Premio Racconti nella Rete 2018 “L’omino di bronzo” di Paolo Quilichini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018La sua memoria si perde lontano, oltre l’immagine nebulosa che ho di lui.
Ed è proprio una sagoma indistinta che ricordo appena in quel triste, terribile pomeriggio di troppi anni fa. Potevo avere cinque, forse sei anni. Il ricordo confuso ma indelebile del mio povero cugino, in fondo a una rampa di scale, il sangue che sgorgava copioso dalla sua testa e bagnava i vestiti e il pavimento. Sangue ovunque. Ricordo le grida di mia madre e il terrore nei suoi occhi. Era un giorno di festa ma non per lui.
O, per lo meno, non lo era più.
Era li. Lo so. Per un attimo indefinibile ho avvertito la sua terribile presenza.
Solo per un attimo, alle mie spalle, ho intravisto la sua figura. Piccola. Nera. Deforme e crudele. Come solo il male antico può essere. Era scivolata velocemente alle mie spalle ed era sparita oltre la porta, verso il giardino, per perdersi nell’ombra.
“E’ stato un incidente, un terribile, sconcertante, ineluttabile incidente”, gridavano i parenti riuniti per quella che doveva essere una giornata di festa. No, pensavo io… non era stato un incidente.
Io avevo visto. Lo sapevo. Ma ancora non potevo capire. Non potevo rendermi conto. Come la volta seguente. Sei anni dopo, forse sette. Era il matrimonio di mia sorella. Anche quella volta doveva, poteva essere un giorno felice. Ma ancora una volta lui era la. Nascosto nell’ombra. Ma pronto a colpire. Solo un attimo. Un fruscio e un’ombra veloce. “Non sapeva nuotare”. Dicevano. Trovarono il corpo dello sposo, gonfio di morte, nella piscina della nostra casa di campagna. Scelta per i festeggiamenti dopo il matrimonio. Forse aveva bevuto troppo. Forse, scivolando sull’erba umida, era caduto nell’acqua e i suoi polmoni velocemente si erano riempiti. Troppo tardi per la respirazione bocca a bocca. Troppo tardi per un massaggio cardiaco. “Un tragico incidente” urlavano angosciati i parenti e gli amici riuniti intorno al cadavere. Ma io sapevo. Questa volta avevo visto. Avevo visto la sua sagoma. Minuscola. Terribile e crudele. E, soprattutto, avevo visto i suoi occhi. Neri come il male, neri come il buio della morte. E il suo sogghigno indescrivibile.
Per una frazione di secondo il suo sguardo aveva incrociato il mio. E il freddo delle tenebre più profonde aveva gelato il mio sangue e velato il mio spirito per l’eternità.
Ma come potevo avvertire gli altri? Come potevo metterli al sicuro da una minaccia e da un essere che avrebbe sicuramente colpito ancora? Mi odiava, e odiava la mia felicità. Ma ero solo. E solo ero destinato a rimanere. Come la terza volta. Quando incontrai Laura. Lei era tutto per me. O forse dovrei dire, sarebbe stato tutto per me. Ma un futuro sognato non è un futuro. E’ solo ombra e rimpianto. Ricordo il suo sorriso. Ricordo la sua dolcezza dipinta di rosso sulle sue labbra. “Tornerò. Tornerò e ci sposeremo. Dovrò stare via solo pochi mesi. Forse un anno. Ma questo non mi impedirà di continuare ad amarti”. Ed era vero. Mi amava come io amavo lei con tutte le mie forze e con tutto il mio ardente desiderio di una vita senza ombre, al sicuro tra le braccia di un amore eterno e rassicurante. Ricordo ancora il suo sguardo mentre il treno lentamente si avvicinava. Ricordo il gelo improvviso che aveva riempito la mia mente e il mio sangue. Ricordo che, velocemente voltandomi indietro, avendo percepito il demonio che si avvicinava alle mie spalle, con un gesto improvviso, inclinando il corpo all’indietro e ruotando velocemente il busto, avevo provato a trattenere l’uno e a spingere l’altra perché non potesse essere toccata dalle sue orrende mani. Ma era troppo tardi. Insinuandosi velocemente tra me e lei, e con un odio che solo il peggiore dei demoni potrebbe incarnare, velocemente la spinse verso i binari. Ricordo il rumore devastante dei freni del treno e gli schizzi di sangue caldo che velarono i miei occhi. Poi più nulla.
