Premio Racconti nella Rete 2018 “I guerrieri della notte” di Massimo Supino
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018La situazione era diventata insostenibile e tutto andava risolto entro le luci dell’alba.
Romeo centoquarantottesimo, riconosciuto dai più come il capo carismatico della capitale, aveva proclamato per il 13 luglio una tregua tra tutte le bande della città e una grande adunata all’interno del Colosseo, a cui ognuna di esse avrebbe partecipato con una delegazione disarmata di nove elementi.
La sua intenzione era di proporre l’unione di tutte le forze disponibili per un equo controllo della città che rispettasse secolari equilibri che negli ultimi tempi giovani bande arrivate nell’Urbe avevano messo in pericolo generando con i loro soprusi la possibilità di guerre tra gang sempre più sanguinarie.
Avvolto in un kimono di seta, puntuale, il gatto apparve seguito dalla sua scorta e dal suo luogotenente Amir, felino di razza persiana, che gli confermò che al momento solo una delle delegazioni non era ancora giunta. Romeo pur perplesso dalla notizia decise comunque di iniziare la sua arringa e a un suo cenno il silenzio regnò improvviso. “Roma è il più grande territorio di questa nazione” esordì con sensazionale enfasi “e c’è posto per tutti. Noi non abbiamo precluso né precluderemo mai ad alcuno l’approdo in questa città purché siano rispettate due regole: che i nuovi arrivati chiedano il nostro permesso per fermarsi e che non sconfinino mai dal territorio loro assegnato, principio che ultimamente qualcuno non sta più rispettando. Abbiamo pazientato a lungo sperando che le cose tornassero naturalmente al loro posto, ma ora che abbiamo capito che ciò non sarà possibile, non possiamo più far finta di nulla.”
In fondo, dietro le nove tartarughe tutte ansimanti a causa del fiatone che gli era venuto per aver fatto di tutto per arrivare in tempo, i nove cinghiali cercarono inutilmente di confondersi. Giunti da poco a Roma e completamente incapaci di orientarsi in una grande città, loro che si erano sempre mossi in piccoli borghi dell’alto Lazio, temevano che Romeo si riferisse a loro. Sospirarono quando videro la zampa del gatto puntare perentoria da un’altra parte e sentirono la sua voce tuonare “gabbiani! Dico a voi! Questa notte vi viene chiesto di fare una promessa, di giurare che da ora in poi manterrete il territorio a voi assegnato, il mare di Ostia, che non oltrepasserete più i vostri confini, né che attaccherete più alcun membro di altre bande!”
I nove piccioni si guardarono e annuirono a coppie. Quello che restò fuori continuò a cercare molliche. Poche settimane prima, un gabbiano aveva sconfinato nel loro territorio, tra gli alberi di Piazza dei Cinquecento, a pochi metri dalla Stazione Termini, e quando uno di loro gli aveva intimato di andarsene lo aveva attaccato e poi era fuggito via verso il mare.
“Giurate?” chiese con più veemenza Romeo.
I nove gabbiani si guardarono con ghigni da bulli. Poi, uno di loro prese la parola. “Romeo centoquarantottesimo” disse con fare di sfida “noi non riconosciamo più le vostre regole!”
Romeo sgranò gli occhi “come osi piccolo idiota!”
Ivan, il gatto siberiano capo della scorta di Romeo, si mosse per andare a dare una lezione al gabbiano, “io ti sp-ie-zzo in due!” urlò. Romeo allargò una zampa per fermarlo. Lo stesso fecero ognuno con la propria ala destra gli otto piccioni sazi di molliche, per trattenersi a vicenda.
“Tu, misero esemplare spocchioso” disse infuriato Romeo al gabbiano, “non hai la minima idea del rispetto che tu e la tua gente dovete a noi gatti! Lo sai o no, che siamo noi i padroni di questa città?”
“Ah sì? E chi lo dice?” chiese arrogante il pennuto.
“Lo dice la storia!” ringhiò Romeo.
“La storia?”
