Premio Racconti nella Rete 2018 “Settembre” di Lilly Bottiglione
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Non c’erano più dubbi. Nessuno spazio per nessun orizzonte, dall’oggi fino alla fine. Egli ne sentiva in sé la perfetta consapevolezza, e una leggera punta di dolore, ormai acquisita, divenuta ragione di essere. Nessuno però dava mostra di rassegnarsi, tra quanti lo circondavano.
Tutti sapevano, la madre, il padre, il fratello.
Era un settembre chiaro, poco incline a lasciare andar via l’estate. Le visite di controllo si susseguivano stanche, monotone. Le pareti dell’ospedale erano ostinatamente uguali a sé stesse, ogni volta, gli stessi odori, qualche lamento sfumato, l’odore dei cibi frammisto al senso del male, dell’inevitabile. Non puoi fuggire, non puoi andare via. C’è un senso nascosto che ti inchioda, ti crocifigge, dolcemente, senza scampo, le lenzuola fresche pronte per te. I passi delle infermiere.
I sorrisi.
Poter tornare a casa era un privilegio, ogni volta. Fingere che nulla esistesse. Spazio ricolmo di nulla.
Alzarsi di buon’ora, l’auto che sfrigola e resiste sotto l’impulso di fuggire, di chiudere. Si entra in ufficio, ed ogni gesto, ogni parola, ogni movimento sembra essere già vissuto un’infinità di volte, vissuto da altri ed altri che verranno.
I giorni trascorrevano lenti, i leggeri numeri danzanti sul calendario, impalpabili. Cosa è l’oggi?
Oggi sono io, sei tu che sorridi, è un soffio di vento, un’acuta ma breve sensazione di freddo.
Guardava sé stesso vivere, percepiva il battito costante della palpebre. Ha forse un nome il male che divora, o siamo noi a divorare una parte costante dei nostri giorni, mentre il male ingrandisce, acquisisce una propria individualità che infine sovrasta la nostra?
Quel giorno si alzò con leggera, crescente fatica. Un profumo incerto veniva dalle stanze adiacenti, odore di finestre socchiuse, di vita che pulsa, all’esterno.
Rumori, mormorii confusi. Le voci consuete che fingevano una pacata quotidianità.
Non sarebbe andato in ufficio. Voleva provare ad inventarsi una diversa rappresentazione, come uno scenario situato in un’isola a tutti ignota, in una diversa cadenza del giorno. Senza l’incubo degli attimi, delle ore, dell’approssimarsi della fine.
Nell’angusto spazio dell’auto si dipanavano le note della Sinfonia dal nuovo mondo. Via, verso il mare, verso la nuova gente. Si fermò sul ciglio della strada e comprò della frutta fresca, che a poco a poco tendeva a sciogliersi, in fretta, in fretta, bisogna mangiare subito. L’autostrada, il casello, i clacson. Cominciava a intravedersi il lungomare, come ai tempi dell’infanzia, quando era il tempo della vacanza, quell’odore inconfondibile.
Sembrava aprirsi la pagina di un libro non ancora letto. Scese in fretta e si diresse verso il piccolo bar dipinto di improbabili colori, quasi una risata che scaturisse improvvisamente sull’oro della sabbia di settembre.
Dietro il banco, la ragazza era piccola, bruna, con mani svelte, aggraziate. Negli impercettibili attimi di pausa guardava il mare, e giocava con un piccolo ciondolo azzurro a forma di pesce, che le cingeva il collo.
Sapeva che avrebbe dovuto parlarle. Non c’era più molto tempo. Ma fu lei stessa a destare stupore, sedendosi accanto a lui, come se non fosse lì per servire, ma per qualche altro fine, a tutti ignoto. Senza alcuna causalità, iniziò a cantare Butterfly, mentre di lontano si udiva una sirena, dal porto. Studiava canto lirico, lei. Un bel dì, vedremo.
C’erano pochi avventori, a quell’ora del mattino. Tutto era infinitamente distante dal male, dall’oggi, dalla famiglia dolorosamente consapevole. La ragazza si alzò improvvisamente e si diresse verso la spiaggia, senza togliersi di dosso la divisa bianca.
La seguì, incerto, quasi preda di un sogno. Nessuno fece caso a loro, tra i pochi bagnanti. Solo una giovane madre sollevò appena lo sguardo, attenta, vigile. Un vuoto silente li circondava, pur nello splendore dei riflessi del sole. Brusii leggeri, ma lontani.
