Premio Racconti nella Rete 2018 “Del viaggiare” di Valentina Capaldo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Ecco, ormai c’è dentro. Il suo primo viaggio all’estero. Anzi, il suo primo viaggio da un sacco di anni. Preferisce non ricordare per quanto la sua vita è stata solo studio, risparmio, lavoro, in proporzione variabile. Nel frattempo le sue amiche si sono sposate, hanno avuto figli, si sono trasformate. Tutte tranne lei.
Mentre intrattiene bambini non suoi, Irene parla animatamente con le amiche di ciò di cui chiacchieravano una volta. Alza gli occhi e incontra occhi spaesati. Sara, Francesca, Margherita. Sono sempre loro eppure no. Le loro esistenze si sono sfasate, i loro ritmi disancorati. Non hanno più lo stesso tempo a disposizione da dedicare a loro stesse. Le priorità sono cambiate e non è possibile fare previsioni per il futuro. Per un po’ le amiche cercano di coinvolgere anche lei nella mutazione. Con la convivenza o il matrimonio hanno acquisito nuove parentele, nuove conoscenze e le presentano dei possibili candidati per una vita a due. Ogni tentativo va a vuoto, per cattiva volontà da entrambe le parti.
Irene ascolta le sue colleghe giocare, in una pausa dal lavoro, con Google Earth. Si avvicina e loro la coinvolgono nel gioco. “Dai, dove vuoi andare?” “Parigi”. Scontato. A colpo sicuro. “Parigi? Anch’io non ci sono mai stata…”. Da ragazza Irene aveva mitizzato certi luoghi della Terra. Li immaginava così densi di vita, di presente, passato e germogli di futuro, di arte e letteratura, da presagire un vero e proprio shock nel caso in cui avesse avuto la fortuna di poggiare il piede su una di quelle pietre lucide di passi e custodi di storie. Era sicura che le si sarebbe mozzato il fiato e scombinato il cuore. Da ragazza aveva spasmodicamente desiderato di andare. Di viaggiare. Poi il desiderio insoddisfatto si era stancato ed era stato dimenticato. Nel mezzo del cammino della sua vita, Irene ora pensa a quanto poco ha visto, quanto poco ha fatto. “Il mondo è un libro e chi non viaggia ne legge una pagina sola”. Questa frase continua a frullarle nella testa. E proprio a lei che di libri ne ha letti tanti, che grazie a loro in un certo senso è stata dappertutto stando ferma, improvvisamente sembra non sia abbastanza.
A casa Irene spalanca davanti a sé un atlante: Europa. Guarda Parigi, guarda dove abita lei e la distanza, l’ignoto, l’imprevisto le mettono paura. Chiude gli occhi e visto che è mancina il dito le si ferma a sinistra, un po’ in basso.
La mano si aggrappa con le nocche bianche alla maniglia del trolley mentre fissa il tabellone dei voli. Quando vede il suo bagaglio sparire sul nastro trasportatore si sente un po’ orfana. Qualcosa del suo smarrimento di novizia le si deve leggere in faccia perché quasi tutto il personale che incontra è particolarmente solerte. Una volta collocata nel suo sedile armeggia brevemente con la cintura prima di rendersi conto che allacciarla è semplicissimo. Forse anche il volo sarà così: semplicissimo. L’accelerazione del decollo la fa sentire per un istante come sulle montagne russe e le strappa una risatina divertita coperta dal rumore dei motori. Quando vede dal finestrino la terra come non l’ha mai vista non le importa più di niente e sta lì a guardare. Una mappa reale, vivente, proprio lì, sotto di lei. La prospettiva degli uccelli e degli dei. Magnifico.
La Spagna è bruna.
Aveva dimenticato, nella sua opaca, torbida città, la qualità della luce del Sud: liquida, dorata, trasparente. In perfetto accordo con gli aranci, sorprendentemente usati a profusione come pianta da arredo urbano. Filtrata dai teli tesi tra i palazzi per fare ombra. Incanalata lungo i muri delle corti interne maiolicate. Rimbalzata dalle pareti di calce bianca. Scacciata dalla penombra dei vecchi caffè. Invadente nella sala da pranzo aperta solo per lei, con incredibile generosità, in un piccolo ristorante dove mangiare, fino a scoppiare, la paella più buona che avesse mai assaggiato. Incerta, ad accarezzare una tela di Zurbaràn in un museo quasi deserto. Spietata, nel centro del giorno, tanto da non avere il coraggio di attraversare un’immensa piazza senza riparo, con i piedi già dolenti e i muscoli delle gambe irrigiditi.
