Premio Racconti nella Rete 2018 “Amnesie” di Maurizio Camerini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Chiedo aiuto. Entro in una struttura asettica e ovattata. Qualcuno con ciabatte verdi mi conduce in una stanza dove anche le pareti e gli arredi si tingono di verde pisello. Sono nel Centro di Neuropsicologia Sperimentale, a due passi dal mar Jonio.
Ho perso la memoria, un sussurro, uno sputo, una condensazione di inenarrabile verità. Una catastrofe. E poi il vuoto. Asintomatica verità. Attraverso il tempo: il vero ultimatum. Le nuvole adesso formano costellazioni sconosciute: il vecchio me stesso. Le radici bruciano come una pianta informe e spinosa che rotola sulla savana di roccia. Il vento spunta all’improvviso e spinge verso il trascolorare del sole. Vuoto. Non ci sono appigli. La trasformazione brillante. Un calcio nel deserto di me, della mia maschera. Vedrò tutto sotto una nuova luce, il silenzio. Io cieco nel cammino di tutti i tempi. Sono il figlio della rivolta dentro un presente eterno. Girano gli astri all’interno del mio corpo. Corpo immobile, eterno. Sono la roccia, il caos. Non ricordare il proprio nome, un breve spunto di rabbia. Un incanto di purezza, vecchie scorie nella discarica. Sono qui piantato come un germoglio di frottole. Frottole cangianti. Vuoto, ho perso la memoria, eppure sono qui. Una immemore violenza. L’artiglio del diavolo dentro la coscienza. Ho perso la memoria, come uno dei tanti.
Il dottor camice verde mi spiega che c’è un problema con l’Ippocampo. Perché mi viene subito in mente l’immagine del mare? La memoria del mare negli interstizi di roccia, le onde calcaree, i flutti di spicchi di pietra, le profondità acquose pennellate dai grigi e dai verdi.
“Da ciò che lei esprime sulle sensazioni di scomparsa del tempo e quindi della sua ricostruzione attraverso la memoria, ne deduco una mancanza di ossigenazione alla struttura dell’ippocampo. Ma non una sua completa perdita funzionale”. Osservai il verde intorno a me. “Ma io, dottore, mi sento vivo, sento di abitare uno spazio, mi sento a mio agio sulle rocce”.
“Infatti, è ancora attiva la parte arcaica di funzionamento della memoria. Per gli organismi semplici la memoria non è altro che una mappatura spaziale”.
“Vede,” proseguì con un pizzico di enfasi, poggiando le mani sul senso delle parole “la nostra identità è frutto solo dell’organizzazione del tempo trascorso”. Fece una breve sospensione inspirando profondamente. “Noi uomini metaforizziamo il concetto temporale su quello spaziale. Una struttura antica come l’ippocampo funziona allo stesso modo degli organismi più semplici. La sua memoria è ferma ad una mappatura spaziale”.
Dopo un lungo silenzio, composito come una sinfonia assoluta, mi ritrovai a farfugliare. “Quindi continuo a spostarmi solo all’interno di mappe contenute nel mio cervello?”.
Ora mi trovo qui, in un verde accecante che mi avvolge stretto, che deturpa le mie rughe, mi ringhia un silenzio fragoroso e muto. Mi spengo. Si accendono bip, chip, tac, risonanze. Un oggetto indeterminato, puntiforme. Un papavero secco schiacciato in un libro ottocentesco di botanica.
E’ un papavero dai violacei petali sfrangiati, un verde bulbo centrale come un’oliva rugosa. E li ho trovati quei papaveri, i semi sono germogliati dopo anni di assenza, addormentati nel grembo duro di argilla. I loro semi e la loro resina mi accompagnano nel viaggio della memoria smarrita. Ritorno bambino. Quelle lunghe ore di sonno o di sonnolenza erano già i segni della mia vaga smemoratezza senile. Quali alchimie si nascondono nella relazione tra il mio cervello e questa pianta, fiore, frutto? Onde cerebrali che si muovono come gli steli dei papaveri al vento? E come il vento i miei pensieri si spostano al centro di una testa immobile, il movimento nella stasi, l’essere parmenideo e il fluire eracliteo. C’è pace con la papagna. Come l’oblio che la pianta induce così in pochi anni è caduto l’oblio sulla pianta stessa. Il papavero è l’emblema psichico e sociale della mia smemoratezza individuale.
