Premio Racconti nella Rete 2018 “Habaek” di Valentina Capaldo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018La scossa della barca che si incaglia mi scuote dal torpore. Sono al limite. Sto morendo. Cibo e acqua mi mancano da troppo tempo. Non so come, ma riesco a crollare sulla sabbia.
“Pare che non dovremo nemmeno fare lo sforzo di prenderle la vita”
“Ti avevo detto, Habaek, di non sfogare la tua ira tutta in una volta. Ma le tempeste sono sempre state la tua manifestazione preferita e tu, i consigli, non li ascolti mai”
“Considerata la gravità delle loro colpe, avrebbero potuto scegliere meglio il loro sacrificio”
“Se pensano che questa creatura insignificante basti a far finire le loro piaghe, non hanno capito nulla”
Le voci hanno la sonorità del bronzo ma sono piane, indifferenti. Si allontanano. Silenzio.
Un respiro. Un braccio mi scivola sotto la nuca. Qualcuno mi solleva come se non avessi peso e mi porta via.
L’ambiente è cambiato. L’ombra risparmia la mia pelle martoriata. Attraverso le palpebre ancora sigillate dal sale vedo bagliori di un sole che non può più ferirmi tra il verde. Vicinissima, dev’esserci dell’acqua dolce che gorgoglia: ne inspiro l’odore. Ne ho un bisogno disperato ma nemmeno un briciolo di forza per poterla raggiungere. La stessa mano pietosa di prima mi solleva la testa e mi fa scivolare l’acqua tra le labbra. Qualcosa di morbido e umido mi viene passato lentamente, delicatamente sul viso e sul corpo. Poi, chiunque sia, si allontana e non torna più.
Ma non è necessario che torni. Forse non era acqua quella che ho bevuto. Strizzo alla luce gli occhi ormai liberi e sento il corpo ripararsi, fibra per fibra. Guardo stupefatta la mia pelle intatta, come se niente fosse successo, come se le settimane in mare aperto non fossero trascorse. Come se la Grande Siccità non avesse mai minato la mia salute. Giro lo sguardo per la radura in cui mi trovo. È quasi finta. Non c’è un difetto. Non una foglia secca, non un foro di insetto. La disposizione delle forme naturali segue un disegno di perfetta armonia. La fonte che mi ha salvato sgorga fresca e limpidissima formando uno specchio circolare tracciato da mano ferma.
Mi fa paura. Sta di certo per accadermi qualcosa di terribile. E così è. La creatura femminile che mi appare davanti è dotata di una bellezza insostenibile e spaventosa che mi costringe ad abbassare lo sguardo. Colgo un movimento impercettibile della sua persona. Un vento prima assente si leva e cresce. Fino a sferzarmi con violenza. Strappa le foglie perfette e me le scaraventa addosso. Ogni foglia un taglio netto.
La dea di cristallo ha disfatto in un attimo ciò che in un attimo era stato riparato. Non c’è parte della mia carne scoperta che non bruci. Il vortice d’aria non la tocca. I suoi lisci capelli ricadono in immobili bande di seta attorno all’ovale del viso. Poi improvviso il vento cade. Sono immersa fino alle caviglie in un mare di foglie verdi. Alcune galleggiano sull’acqua miracolosa. Ora sono i rami nudi degli alberi a proseguire da soli il loro misterioso disegno. Ancor prima che la dea svanisca, so l’impossibile compito che mi è stato assegnato. Riportare esattamente allo stato originario ciò che è stato sconvolto. Ho un giorno e una notte.
Le ore passano lente mentre cerco di ignorare la fatica. Quando l’alba del giorno successivo si leva mi trova annientata in una radura allagata, piena di foglie turgide che galleggiano pigre dopo essere state da me immerse a manciate nell’acqua che sa come risanare. Così almeno ho prolungato la loro vita. Solo una foglia ho scelto che mi rimanesse in mano. Ogni movimento mi strappa un brutto grugnito dalla gola. Mi isso su uno dei rami più bassi dell’albero più vicino e, come simbolo di quello che avrei dovuto fare, lego il gambo della foglia al ramo con un filo lungo d’erba e lo fisso con una goccia di resina. Ho appena finito di fallire la prima prova quando di colpo mi addormento.
