Premio Racconti nella Rete 2018 “E Pito vola!” di Flavia Borelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018
Ciip….ciip…. ciiiiip!
Per tutta la mattina di Ferragosto nessuno era riuscito a capire da dove provenissero a intervalli irregolari i ciip pressanti e continui di un uccellino che disperato chiedeva aiuto.
All’inizio avevamo pensato fosse il pappagallino che Lore’ aveva in gabbia quando, vestito a festa, era passato a trovarci per farci gli auguri e portarci le uova fresche, e con la sua voce cavernosa, senza chiarire se si trattasse dell’utensile idraulico o del volatile, aveva dichiarato:
‘Ho portatato ’r pappagallo per mi’ nepote.’
I ciip avevano fatto propendere per la seconda ipotesi.
Ma una volta appurato che Lore’ ’r pappagallo l’aveva effettivamente consegnato ar nepote, erano iniziate le ricerche.
Avevo frugato in tutti gli angoli del portichetto, coadiuvata da padre, madre, nonna, zii, che essendo giorno di festa erano venuti a trovarci dalla loro nella nostra campagna, ma nessuno era riuscito a trovare alcun pennuto anche se i ciip erano proseguiti per tutto il giorno a intervalli irregolari.
Sempre più disperati.
Verso sera, finalmente capii, e incastrata sotto ai gradini di pietra che portavano in giardino trovai una pallina di piume e beccuccio ormai allo stremo.
Non c’era un minuto da perdere: mentre tutta la famiglia, riunita per la festa nella villa sulle colline versiliane, intralciandomi, gridava:
“Cos’è… chi è…dov’era…fai vedere…” filai in cucina.
Acqua, ci voleva acqua per prima cosa (l’avevo letto da qualche parte)!
Feci scendere nel beccuccio una, due, tre gocce e quello bevve, avidamente. Ancora un paio e poi:
“Ti dovrai accontentare”
dissi masticando mollica di pane: sempre meglio gli enzimi della mia saliva che niente (anche questo l’avevo letto da qualche parte).
E lui beccò.
Poi, sfinito e sazio si addormentò.
Con la mano diventata incubatrice lo serravo per fornirgli una specie di caldo materno, mentre ogni tanto qualcuno, forse per ingannare la noia del giorno festivo, si affacciava e chiedeva:
“E’ morto?”
Invece, avvolto in un calzino di lana, superò la notte, continuando a beccare la mollica che io gli masticavo, e bevendo le gocce d’acqua che gli facevo scendere nel beccuccio spalancato come le fauci di un mini coccodrillo.
Dormimmo poco: masticavo e lo imbeccavo, e lui ingoiava.
Evidentemente gli enzimi della mia saliva erano compatibili col suo povero stomaco di passerottino di nido, o forse l’istinto di sopravvivenza gli diceva che seppur striminzita questa era l’unica possibilità per non rimetterci le penne, che nel caso di un uccellino è proprio l’allocuzione giusta.
Per cui continuamente lui “Cip…cicip…”
E io dai a masticare.
“Poverino è in agonia!”
affermò superficialmente sicura la padrona del negozio di Agraria la mattina dopo, e solo per soddisfare le mie insistenti richieste mi dette un pastoncino per allevare i piti ( in lucchesia i pulcini si chiamano così ), facendomi presente che comunque non sarebbe sopravvissuto, perché non sarebbe riuscito a volare, oppure sarebbe finito in bocca a un gatto. Inutile comperare una gabbietta, la scatola da scarpe bucherellata con cui l’avevo portato andava bene anche per seppellirlo, poverino!
Con fermezza pretesi la gabbietta che la signora dell’Agraria mi dette scuotendo la testa: secondo lei stavo buttando via i soldi!
Tappezzata, rivestita e imbottita con foglie di platano, rametti di ulivo, radicchio di campo e aghi di pino a formare nell’angolo una specie di nido, la conquistata gabbietta, di giorno, veniva posizionata all’aria aperta sopra un albero, fuori dal tiro del tigrato Lillo, randagio assistito per l’estate, al quale erano state promesse pedate e secchiate d’acqua in caso di attacco al pennuto.
Sotto la mia occhiuta sorveglianza lo lasciavo zampettare in giardino, in modo che potesse imparare a beccare quello che i passerotti come lui dovevano imparare a beccare. L’istinto l’aiutava, ma ai calcinacci che gli servivano per farsi i minuscoli ossicini (anche questo l’avevo letto da qualche parte), lui già un po’ antropizzato preferiva altri cibi che invece gli avrebbero potuto procurare diabete e trigliceridi. Irremovibile, mentre momentaneamente mi odiava, gli infilavo nel gargarozzo un po’ di intonaco sbriciolato.
