Premio Racconti nella Rete 2018 “Streghe e Toghe” di Roberta Pizzoli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Anni fa accompagnai mia madre a un funerale in un lontano paesino dell’entroterra abruzzese. Un funerale come quelli di una volta con il carro nero, adorno di pennacchi, tirato da due cavalli, il feretro portato a braccia dai parenti maschi dell’estinta e il corteo lento, a piedi, fino al piccolo cimitero dove tutti sarebbero sfilati davanti ai parenti più prossimi per baci, abbracci e condoglianze.
L’atmosfera era solenne.
Sul finire della messa una donna di mezz’età, con i capelli scarmigliati e le mani alzate, entrò dalla porta principale correndo verso il feretro, davanti all’altare. Gridava frasi sconnesse e poco comprensibili ma alcune persone, che le erano più vicine, la sentirono dire “É mia, è mia, me l’avevi promessa!” oltre a vari epiteti poco raffinati, e per niente affettuosi, nei confronti della defunta signora Elvira.
Noi avevamo occupato un banco a destra della navata centrale della chiesa, insieme a quasi tutte le altre donne presenti, mentre la maggior parte degli uomini si era accomodata sui banchi a sinistra, come ancora oggi è tradizione nei piccoli borghi del centro sud.
Mentre prendevamo posto avevo buttato un’occhiata verso l’altare, dove officiava un giovane prete molto avvenente, atletico, con la pelle olivastra e gli occhi intensi.
“Però!” mi era scappato detto.
“Eh! Don Gonzalo è proprio bello!” sospirò un’anziana popolana vicino a me, dandomi del tu e prendendomi il braccio con la mano. “Un bravo giovane, un conforto per le persone anziane di tutto il paese. Pensa che le signore se lo litigano!”
Annuii e approfittai per chiederle notizie sulla donna che continuava a sbracciarsi e urlare:
“Ma chi è? Che cosa dice?”
“È, anzi era, la nuora della povera Elvira, la moglie del primo figlio, l’ingegnere, quello morto circa dieci anni fa. Non era mai stata una donna seria, anzi molto, molto chiacchierata, una nevrastenica – in paese la chiamano la strega – ma riuscì a farsi sposare e diventò una signora. Che ci vuoi fare, così è la vita! Comunque con la povera Elvira non si erano mai prese”.
A fianco di mia madre intervenne una matura signorina di mezz’età, afona, con una bella mantiglia di pizzo nero in testa e l’atteggiamento di quella che la sa lunga. Parlava un italiano forbito, senza accento. Era la capocorista, momentaneamente fuori servizio perché aveva un abbassamento di voce:
“Elvira era rimasta vedova molti anni fa. Era molto abbiente, una vera signora, proprietaria, oltre che di molti terreni e tenute agricole, di quel bel palazzo nel centro del paese, il più signorile. Dopo la morte del marito fu diviso in tre appartamenti molto lussuosi”.
Così seppi che, a seguito delle volontà testamentarie del capofamiglia, l’appartamento al primo piano era stato lasciato al figlio maggiore, ingegnere, marito della strega, ormai morto. L’appartamento del terzo, e ultimo piano, era entrato in possesso del figlio più giovane che vi abitava solo per le vacanze perché viveva a Roma, dove aveva uno studio di avvocato. L’appartamento del secondo piano, il piano nobile, con il balconcino che si affacciava sul corso principale, era rimasto nella piena disponibilità della signora Elvira, fuori da qualunque asse ereditario, al fine di garantirle una completa indipendenza.
Intanto la strega continuava ad agitarsi in mezzo alla navata a dispetto di tutti gli sforzi di don Gonzalo che cercava, stoicamente, di portare avanti le esequie, ignorandola, e dei fedeli che, dai primi banchi della zona maschile, cercavano di richiamarla alla calma.
“Mi hai fregato vecchiaccia della malora, falsa e spergiura!” ringhiava con astio.
“Quella strega ha fatto diventare matta la povera Elvira! Le faceva i dispetti: faceva cigolare le porte in casa e le raccontava che c’erano i fantasmi, lasciava delle bestie morte fuori dalla sua porta, la spiava dalla finestra, friggeva la cipolla alle due di notte …” si girò a sussurrare, dal banco davanti, una signora col velo sopra a una testa colma di piccoli ricci bianchi fatti con la permanente, schermandosi il viso con una mano per attutire il rumore della voce, come farebbe una damina del Settecento col ventaglio.