“Sì, la storia. Perché noi gatti siamo qui da sempre, ancor prima che questa città fosse eretta. Dopo aver colonizzato l’antico Egitto e la Grecia, giungemmo in Italia e facemmo nostro dapprima il territorio che fu degli Etruschi e in seguito scendemmo a conquistare le terre su cui sorse Roma. All’inizio ci contendemmo lo spazio con i lupi, quando poi si estinsero, diventammo noi i dominatori assoluti dell’Urbe. Era scritto nel Fato che lo diventassimo, perché i Romani si innamorarono subito della nostra intelligenza e della nostra bellezza, al punto da venerarci come dei.”
“Ah!” commentò con insolente imperturbabilità il gabbiano. Allora Romeo con un colpo di teatro da attore consumato prese a declamare “La mia gatta dal pelo lungo e dagli occhi gialli, la più intima amica della mia vecchiaia, il cui amore per me e’ sgombro da pensieri possessivi, che non accetta obblighi più del dovuto è mia pari così come pari agli dei, non mi teme e non se la prende con me, non mi chiede di più di quello che sono felice di dare. Come è delicata la sua bellezza, come è nobile e indipendente il suo spirito, come è straordinaria la sua abilità di combinare la libertà con una dipendenza restrittiva.”
Il gatto fece una pausa, poi aggiunse “così recitava nel 10 avanti Cristo l’imperatore Ottaviano Augusto!” Fece una seconda pausa e proseguì “le mille razze dei cani, i topi, i piccioni, gli scarafaggi, le lucciole, i cavalli, i serpenti e potrei andare avanti all’infinito: nessuna banda ha mai disconosciuto la nostra egemonia. Mai! I primi arrivati come gli ultimi, i cinghiali!”
I nove cinghiali sospirarono ancora. Nonostante la temperatura estiva, l’ansia di aver creduto che i gatti avessero organizzato l’adunata per punirli davanti a tutti per qualche loro sconfinamento non voluto li aveva fatti tremare di freddo. Uno di loro si fece la pipì sotto. Uno dei nove topi annusando l’aria imprecò verso una delle nove puzzole dandole la colpa del fetore, “eh! Ma insomma!” La puzzola lo guardò indispettita.
“Sono arrivati?” sussurrò Romeo al fido Amir, riferendosi alla delegazione ancora assente.
“No” rispose l’altro.
Romeo annuì, poi intimò al gabbiano “allora? Che intenzione avete?”
“Romeo,” disse il volatile “a noi Ostia non basta più! Se volete che restiamo nei nostri confini, dateci un territorio più centrale e rispetteremo la pace!”
Un capo carismatico cerca sempre una soluzione se in gioco c’è la pace, e Romeo lo sapeva. “Amir, che zone libere ci sono?” chiese. Il micio assistente sollevò una zampa e srotolò un foglio. Centinaia di peli si staccarono e volarono via finendo sul kimono di Romeo che guardò grugnendo il suo luogotenente. “Scusa capo” disse Amir a capo chino “ma non è colpa mia se perdo così tanti peli. Sono persiano!” Poi stese bene il foglio e lesse “Largo Argentina e il centro storico è nostro, dei gatti. La Stazione Termini dei piccioni. Piazza Vittorio che ormai è Chinatown dei cani pechinesi. Ai cinghiali, la Bufalotta, per assonanza. Ai cavalli le Capannelle. Ai cervi, Tor Cervara. Alle puzzole e i furetti l’Acquedotto dell’Acqua Marcia, per concentrare tutte le puzze in un sol luogo. Ai serpenti il Serpentone, il palazzo chilometrico del Corviale. Alle zanzare i lidi di Fiumicino, Maccarese e Fregene. Alle tartarughe tutta la zona Prati…”
“E basta!” esclamò Romeo, “c’è o non c’è un territorio libero?”
“No, Romeo, non c’è!”
“Hai sentito?” disse Romeo al gabbiano “non è possibile accontentarvi.”
“Se non ci assegnerete voi territori più centrali allora vorrà dire che ce li prenderemo noi!” ribatté il pennuto. E come segnale di carica, iniziò a gonfiarsi, emise un suono stridulo e urlò ai suoi compagni “forza amici! Piamose Roma! E piamosela mò, prima che lo faccia quarcun artro!”