Mi sento cadere. Un sussulto e sono sveglia. Sono giusto in mezzo ad un immenso campo di grano immaturo. Sono lontana dall’acqua, perciò il corpo non ha smesso di farmi male. Le spighe sono di uno strano verde smeraldo. Ogni colore è più vivido del normale. Mi alzo a stento e a pochi passi da me c’è di nuovo un essere che mi abbaglia. Stavolta è maschile. Sembra fatto d’aria. Nell’immobilità circostante i suoi capelli celesti sono agitati da un vento invisibile che non sento. Mi porge con un gesto aggraziato un minuscolo seme nero. Vorrei prenderlo ma lo lascio cadere. Appena tocca la terra smossa e scura il seme si trasforma in un papavero rosso che compie in pochi secondi il suo ciclo vitale. Il frutto a capsula mi esplode nella mano come un fuoco d’artificio riversandomi nel palmo altri semi. Il dio si è già dissolto nel suo elemento lasciandomi la seconda prova. Un fiore per ogni vita presa dalla Grande Carestia, non uno di più, non uno di meno. Ma la Grande Calamità dura da talmente tanto che calcolare le vittime è un compito, di nuovo, impossibile. Per primi seminerò i pochi che ho amato e perduto, poi chi ho conosciuto, chi ho visto, infine chi mi è stato detto. A questo punto si spalancherà il vuoto della memoria. So solo che a cadere, come sempre, sono stati al principio i più deboli ma ora non c’è più alcuna distinzione. Ho negli occhi la piccola folla disperata, assiepata a guardare la mia barca allontanarsi verso il largo. Pelle incollata alle ossa, spiriti svuotati, madri inermi di figli leggeri troppo pesanti da reggere. Molti saranno morti nel frattempo. Mormoro nomi e figure mentre le ore ricominciano a passare lente nel giorno e nella notte della mia semina.
L’alba sorge sul campo verde mischiato di rosso. Il calcolo delle vite e delle morti è sicuramente sbagliato e io ho di certo fallito per la seconda volta. Aspetto in mezzo al grano che qualcosa accada, che qualcuno venga. Sento un lamento. Il lamento, in un crescendo, si trasforma in un pianto infantile, di quelli accorati e irrefrenabili che mettono subito angoscia e urgenza nel cuore di un adulto. Mi faccio strada tra le spighe verso l’origine del suono e alla fine lo trovo: il bambino ha il viso congestionato, distorto nella smorfia del pianto, eppure rimane bellissimo. Il corpo squassato dai singhiozzi annuncia una futura perfezione se non fosse per un dettaglio. Dalla carne della gamba destra, saldata, forse, alle ossa, esce una stana struttura metallica. Lo spettacolo è affascinante e orribile. Appena mi vede il bambino mi tende le braccia. Ubbidendo ad un comando interiore mi accovaccio di spalle davanti a lui che si aggrappa subito alla mia schiena. Mi rialzo barcollando col mio nuovo peso. Nel mio braccio destro che sostiene la sua gamba malata comincia dolorosamente ad imprimersi la forma del metallo. Il bimbo mi guida come si guida una cavalcatura, correggendo i miei passi con pressioni delle ginocchia e delle braccia. Mi sembra di percorrere una distanza interminabile.