Si incamminarono verso la città, volgendo d’un tratto le spalle al mare.
L’auto era poco distante; uno dei maggiori pregi del guidare era la possibilità di dimezzare, quasi annullare i tempi e le distanze, e di poter quindi variare, diversificare le sensazioni, fino a pensare di avere ancora vita, davanti a sé, ancora attimi, giorni. Mesi.
Così decise di non parlarle, ancora. Contro ogni pretesa ragionevolezza, la ragazza salì sull’auto sorridendo, mentre la brezza le volgeva i capelli all’indietro, quasi a trattenerla. Imboccarono la strada della collina, circonfusa dal verde, percorrendola piano fino all’identificazione delle proprie sensazioni e pulsazioni con il verde rigoglioso, gli alberi alti, i cespugli lucenti. La sosta fu quasi inconsapevole. L’aria era pregna di odori. Ogni cosa, d’attorno, era un irresistibile richiamo.
Cominciò a parlare di sé senza attendere risposta, rievocando l’infanzia e i più minuti ricordi di piccoli, insignificanti eventi. Giochi sulla spiaggia, folli risate, piccoli furti in dispensa. Lei non rispondeva, ma guardava, intendeva. Camminando, giunsero in prossimità di un pendio scosceso, da cui era possibile vedere il mare ed ogni estensione di bellezza. Il pendio era così poco distante dalla morte. Bastava compiere pochi passi, così, facilmente, in mezzo a quel profumo di verde vivo. Andarsene. Invece si inginocchiò ed afferrò con forza i ciuffi di erba, sentendo ogni cosa, i rumori, l’umido della terra.
I contrasti parevano sopraffare, ad ogni lunghissimo istante, i suoi pensieri, ad uno ad uno. Guardava il volto della ragazza silente, inconsapevole del segreto. La vita non sa mai quando morte può coglierla, e continua a non saperlo anche negli ultimi istanti. C’è una parte della vita che non conoscerà risposte. Si prosegue nel cammino, docili, battito dopo battito. Si intersecano i tempi di una stessa vita, tempo della crescita, tempo dell’amore, tempo della maturità. Le diverse labbra che si dischiudono per chiamarti. Non voglio più muovermi, non voglio venire. Solo silenzio. Bastava compiere pochi passi.
La ragazza, lentamente, iniziò a slacciarsi l’abito. Quel gesto, di inusitata bellezza, lo colpì nell’intimità più profonda; sapeva che non era una semplice offerta d’amore, era un gesto di sottile provocazione, un interrogativo, una sfida tra sé e la sua vicenda oscura.
Consumarono un breve amore, nel silenzio più assoluto. Persino le foglie parevano tacere, orfane del canto degli uccelli. L’immobilità quasi rarefatta che ne seguì fu come un dono, un attimo, una stagione che gli veniva concessa, prima di qualunque decisione.
Sdraiato sull’erba, lo sguardo perduto nel cielo, continuava a tastare l’erba umida. Improvvisamente capì di voler proseguire, per quei pochi lembi di vita che restavano. Camminare ancora, guardare ancora, respirare. Guardò la ragazza, ancora avvolta nel silenzio, le sfiorò i capelli.
Come una leggera trafittura, comprese che era tempo di andare.
Molto triste, come si può essere alla fine, probabilmente precoce, di un’esistenza. L’uso sapiente della parola ti fanno entrare senza accorgerti nella malinconia di quello stato d’animo. Commovente l’ultima disperata ricerca dell’amore. Il racconto, in certi brani, in certe espressioni raggiunge alte vette di pura poesia. Complimenti Lilly!
grazie per il bellissimo commento
Triste e’ vero, commovente anche. Una vita da mangiare subito come quella frutta fresca prima che si sciolga. Perché assaporare la vita solo quando sta per concludersi?
Complimenti per questo racconto che trafigge il lettore e lo richiama a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. Pienamente. Grazie Lilly
Profondo e delicato, un racconto che lascia il segno e non si dimentica. Completo ed esaustivo nella sua brevità coglie l’essenza della vita. Complimenti Lilly.
grazie a tutti
Hai regalato suggestioni e profonde riflessioni in poche righe…
Brava!