Nella gigantesca cattedrale di Siviglia, Irene respira pianissimo mentre gira lentamente attorno alla tomba monumentale di Cristoforo Colombo. In quel momento non pensa ai resti mortali dell’uomo che ha cambiato il corso della Storia. Ammira le quattro grandi figure che in un eterno passo fermo sostengono il catafalco. C’è qualcosa, nelle statue, che intimidisce sempre, che fa quasi paura. Irene guarda un bambino che si accosta titubante al mausoleo, con la bocca aperta, ma che poi si allontana a cercare la mano rassicurante del padre. Il tempo delle sculture non è il nostro. È virtualmente infinito. Hanno le nostre sembianze ma elevate a indifferente perfezione. Lo sguardo delle sculture allegoriche che simboleggiano i quattro antichi regni di Spagna trapassa il mondo fisico, per fissarsi verso un orizzonte lontano a noi invisibile, per noi irraggiungibile. Irene si lascia immalinconire da tanta altera bellezza e per la prima volta le si vela lo sguardo di lacrime perché si sente sopraffatta dalla gratitudine. Per la prima volta è grata di essere viva e di essere lì e non altrove.
Chissà se gli alpinisti in cordata si scambiano le stesse occhiate di comprensione. Sulla salita che porta in cima alla Giralda, quelli che scendono e hanno già conquistato la vetta incoraggiano brevemente con un sorriso quelli che salgono e che di rimando fanno un mezzo sorrisetto tirato dalla fatica. Irene ha il fiato corto e ancora non sa che quello è il primo di numerosi campanili che avrebbe amato nonostante alcuni le spaccassero il petto. Li avrebbe amati per la ricompensa che davano in cima: una veduta unica sulle città, i prodotti della civiltà umana da lei preferiti. Siviglia bianca nel giorno che declina.
Cordoba è ancora più bianca, quasi abbagliante. La Mezquita è una foresta di pilastri e archi moreschi, con improvvisi bagliori dorati di mosaici usciti dall’oscurità. Poi di colpo, a metà, diventa barocca e cattolica. Le due fedi, con i loro differenti concetti di spazio, stanno gomito a gomito sotto uno stesso tetto da secoli.
Gradatamente Irene si sente diventare tutta occhi, tutta sguardo. Il tempo gustato fino all’ultima goccia e lei, proiettata verso l’esterno, sollevata dal peso di sé stessa.
Più a Sud si scende, più la luce si purifica. Granada ha un’identità ancora più ibrida. Irene ci sta un po’ più a lungo e scopre che basta poco, pochissimo, per cominciare a sentire un luogo familiare, per scavarsi un inizio di nido, per orientarsi in uno spazio prima estraneo e scoprire gli angoli preferiti. Fa visita a Isabella e Ferdinando, congelati nel marmo con le loro virtù e i loro peccati. Sale verso l’Alhambra che la coglie totalmente impreparata. La bellezza le si presenta sotto nuove e sconosciute forme: è sottile e delicata, astratta ed eterea come il verso delle rondini che sfrecciano a stormi nei cortili, come gli archetti a stalattite, le colonne slanciate, i merletti di marmo traforato, le vasche, le fontane e i canali per portare il fresco dell’acqua. È nella profusione di fiori e piante dei giardini. È riflessa sui volti che portano il segno della comune esperienza di essa.
Infine, sulla Costa del Sol, il vecchio amico che non vedeva da tanto: il mare.
Irene sta andando al lavoro in autobus, come tutte le mattine. Un giovane indiano si curva sulla sua compagna che legge da un libricino coperto da una scrittura tutta riccioli. Una donna dagli zigomi alti parla in una lingua slava al cellulare. Un uomo dalla pelle scura fissa serissimo gli occhi arrossati fuori dal finestrino, con già indosso gli abiti da operaio. Il Mondo, sospinto dalle necessità e dalle circostanze lì, su un autobus.
Al ritorno, sul pullman ci si muove a fatica. Ci sono i turisti che vengono a visitare la provinciale ma graziosa cittadina di Irene. Fra zaini e valigie lo spazio è poco. L’aria si riempie di lingue europee e orientali. Il Mondo di nuovo lì, su un autobus, sospinto dalla curiosità e dal piacere di viaggiare.
A casa Irene spalanca davanti a sé l’atlante: Mondo. Sospira soddisfatta e non chiude gli occhi. Sceglie con cura dove andare l’estate successiva. E quella dopo. E quella dopo ancora…