La grotta si affaccia direttamente sulla spiaggia. Il bambino si fa depositare lì. Riesco a poggiarlo sul pavimento di roccia senza rovinargli addosso e poi gli rotolo accanto. Non riesco a muovermi. Nel mio braccio si è aperta una piaga. Lui mi guarda serio e il suo sguardo non mi sembra più infantile. Con le due mani mi chiude gli occhi e mi fa sprofondare in un sonno buio e uguale. Quando mi sveglio dopo un tempo imprecisato lui è ancora nella stessa posizione, alla stessa distanza da me. Gli occhi che mi studiano sono tornati quelli di un bambino. Stavolta riesco a muovermi. Il mio braccio è guarito, la sua gamba no. Anche se non piange e non si lamenta, il bimbo soffre. Ha la febbre. Imparo ad accudirlo: scopro che l’acqua di mare gli fa bene come nessun altro elemento e che gli impacchi che gli faccio alleviano il suo malessere. I giorni passano. Lui sta meglio, impara a camminare anche con quel metallo addosso e dentro. È lui a prendere per mano me. Mi porta a fare lunghe passeggiate sulla spiaggia, sempre più lontano, fino a perdere di vista la barca e la grotta. Ha preso a parlarmi in un linguaggio sconosciuto che non si preoccupa di insegnarmi. Io lo ascolto e mi sembra di ascoltare un canto. Negli intervalli gli dico cose che non ho mai detto a nessuno, convinta che anche lui non mi capisca. Una sera in cui mi ha condotto particolarmente lontano lo trattengo e gli dico: “Torniamo a casa” e, con sgomento, non so più a quale casa mi riferisco.
“Devi rimandarla indietro. Ormai è tempo, Habaek.”
“Ancora un po’. Voglio tenerla ancora un po’.”
L’ora più fredda è quella dell’aurora. Rannicchiarsi sotto la stuoia non basta. Perciò il sonno buio e uguale che il bimbo mi ha regalato e che ho sempre da quando dormo nella grotta si assottiglia fin quasi al risveglio. Apro un poco gli occhi e per la prima volta devo stare sognando perché accanto a me non c’è il bambino ma un giovane uomo che gli somiglia straordinariamente. Forse finalmente è arrivato il padre per portarlo alla sua vera casa. Forse è proprio il bambino, cresciuto in questa terra miracolosa in una sola notte come un papavero rosso. Il suo viso si china lentamente a depositarmi un bacio sulla fronte.
La barca si poggia quieta sulla riva. Il vento gentile che mi ha condotto indietro non ha permesso nemmeno che mi bagnassi i piedi. Sono in pochissimi quelli che si sono trascinati a vedere se ero davvero io quella che stava tornando. Io, il sacrificio respinto. Colei che si era offerta e che era stata scelta perché non aveva più nessuno a cui sarebbe mancata, più nessuno ad aspettarla. Tocco terra e sento che forse il mio momento è arrivato. I corpi scheletrici che mi stanno davanti si raddrizzano per un comune colpo di odio. Me ne sono andata verso la mia missione sotto un sole rovente e un cielo lattiginoso e sgombro. Torno sotto un sole rovente e un cielo senza nuvole. Senza perdono o salvezza, senza alcuna promessa di pioggia. In compenso, me ne sono andata smagrita e malata; torno viva e in salute, coperta di abiti degni di una regina. Faccio rassegnata pochi passi verso quelli che saranno lo strumento della mia fine, quando un colpo di vento più forte solleva una cortina di terra polverosa che ci acceca. Sento una goccia pesante schiantarsi sul mio braccio. Poi un’altra, sui capelli.
La Pioggia è caduta per giorni in piena luce, senza nubi. Non si è mai scaricata tutta in una volta. Una volontà misteriosa l’ha regolata con cura, per dare alla terra arida e spaccata il tempo di assorbirla e rigenerarsi. La mia gente, quella rimasta, si è salvata. Ho avuto il mio momento di gloria: sono stata acclamata, festeggiata, abbracciata. Le persone vogliono sapere ogni cosa della terra prodigiosa degli dei. Vogliono sapere come ho meritato la Pioggia, come ho riscattato le nostre colpe. Qualcuno, forse, vorrebbe avventurarsi in mare per cercare le sponde dell’immortalità. Io mi sforzo di raccontare ma la mia memoria impallidisce, si consuma rapidamente. Fra poco dimenticherò tutto. Eppure mi sento diversa. A volte mi tocco la fronte, in un punto preciso. Quando mi parlano, spesso non riesco a concentrarmi. I miei pensieri sono continuamente dirottati da immagini che non so più da dove arrivino: un viso ovale, incorniciato da bande di capelli lisci e nerissimi, un altro dalla pelle diafana quasi celeste, un altro ancora che, quando mi appare sovrapponendosi alle voci e alle idee, disperdendole, mi trafigge di desiderio.