Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Il viaggio” di Luca Farina

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Sei sdraiato su un prato di erba tenera che oscilla dolcemente nel vento. È marzo e i germogli sono ancora soffici e ti solleticano il palmo delle mani. A qualche chilometro, dall’altra parte del campo, di fronte al sole che tramonta con inarrestabile lentezza, si staglia la siluette della stazione ferroviaria: un piccolo edificio, ai margini del piccolo paese che ha visto nascere i tuoi genitori e ti ha ospitato per così tanti anni. La luce è surreale, e nel cielo vaniglia alcune rondini si rincorrono seguendo traiettorie spezzate, contorte come il filo della tua vita. Non sai esattamente perché sei finito lì dove sei ora. Forse per raccogliere le idee. Forse per provare a ricucire alcuni strappi nella tua coscienza. O forse solo per goderti gli ultimi raggi del sole. Il paese è piatto come una tavola, e da dove sei lo sguardo può spaziare fino all’orizzonte. La massicciata della ferrovia alle tue spalle ti protegge dal vento freddo dell’est, che la sera torna a far sentire la sua voce. Nella tua tasca c’è un biglietto di sola andata. È sgualcito, non ricordi nemmeno quando l’hai comprato, ma è stato di certo un bel po’ di tempo fa. Ti è stato di conforto per mesi, un’ultima carta da giocare prima che qualcuno venisse a vedere il tuo bluff. Quando eri piccolo, ti avevano raccontato tante storie su come la vita sia straordinaria ma non possa essere presa alla leggera, su come ogni cosa bella nasconda sempre un peso e sia dovere di un uomo accettarlo. Hai provato a reggere, ma anno dopo anno ti sei curvato e ora l’unica via di uscita è nella tua tasca. Un viaggio, non una fuga. Un momento per fermarti e fare un respiro profondo, per scendere dalla carrozza e guardare ripartire il treno stando giù.

Il sole è basso sull’orizzonte. Il disco dorato è sceso sotto il grande olmo davanti alla stazione e l’ombra lunghissima dell’albero ha attraversato l’intero campo davanti a te, e ti ha raggiunto. Ti metti seduto, arretrando un poco sul terrapieno, senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte, in modo che il sole ti illumini di nuovo la faccia. Le tue mani sanno di erba, e i soffioni che ti circondano liberano nell’aria piccoli paracadute che si perdono nel turbine della brezza serale. Vorresti essere uno di quei piccoli paracadute. Così leggero. Pulito da tutte le ansie che ti senti addosso, libero dai sensi di colpa che hai accumulato per quello che è successo a tuo figlio. Lui, certamente, non aveva alcuna colpa. Ma nemmeno tu, e questo non ti è mai stato perdonato. Quando le cose vanno male, ci deve sempre essere un colpevole, e tu sei da tanto tempo in cima alla lista. Nessuno te lo ha mai detto apertamente, nemmeno lei, ma non ce n’è bisogno: tu lo sai, e questo è quanto. Comunque ora non fa più molta differenza. Stasera, o domani, partirai, mentre tutto questo groviglio di rovi rimarrà qui, attaccato inesorabilmente alle proprie radici. Tu potrai tornare a respirare e vedere chiaramente come stanno le cose. Capirai. Guarirai. Un giorno, tornerai da lei. Bellissima. Ah come l’hai sempre amata, e come l’ami anche adesso, nonostante tutto. Inestricabile intreccio di fiori e di spine. Chiudi gli occhi. Tra le palpebre illuminate di arancio senti ancora il calore del sole. In lontananza il fischio di un treno che parte. Non c’è fretta, salirai sul prossimo… o no?

Il grande disco è scivolato ancora più in basso, si trova quasi sotto la pensilina della stazione. L’ombra della struttura è arrivata ai tuoi piedi, attraversando milioni di fili di erba, fluttuanti, ipnotici. Un brivido ti scende lungo la schiena, e arretri come un gambero sulla massicciata, per non perdere nemmeno un raggio della luce rimasta. Le tue mani sanno di fieno e di carbone. Quanto hai detestato questo paese quando eri un piccolo uomo. Così perso nel nulla immobile della campagna, mentre la vita scorreva altrove, fluida, nelle arterie delle grandi città, nel caotico rincorrersi del nord. Ma solo ora capisci che ti sbagliavi. Questo posto è nel tuo sangue. Come lo era tuo figlio. Come lo è lei. Come lo è questo sole arancione che si sta defilando all’orizzonte. Una fetta ricurva così sottile che basta la mano alzata di un bambino sulla banchina della stazione a fermare i suoi ultimi raggi, e gettare un’ombra lunghissima che attraversa milioni di fili di erba, fluttuanti, ipnotici, e arriva fino a te. Ti sposti ancora una volta indietro per cercare la luce. Ma hai raggiunto l’apice della massicciata, e ora è l’unica grande ombra dell’intero pianeta ad avvolgerti.

 Il crepuscolo si è riversato come un liquido opaco nel campo, e tutto attorno c’è una gran pace. Si è fatto tardi. Dentro di te sai che non troverai mai la forza di partire. Ti alzi. Le tue mani sanno di legno e di metallo. Ai tuoi piedi, il ferro di un binario vibra come se il sole appena tramontato si stesse scavando una via nelle viscere della terra. Nell’oscurità, per un attimo, hai coscienza di dove ti trovi. Il fischio del treno arriva come un urlo nella notte appena iniziata, e il faro è una esplosione di luce che squarcia ogni ombra.

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