“Un incidente, un terribile incidente”, commentavano gli infermieri del reparto di pronto soccorso dove prontamente ero stato ricoverato per il forte trauma subito. Ma io sapevo. Sapevo e non potevo parlare. Per paura. Paura di non essere creduto, ma soprattutto paura di lui. Paura di questo essere osceno, minuscolo ma profondamente perfido e vendicativo. Paura che potesse vendicarsi su di me. Che potesse fare a me quello che aveva fatto alle persone a me care. O forse, ormai, alla paura si sostituiva, gradualmente, la certezza che le oscenità alle quali avevo assistito potessero essere soltanto una prova generale. Un’anteprima di quanto il suo odio, alla fine, avrebbe potuto scatenare sul vero e unico oggetto della sua furia demoniaca. Cioè io. Testimone inconsapevole o ultimo di una lista orribile e inarrestabile. Questo terribile pensiero, ormai aveva riempito il mio corpo e affogato i mei pensieri in una oscura palude di disperazione. Vagavo ormai solitario, alla ricerca di una luce benevola di speranza. Mi rifugiavo nelle chiese ma era inutile: lo vedevo nascondersi velocemente nei confessionali, dietro gli altari e vedevo il suo ghigno osceno apparire sui visi beati delle statue di gesso dei santi ai quali mi rivolgevo per cercare conforto e una via d’uscita. Una via di uscita che non esisteva. Ormai ero consapevole.
Il mio destino era scritto da tempo. E il mio destino era lui. Quel piccolo. orribile, deforme, maligno e antico essere minuscolo dal color del bronzo. Una creatura antica. Subdola e invincibile. Contro la quale, inutilmente da millenni, lottava l’umanità intera. A niente erano serviti i lunghi viaggi, il nascondersi dietro false identità, tra un albergo e un altro, all’ombra di chiese e nella solitudine di grigi treni. Percepivo la sua presenza. Potevo sentire il suo odore di morte e intravvedere l’ombra ogni volta mi girassi per cercare di incrociare il suo sguardo. Ma, come sempre, era più veloce. Era più furbo. Era consapevole che, prima o poi, avrebbe vinto ancora. E mi avrebbe portato via ciò che avevo di più caro al mondo. Come fece quel terribile inverno di due anni fa, con i miei genitori. Devastati dalle fiamme. Anche allora, dissero, si trattò di un terribile incidente.
Ma sapevo che potevo combattere. Sapevo che potevo vincere.
Questa volta sarebbe stata l’ultima e sapevo quale arma usare.
Il treno, l’ultimo della notte, partiva poco prima della mezzanotte. Appena prima dell’alba mi sarei ritrovato per l’ultima volta in quella che era una casa felice. La casa che aveva sentito per la prima volte il mio pianto di neonato. Accarezzai per l’ultima volta le pareti della camera dove mia madre mi partorì troppi anni addietro. Oltrepassai il lungo corridoio verso la cucina e, dalla porta di servizio, raggiunsi velocemente il giardino. Il cuore mi sobbalzo nel petto rivedendo la piscina e alla memoria velocemente mi tornarono ricordi confusi di gioia e di orrore. Sangue. Morte.
Ma ora ero solo. Non poteva avermi seguito e non poteva certo immaginare cosa avevo riservato per lui.
Questa volta l’avrei sconfitto e l’incubo sarebbe finito. Per sempre.
Respirando affannosamente mi avviai velocemente oltre il bordo della piscina la, dove un maestoso albero di quercia, che mi aveva visto fanciullo felice ed amato, mi aspettava con i suoi rami che sembravano volermi abbracciare. E così sarebbe stato. Per sempre. Velocemente tirai fuori dalla mia borsa una lunga corda, lunga abbastanza, e resistente abbastanza. Annodai senza troppi tentennamenti un cappio e lanciai la corda in alto oltre un robusto ramo. Legai frettolosamente una cima al tronco e con una sedia mi portai abbastanza in alto da poter portare il cappio intorno al collo. Mi guardai attorno prima a destra lentamente e poi a sinistra. Niente. Nessuno. Avevo vinto. Questa volta l’omino di bronzo aveva perso. Mai più avrebbe potuto fare del male a me o alle persone a me care. E fu un attimo infinito. La sedia ondeggiò bruscamente e il mio corpo cadde velocemente verso il basso, fermato violentemente dal cappio che si serrava intorno alla mia gola. E finalmente, per l’ultima volta, fui veramente felice. Non cercai nemmeno di fare resistenza nè cercai di divincolarmi. Mi abbandonai a quella sensazione indescrivibile di pace che stava prendendo il sopravvento. E la lasciai fare.
Fino alla fine.
Fino a quell’ultimo, terribile, abominevole, istante.
Quello in cui, in un ultimo, disperato alito di vita, alzai gli occhi verso il ramo…