In questa landa solitaria la mia mente/corpo sosta su esitanti steli. Cos’è la memoria? Ricordo la papagna che i miei nonni mi concedevano così come a loro nei corso dei tempi era stato concesso. Il dolore del mondo e l’infelicità giocate con un semplice, tenero, fragilissimo papavero. O la memoria è questo vento che gira in tondo come la mente, i pensieri, le amiche filosofie? Percepisco la polvere e l’infinito di Anassimandro così vicino a me da sentirne il dolore, l’incerto, l’infinito di mondi contemporanei. Il fluire delle cose che è dentro la materia e le storie delle nostre menti che cercano di penetrarla. O di esserne compresi. Tra i millenni e questo papavero non ci sono cesure. Solo la mia vita è per me cesura, distacco, vuoto, sospensione.
“La memoria ritornerà a germogliare, come i semi di papavero” mi ritrovai ad ascoltare la mia voce come un’eco tra i muri verdi. “Cosa è successo, hanno estirpato l’uso millenario della papagna per sostituirlo con tonnellate di psicofarmaci?”.
Ho perso la memoria. E così mi affido al dottor camice bianco che ricostruisce gli schemi di attivazione delle aree cerebrali che entrano in connessione. “Probabilmente è il circuito che fa capo all’amigdala. Lei non riesce a collegare le emozioni ai volti e ai nomi delle persone. Forse non è errato il suo tentativo di ricercare il colore dei ricordi e l’odore dei concetti”.
“Ti prego portami nel luogo che amo e che non ricordo,” dissi alla donna camicia a fiori che gentilmente mi accompagnava alla macchina. “Ha odore di verde secco, di giallo tiepido e di viola”. Se ogni fiore ha un colore che corrisponde al proprio odore, quale sarà il colore che ha odore di paura, della paura di non essere?
Camicia a fiori mi ha condotto nel Luogo. Collirio dei miei occhi incantati sui profili, venature del mio sangue arcano e bluastro, dipinte lì, appena oltre il mio corpo stanco. L’equazione del tempo perduto è scritta sulla roccia calcarea, ricalcata dai millenni di aria, ricamata nelle orlate cavità di acqua, sfrangiata nella curve di grotte.
Mi distendo nella curva dell’arcosolio. All’interno della grotta, nel ventre della terra sento l’odore del sacro. Guardo il volto di San Nicola, il suo sguardo ieratico unito ad un gesto assertivo, un dipinto nei colori di fiori di Murgia, una roccia affrescata che diventa spiegazione del mondo che non vediamo.
Uno sguardo che va oltre, le dita come un sigillo: é così che mi viene confermata la via, la risposta al dubbio, l’àncora al mio respiro affannoso. Quel gesto delle mani è un’indicazione chiara, una conferma per la mente che solitamente vaga, è il giusto passaggio che conduce dall’incertezza alla conferma, dall’errore alla chiarezza. Questa roccia affrescata è l’indizio del cammino, la preghiera, una mappa per guidarmi nel mondo, un a-priori su cui poggiare la mia identità precaria.
“La posizione del corpo e il gesto delle mani rappresentano la correzione dell’errore e ciò rinforza gli a-priori di una mente predittiva” disse camicia verde.
L’occhio si posò sulla pianta di fava, baccelli appesi a testa in giù. Lo sguardo rimase lì, non c’era altro luogo su cui cadere. E con l’occhio nella fava ricordai l’antico detto popolare. “Tempo mi dovrai dare ma ti rosicherò”.
