destinazione, si sarebbero disperse e sarebbero tornate quelle di sempre. Erano in cinque. Era la mezzanotte. Avevano bevuto parecchio prosecco ad accompagnare un pasto a base di pesce in un ottimo ristorante dove si erano incontrate fugacemente per la pausa pranzo nei giorni precedenti; quella sera avevano deciso di dare lustro al commiato.
Davanti a un buon caffè, una di loro, propose un gioco: la lettura dei fondi del caffè. Naeda viveva in Italia da molti anni ma era di origine araba e conosceva bene l’arte della preveggenza. Di fronte alla proposta, tutte risero di gusto ma, subito dopo, si ammutolirono, quando capirono che Naeda diceva sul serio. A dispetto delle apparenze, si resero conto che in ognuna di loro vi era una radicata tendenza alla superstizione. Quella sera tutte avevano paura di sapere il loro eventuale, prossimo futuro, ma tutte avevano un tale curiosità, enfatizzata anche dall’ ebbrezza del vino bevuto. Quel gioco divenne in quel momento una necessità trasgressiva. Solo una di loro si rifiutò di sottoporsi alla lettura dei fondi, aveva già avuto una esperienza del genere e la profezia si era poi tristemente avverata; da allora aveva giurato che non avrebbe più permesso a nessuno di farlo ancora.
Erano appena le dieci del mattino. Dovevano passare ancora più di due ore prima che le avessero consentito di entrare nella stanza. Doveva trovare qualche modo per stemperare la noia e l’ansia che iniziava ad affacciarsi. Si ricordò del prete della cappella dell’ospedale, del numero che le aveva dato per trovare qualche alloggio a buon mercato, per tutto il tempo che sarebbe stato necessario. Era stanca, voleva evitare di fare avanti e indietro tutti i giorni. Erano settimane che faceva viaggi estenuanti, ora avvertiva il bisogno di conservare il più possibile le energie fisiche ma soprattutto emotive.
<<Non so di soluzioni economiche in appartamenti, in questo momento però posso darle il numero di telefono della Caritas. E’ un cellulare che corrisponde al numero personale della responsabile della struttura. La chiami quanto prima perché so che le stanze a disposizione sono poche>>.
Rimase un po’ scettica, si era figurata la necessità della Caritas per i senza tetto e i bisognosi, non c’entrava nulla lei in quel contesto. Mise il numero in tasca, avrebbe chiamato il pomeriggio; non voleva affrontare quel problema prima dell’incontro, avrebbe passato il resto del tempo a coccolarsi, decise di ritornare nel bar, se era fortunata avrebbe incontrato quella simpatica signora che fumava molto e rideva spesso a squarciagola, prima di farsi seria per entrare. Come due studentesse liceali in cerca di emozioni, avrebbero bevuto tremila caffè, prima di appartarsi sulla scalinata di qualche anfratto dell’ospedale, a condividere qualche sigaretta e a raccontarsi aneddoti e barzellette per ridere a crepapelle, per esagerare un divertimento che moriva dentro. Dopo un’attesa silenziosa, ad occhi bassi, a respiro corto, nel corridoio del reparto, nello spazio antistante le stanze, insieme ad altri automi silenziosi come loro, sarebbero entrate, avrebbero indossato il copricapo, il copri scarpe, i guanti e quell’inquietante camice verde. Si sarebbero aiutate ad abbottonarselo dietro, con quei muti e teneri gesti, unico calore in quella dimensione; avrebbero indossato il mascherino, chiuso gli occhi, inspirato ed aperta la porta col gomito. Gli odori pungenti dei medicinali e i suoni asettici e cadenzati delle macchine le avrebbero raggiunte come un ciclone a togliere loro l’anima, a farle diventare automi per non soffrire.
Ore 16.00. Il bus 19 non si vedeva ancora. Nella telefonata la responsabile della Caritas le era sembrata gentile ma abbastanza sbrigativa. Chissà se era stata una buona idea o una perdita di tempo tentare quella strada. Si aspettava una laica simile ad una suora, a capo di un ente del genere, insomma, qualcuno che avesse a che fare con l’aspetto di un religioso. La struttura sembrava deserta, come se non fosse abitata da nessuno. Sotto, a piano terra, vi era una grande cucina e un grande refettorio. La scalinata che portava su alle stanze era buia e dava un non so che di inquietante. Si poteva prendere un piccolo elevatore che portava su ai piani delle stanze, ma lei temeva attacchi di panico quando l’ansia saliva un po’, preferì salire a piedi e visitare qualche stanzetta libera che l’uomo che l’accompagnava le mostrò.
Improvvisamente apparve lei. Semplice, col vestiario dimesso, di mezza età, uno splendido sorriso accogliente. Il suo nome era Adele. Da quell’istante trascorsero insieme due lunghi mesi della loro esistenza.