Il Pito, avevamo finito per chiamarlo così in omaggio alla lingua locale dopo un iniziale Pippo durato non più di tre ore, assisteva al nostro pranzo.
Con i suoi occhietti a punta di spillo osservava con attenzione quello che cadeva sotto al tavolo, poi, zampettando leggiadro, ripuliva tutto.
La sera guardava la televisione con noi, volava addosso a mio padre che dormicchiava e gli si rintanava sotto al golf.
Di notte la gabbietta carrozzata Pininfarina, veniva portata nella mia camera e l’uccellino dormiva fra la persiana e il vetro della finestra aperta. Come tutti i rifugiati sapeva come comportarsi per farsi accettare: non cinguettava svegliandomi all’alba, ma appena io muovevo non so … un dito del piede? un ciglio? Attaccava:
“…Cio, cio, cio… buongiorno! fame, fame! cio…”
E intanto, alla faccia di tutti i contadini versiliani che lo avevano dato per morto:
“Tanto non mètterà (in lucchese l’accento è grave) le penne per volare, quelle che ha òra non sono quelle bòne (accento grave)… e anche se le mèttesse
( sempre accento grave sdrucciolo ) poi chi gli insegna? Lei sa fa’ a (in italiano lei sa) volare?”, stava mettendo un bel giretto di penne.
La vedremo chi gli insegna! Pensavo da smargiassa, ma in realtà non avevo la più pallida idea di come fare, però ancora il Pito non aveva le penne giuste no? Quindi inutile preoccuparsi….
E ormai mi seguiva passetto passetto: se lavavo i piatti zampettava sul bordo della finestra sopra all’acquaio facendo squaquaquack e scuotendo la testolina se gli tiravo qualche gocciola d’acqua. Quando ci avvicinavamo per dargli la pappa agitava febbrilmente in sinc le alucce: la vera gioia. Se lo lasciavamo solo in casa si incazzava e al ritorno ci guardava con occhi cattivissimi, salutandoci con cip orribili.
Era chiaro: avevo combinato un casino!
Quello credeva di essere mio figlio (e io credevo di essere sua madre): pensava di essere un umano e gli umani, si sa, non volano, camminano, quindi non ne voleva sapere di aprire le ali. Si limitava a passeggiare, come facevo io, e se tentavo di farlo alzare da terra i suoi ciip di protesta erano fortissimi.
Imbeccandolo, sgridandolo, insegnandogli a arretrare fuori di casa (nido) quando doveva farla, dicendogli buonanotte la sera e buongiorno la mattina senza incappucciarmi ( anche questo l’avevo letto da qualche parte…) gli avevo messo in testa idee sbagliate: perché mai lui avrebbe dovuto volare visto che la sua mamma camminava?
Mestamente cosciente del fatto che se non fosse riuscito a aprire le ali si sarebbe avverato quello che tutti i villici sostenevano dall’inizio ‘ tanto more…’,
perché Lillo e si suoi compagni caudati si facevano sempre più pressanti, e lui che non sapeva di essere un uccellino non aveva l’istinto di scappare, capivo che dovevo riuscire in qualunque modo a farlo volare, dovevo rimediare!
Come?….
Un lampo: i gradini di pietra del giardino!
Era un rischio ma…
Lo misi su quello più basso e lo spinsi di sotto.
Cadde goffo nell’erba battendo una vera culata con penne spiaccicate.
Con occhi increduli, incavolati e dolorosamente interrogativi mi guardò stupito. Imperterrita lo posizionai un po’ più in alto, sul secondo gradino.
‘ Cicip, cicip…’ niente pietà, lo spinsi di sotto.
Seconda culata, rigido come un legno, oltretutto non più sull’erba, ma sulla pietra.
Ormai in trance, sorda alle sue spaventatissime proteste, quasi madre assassina, lo costrinsi sul terzo gradino, e ancora lo spinsi nel vuoto.
E finalmente l’istinto ebbe il sopravvento: Pito aprì le ali e incerto e un po’ storto planò.
Mi guardò stupito.
Gli sorrisi e lo rimisi sul gradino alto e lo feci volare, ancora e ancora e ancora e lui cominciò a capire che era una bella cosa e i suoi ciiiip divennero trilli di gioia.
Ce l’avevamo fatta!
Era diventato passerotto.