A quel punto la tensione salì improvvisamente alle stelle. L’atmosfera si fece cupa ed ogni animale iniziò ad lanciare spaventosi versi che facevano pensare a rituali di guerra. I piccioni si misero in assetto da combattimento preparando i loro sederini pronti a mitragliare appena ce ne fosse bisogno. Ivan, il gatto siberiano, irrigidì la coda pronto a scagliarsi con i suoi scagnozzi contro chiunque se le fosse cercate. Altre bande si disposero in tutte le formazioni possibili: i serpenti pensarono di creare una falange, ma non avendo le dita per vedere come fosse fatta, rinunciarono e si allinearono a forma di piramide; i cavalli fecero un quadrato ma senza troppa convinzione, sapevano bene che nove cavalli in fondo non sprigionano mai troppa potenza; i topi un esagono, facendo inviperire le api che rivendicavano il brevetto su quella figura geometrica. “Noi mettiamoci ad ennagono!” urlò uno dei nove asini che era arrivato alla quarta elementare. Gli altri otto lo fissarono senza muoversi ma nessuno ebbe il coraggio di chiedergli “ma cos’è un ennagono?”
Quando la situazione era prossima a detonare e la battaglia a deflagrare si udì “un momento! Vi lasciamo noi il nostro territorio!”
“Chi ha parlato?” chiese Romeo imponendo il silenzio.
“Gaetano!” rispose un alano dal chiaro accento napoletano, sbavando a destra e a manca.
“Che significa?” domandò il gatto.
“Venerabile Romeo, innanzitutto Vi chiedo umilmente scusa per la bava, e poi per aver deciso, i miei compagni ed io, di abbandonare questa città. Ma ce ne ‘amma ‘i! Ca’, nun c’è sta chiù posto pe’ nnuie!”
“Ma perché?” chiese stupito Romeo.
“Perché siamo stanchi” rispose Gaetano “di essere sempre considerati i cattivi, di vedere che i bambini hanno paura di noi e di vedere che i nostri padroni non puliscono più le strade quando facciamo i nostri bisogni. E poi Venerabile, questa città non ci piace più. Non è più sicura come una volta. Oggi siamo in troppi e girano animali che fino a pochi anni fa nemmeno si erano mai visti da queste parti: gabbiani, serpenti, cinghiali e chi ne ha più ne metta.”
Il cinghiale più fifone fu colto nuovamente da un fremito e si udì ancora il rumore di uno zampillo. Uno dei nove topi annusò l’aria e se la prese un’altra volta con una delle nove puzzole, “ma insomma!”. Lei lo guardò irritata.
“In buona sostanza” continuò l’alano “abbiamo deciso di andarcene, lasciamo il nostro territorio, la zona di via capitan Bava…stro, quartiere più che centrale. E per la pace di questa città chiediamo a Voi di consegnarla ai gabbiani e a loro di accettare.”
Romeo rifletté sulla proposta, ma prima di accoglierla chiese al cane “ma voi dove andrete?”
“A Santa Maria Capua Vetere, ‘o paese ‘e pateme!” rispose Gaetano.
(Pausa)
Sofia aveva gli occhi chiusi. Marco l’accarezzò e le diede un bacio. Si sollevò e fece per andarsene.
“Papà” disse la piccola.
“Sei ancora sveglia?” domandò lui.
“Sì. Mi dici come va a finire?”
Marco si sedette di nuovo sul bordo del letto. Non gli venne più in mente nessun film a cui attingere per proseguire la storia, era stanco. “Finisce come sempre” disse allora, “che tutti vissero felici e contenti. I gabbiani accettarono l’offerta degli alani e la pace tornò a regnare su Roma. Ora dormi, ok? Che Papà è esausto.”
“Ma papà?”
“Sì.”
“E la delegazione che non arrivò mai?”
Se ne era dimenticato. Marco aveva inserito quel dettaglio nella storia e lo aveva portato avanti senza un senso, solo perché gli era passato di dire così in quel momento. E adesso? Non poteva lasciare Sofia senza una risposta. Rifletté un istante, scavò nella sua fantasia e provò ad immaginare qualcosa che prima o poi, ne era sicuro, sarebbe sicuramente successo per davvero a Roma. “Oh, no” disse “arrivò, eccome se arrivò. All’alba però, quando tutti gli altri animali avevano già lasciato il Colosseo, e quando il guardiano venne ad aprire il portone, lo trovò spalancato e vide la delegazione al centro dell’arena esclamò ‘ma nun è possibile! Pure i coccodrilli so’ arrivati a Roma!'”