<<Stai attenta …. Non ti avvicinare troppo ….. perché non sappiamo come reagiscono. Parla prima da lontano, chiedi se vogliono del latte caldo …..una coperta ……. avvisali che sei della Caritas e se ti danno il consenso avvicinati>>
<<Perché…. può essere pericoloso?>>
<< Beh molti sono arrabbiati…..non sono abituati……possono pensare che gli vuoi fare del male……possono spaventarsi. Sai, le deprivazioni ti induriscono, non sei più abituato agli avvicinamenti, al calore umano. Molti sono preda di bande di delinquenti. Oppure possono pensare che gli vuoi soffiare il posto letto che si sono fatti col cartone. E’ meglio essere prudenti. Se ti cacciano non ti spaventare, lasciali stare oppure chiama me>>
La prima sera che andò con lei, dopo le 23.00, a distribuire coperte e latte caldo ai clochard che numerosi avevano trovato un posto sul vialone principale della città per passarci la notte, l’adrenalina le salì alle stelle. Temeva le reazioni e la violenza fisica di qualcuno che poteva essere alcolizzato, e si sentiva inadeguata per via della scarsa conoscenza delle lingue straniere. In una città di mare, al confine con i paesi del Sud, vi approdavano molti senza tetto stranieri, le cui tracce si erano perse da chissà quanto tempo. Non avrebbe mai immaginato, prima di conoscerla, che era andata per chiedere aiuto e che le sarebbe stato offerto chiedendone a sua volta a lei. Adele era una donna straordinaria, era difficile essere sua amica, dava tanto ma chiedeva anche tanto. Si poteva essere solo esseri coraggiosi al suo fianco. Con lei non era possibile piangersi addosso; le faceva toccare con mano che c’erano situazioni peggiori della sua, che forse potevano risolversi e, senza fare una scaletta di gravità, si doveva portare aiuto dove c’era bisogno senza fermarsi, dimenticando il dolore che si aveva dentro. Per starle accanto, era necessario chiedere a se stesso una coerenza ad oltranza, un rigore morale e una generosità senza limiti, diventava rigoroso stare costantemente in prima linea, proprio come lei. Era difficile, ma bello innamorarsi di un’amica esigente come lei, e Silvia si adoperò anima e corpo per aiutarla nel suo lavoro sociale.
Ogni sera sul vialone, fino alla mezzanotte e oltre, a distribuire coperte e latte, la mattinata a sbucciare e affettare centinaia di patate, a pulire e lavare verdure, a riordinare la cucina e a servire nel refettorio l’unico pasto del giorno a chiunque ne avesse bisogno. Così trascorsero quei due mesi, intervallati dalle due visite giornaliere di mezz’ora nel reparto della speranza, dove Silvia, insieme ad altri prestavano le cure a quei corpi addormentati che nessuno sapeva se si sarebbero mai svegliati.
Nel refettorio, in quella stagione calda, si sentiva sempre un gran tanfo all’ora di pranzo. Molti non avevano neanche pochi spiccioli per usufruire delle docce pubbliche che il comune metteva a disposizione, non avevano posti dove potersi lavare gli indumenti, ne altri di ricambio. La stagione era calda, per questo molti uomini puzzavano. Erano persone ai margini che gioivano già se trovavano un pasto al giorno.
Decine di extracomunitari , fra i quali donne e bambini, e senza tetto affollavano quella enorme sala in due turni: alle 12.30 e alle 14.00. Per la cena, durante il pranzo, si distribuivano panini imbottiti.
In cucina, erano tutti volontari, alcuni saltuari, altri, come Silvia, abituali.