Ci raccontarono, intrecciando bisbigli, sussurri e segni della croce, con la collaborazione di tutte le vicine di banco, anche quelle del banco davanti e del banco dietro, che la strega, dopo la morte del marito, si era messa con un pensionato. Lui, ex camionista, ex bellimbusto, ex giocatore d’azzardo, aveva tre figli nullafacenti e sanguisughe. La strega aveva dilapidato il cospicuo patrimonio lasciatole dall’ingegnere per sostenere i capricci del camionista e dei suoi ragazzi davvero insaziabili.
“Povera donna Elvira che tormento! Se non fosse arrivato don Gonzalo dalla Bolivia a darle almeno un po’ di conforto!” disse la popolana con gli occhi verso il cielo.
“Poi un bel giorno la strega si calmò, all’improvviso. Smise la sua guerra assurda. Tutti si chiedevano come mai…” la riccia con il velo ci guardò di sbieco.
“Come mai? Elvira si era fatta furba, beh!” intervenne da dietro una signora anziana, molto elegante e ingioiellata, col naso puntato per aria, come per superbia, ma molto attenta. “Disse a quella strega che, alla sua morte, le avrebbe lasciato la casa. Capirete, a quella la casa serve per sistemare la famiglia del camionista!”
“Ma il figlio avvocato non interveniva mai?” azzardai timidamente.
“Oh, ma lui ha la sua vita, la moglie di famiglia bene, la casa in Sardegna, le bambine alle scuole private. Vedeva la mamma solo d’estate, non voleva impicciarsi …” mi rispose la superba, a voce bassa. “Vede, è là con la moglie nel primo posto, a testa bassa, fa il signore lui, l’indifferente, anziché difendere la memoria di sua madre!”
“Non ci si può aspettare niente da certi figli ingrati” blaterò stizzita mia madre, come se la cosa riguardasse lei o come se, per una sorta di transfer, avesse delle rivendicazioni analoghe nei miei confronti.
“Ma insomma, perché urla? È proprio pazza, ormai sa di aver ereditato!” esclamai infastidita.
“Ecco, ecco, zitta che mò sentiamo da Carmelina” bisbigliò la popolana aggiustandosi il fazzoletto in testa.
In quel momento entrava in chiesa, infatti, una donnetta, conosciuta in paese col nome di Carmelina. Era stata la domestica, badante, fiduciaria della povera Elvira. Sua madre prima di lei, e prima ancora sua nonna, avevano lavorato in casa della famiglia della defunta, da generazioni. Carmelina, ansimante, si fece il segno della croce dopo aver bagnato le punte delle dita nell’acqua santa. S’inginocchiò e poi si diresse verso di noi mostrando una certa agitazione. Ci stringemmo sulla panca per farle posto.
“È già arrivata quella squinternata! L’ho seguita ma non sono riuscita a mantenere il suo passo. Correva!” Tutto il gruppetto la guardava in attesa di qualche rivelazione.
“È andata a bussare a casa del notaio per chiedergli quando aprirà il testamento. Bussava, bussava, finché lui è stato costretto ad aprire. Le ha detto, dallo spiraglio della porta, che all’apertura del testamento la sua presenza non sarà richiesta!”
“Cioè non le ha lasciato niente? Ecco perché è andata fuori di testa!” mormorò la riccia col velo.
“Oh Gesù, Gesù! Ma allora a chi ha lasciato la sua casa donna Elvira?” aggiunse la corista afona facendo il segno della croce.
“Forse all’altro figlio!” osai.
“No, no, di questo sono sicura” tagliò corto Carmelina usando la mano come un fendente.
A quel punto prese la parola l’unico uomo del gruppo, tale Venanzio, impiegato alle Poste, che era rimasto nel banco dietro, un po’ verso l’esterno, a fianco della moglie. Con l’aria di chi rimette insieme il bandolo della matassa esclamò “Adesso capisco!”
Noi, intriganti pettegole, lo guardammo con manifesto interesse e, per un attimo di sospensione, tutto quel bisbiglio cessò facendo risuonare l’eco degli ora pro nobis pronunciati in coro durante la cerimonia.
“Questa mattina, di fronte all’ufficio postale, è sfrecciata una splendida auto rossa decapottabile, una Ferrari, credo. Non si era mai vista un’auto così da queste parti. Rombava come un tuono prima del temporale. Al volante mi sembrava di aver visto qualcuno che conoscevo, ma lì per lì ho pensato di essermi sbagliato. Invece, mò capisco che era proprio quello là!”
“Chi?” chiedemmo in coro spudoratamente.
“SSSsss!” ammonirono dagli altri banchi.
“Era don-Gon-za-lo!” scandì le sillabe lentamente.