Il tempo me lo deve concedere la fava e così aprendosi alla relazione con me può nascere l’atto di essere mangiata e di mangiare. “Oggetto e soggetto scompaiono l’uno nell’altro all’interno della relazione, e questo non è altro che il tempo” tentò di rassicurarmi camicia verde. Ma la mia mente era già altrove, in un altro tempo. Sorrisi al medico, vidi il suo sguardo poggiarsi sull’immagine di un uomo senza memoria e con una fava in mano.
“La relazione tra lei e la fava mi ricorda i quattro pilastri della consapevolezza buddista,” continuò il dottor camicia verde, con un sorriso spirituale. “Il corpo nel corpo è la sua materia costituente, le sensazioni nelle sensazioni sono il suo masticare, deglutire e digerire la fava, gli stati mentali negli stati mentali non sono altro che i suoi pensieri sulla relazione con l’oggetto e il tempo, i fenomeni nei fenomeni, infine, rappresentano il suo comprendere l’intera complessità del mangiare una fava, il superamento della morte”.
Ogni volta che torno dalla clinica a questo altopiano mi accorgo che la mia capacità di vedere diminuisce. E così ho cominciato a osservare le sfumature, i giochi di luce nelle fessure della roccia, le gocce di umidità nascoste tra strati di pietra, le orme del cinghiale bruno, le ali sfrangiate del nibbio reale. La ghiandaia marina, turchese sul petto e sul ventre, tutte le tonalità di castano sul dorso, il verde smeraldo delle estremità. La sua danza nel sole che esalta i colori del piumaggio, la coda viola e grigia sullo sfondo della trama dei grigi e dei verdi della landa delle Gravine. Sono i colori delle migrazioni, le trame dei passaggi nell’aria, nel mare, sulle terre. Sono colori senza confini.
Tornai a camminare sulle asperità delle rocce, questa volta ad occhi chiusi. Lasciai che la mia conoscenza si rinnovasse ad ogni passo, ad ogni inciampo, ad ogni caduta. Stavo riscoprendo il senso profondo del movimento, valutando i miei errori. E pian piano, errore dopo errore, arrivai a comprendere la stabilità. Fermo, i piedi nudi sulla terra, compresi l’oscuro Eraclito : la strada in giù e in su è una sola, ed è sempre la stessa.
“Siamo giunti alla fine della nostra indagine” dissero in coro le camicie colorate.
“Abbiamo ricostruito la sua biografia,” disse camicia verde. “Lei ha vissuto per anni sulla spiaggia Jonica di fronte al nostro Centro Sperimentale. Si dedicava allo studio dei presocratici nei musei del litorale e passava le sue giornate andando a pesca”.
“Dalle testimonianze da noi raccolte,” continuò camicia rossa. “Pare che lei preferisse sostare su un tratto di spiaggia vicino ad un tubo di ferro che sfociava in mare, era per lei una spiaggia isolata e tranquilla con alle spalle una foresta pluviale”.
Le conclusioni furono affidate a camicia bianca. “Lei è stato esposto alle continue emissioni di radiazioni nucleari del Centro di riprocessamento del ciclo uranio-torio della centrale alle spalle del Centro Sperimentale. Questo ha provocato delle variazioni nella struttura e nella chimica del suo cervello. Una mutazione genica con trasformazione non tumorale delle associazioni neurali della zona limbica e dell’ippocampo. Ma non esistono studi scientifici a riprova di queste correlazioni. Lei è al momento l’unico caso studiato”.
Compresi che la conversazione era giunta alla fine. Non c’erano domande giuste, né sull’inizio né sulla fine. Ritornavo alla mia catastrofe quotidiana, il rovesciamento della mia identità individuale si confondeva con la catastrofe che il tempo aveva determinato in questi luoghi.
È particolare, scritto con un linguaggio ricercato. A tratti l’ho trovato caotico, ma adeguato se penso che i pensieri del protagonista sono effettivamente caotici. L’idea è buona, mi piace.