<<Non ti sei fatto vivo per un po’ di giorni… mi hai fatto preoccupare……anche perché ci sono state nottate molto fredde…… stai bene?>>
Bazir era keniano. Era laureato in ingegneria meccanica e da circa due anni si era introdotto in Italia. Era stato a Firenze per molto tempo, dove si era sistemato bene con un gruppo di suoi connazionali per la vendita di soprammobili di legno ai mercatini. Poi, ci aveva litigato per la spartizione dei guadagni e aveva perso lavoro. Era sceso giù, trovando prima lavoro stagionale per la raccolta dei pomodori, poi, era finito anche quello, aveva cambiato di nuovo città. Aveva 38 anni, era partito con la promessa alla moglie e alla figlia che un giorno si sarebbe sistemato e le avrebbe fatte venire per vivere tutti insieme in Italia. Ultimamente si era ammalato, aveva preso una brutta infezione che lo faceva dimagrire a vista d’occhio. Silvia lo aveva notato un giorno, a mensa, lui abitualmente veniva al secondo turno delle 14.00. Soffiava un vento proveniente dal mare, particolarmente forte, e lui, altissimo e magrissimo cercava di ripararsi l’orecchio col bavero della giacchetta esigua che aveva addosso, con le maniche che gli arrivavano a tre quarti delle braccia. Lui si accorse che Silvia lo fissava, ma non osava alzare lo sguardo. Nonostante la sua condizione, conservava sempre la sua dignità e faceva fatica a farsi aiutare per pena. Silvia prese il suo foulard grande, che portava sempre con se in borsa per ripararsi dalla brezza marina quando ce n’era bisogno, e glielo portò :<<Tieni…. a me non serve…. ho la giacca…… prendilo tu…… riparati la faccia …… hai mal di denti?>>
<<No, grazie non c’è bisogno>> con un gesto della mano rifiutò. Silvia si accorse che usciva sangue dall’orecchio che si copriva. Avvisò Adele. Lo convinsero a farsi accompagnare in ospedale. Prima che andasse via, Silvia gli poggiò sulle spalle il foulard senza dir niente, e lui non protestò. Aveva una brutta otite perforante che i volontari della Caritas si occuparono di curargli. Fino a quando guarì riuscirono a trovargli un posto letto nel dormitorio pubblico, dove di solito davano la precedenza a donne e bambini. Appena guarì dovette lasciarlo, ritornando a dormire sui cartoni in qualche anfratto della città. Silvia non lo aveva visto per un po’ e si era preoccupata. La sua vita, nel giro di poco tempo, era cambiata, e con lei anche il suo atteggiamento alla vita. Da quando aveva conosciuto Adele aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa, di dare un senso a quello stare tanto tempo fuori casa, lontana dai suoi figli e dai loro bisogni. Era come se, a differenza del passato, non vi era più una scaletta di priorità nel servire gli altri, che tenesse conto degli affetti, era come stare in guerra, corri dove c’è più bisogno, ormai era entrata in quell’ottica da cui non riusciva più ad uscire. La vita, l’esistenza avevano assunto un sapore instabile, dove bisogna aggrapparsi fortemente al presente, al qui ed ora, in ogni momento.
A volte, a sera, quando tutto era finito, non c’era da fare più nulla e poteva rilassarsi le prendeva la disperazione, anche in quell’istante Adele era pronta ad aprire le braccia per accoglierla con un sorriso sempre stampato sulla bocca. Aveva pensato tante volte a Naeda, al giorno dopo la lettura dei fondi di caffè; ci tenne ad accompagnarla in treno fino a Milano per non lasciarla sola. Naeda scelse volontariamente di perdere il treno del mattino per Roma, per poi prenotarsi quello della sera, per non lasciarla da sola fino al pomeriggio, quando Silvia sarebbe salita sul treno per scendere giù. Sembrava sentirsi stranamente responsabile della premonizione della tragedia. Silvia non capì quell’interesse gratuito di Naeda nei suoi confronti, all’epoca non se lo spiegava. Gli occidentali sono abituati ad elargire premure e gentilezze in base al grado di appartenenza o vicinanza dell’essere umano; chi, invece, conosce gli stenti e la guerra, per istino fornisce cure e premure a qualsiasi essere umano in bisogno. Anche se viveva da anni in Italia, era scritto nel DNA di Naeda. Nel Lungo viaggio di ritorno col treno, Silvia aveva fatto così tante telefonate ai familiari che volevano tacitarle la dura realtà della tragedia, fino a quando era riuscita a farsela dire. Da quel momento in poi, non aveva avuto più il coraggio di chiamare Naeda. Pensava, di tanto in tanto, al suo viso preoccupato di quella mattina, quando Silvia non conosceva ancora tutta la dura verità, e al suo starle a fianco tutto quel tempo, abbracciandola ogni tanto. E pensava alla felicità che lei provava al ristorante quella sera, a mezzanotte, in compagnia di belle persone che aveva conosciuto in un momento bello della sua vita, di apertura di prospettive verso il mondo, e a come poteva cambiare la prospettiva di vita e la propria esistenza in dodici ore.
Stava fumando seduta a una panchina nel giardino sotto l’ospedale, in attesa dell’orario per entrare. Bazir la sorprese alle spalle. Le aveva riportato il foulard.
<< Sono venuto a salutarti….. ritorno nel mio paese. Sono stanco di non trovare niente. Mia figlia sta crescendo e io non la conoscerò se non torno. Volevo ringraziarti per…… tutto…..>>
Silvia diede un ultimo tiro alla sigaretta e la buttò per terra. Senza dire nulla si alzò di scatto e buttò le braccia al collo di Bazir. Stettero così per qualche secondo, dondolandosi dolcemente, senza riuscire a dire una parola. Poi Bazir si staccò bruscamente e corse via.
Silvia salì al bar per l’ennesima volta. Prese un caffè e il barista con un sorriso le mise nel piattino un cioccolatino di quelli che hanno il bigliettino all’interno. Lei sorrise, da bambina aveva dato sempre tanta importanza a quei messaggini dei cioccolatini come segnali premonitori. Lesse:
“ Nulla impedirà al sole di sorgere ancora, nemmeno la notte più buia. Perché oltre la nera cortina della notte c’è un’alba che ci aspetta.”

 

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