Premio Racconti nella Rete 2018 “La voglia” di Gandolfo Conte
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018
C’è stato, una volta…
Un re? Una regina? Direbbero i più.
Invece, no, niente affatto, sbagliato. Solo un bambino né alto né basso e né grasso né magro. Che non era un genio ma neppure un cretino. In poche parole, un bambino qualunque, però, strano a dirsi, felice. Magari – azzardiamo – perché non aveva paura dell’uomo nero che viene di notte, dei mastini assassini, dei gatti del Chechire, dei topi in soffitta, e delle tante altre cose che spaventano tutti. Viveva in una casa né grande, né piccola e né povera e né ricca, al civico 6 di una strada scordata, in una città lazzarona e vorace. Quella via, come tutte, aveva anche un nome, tanto ostico e strano che il bambino non lo sapeva pronunciare.
Anagoor si chiamava, come l’antica città sigillata da porte turrite, alle quali la gente bussava per anni, se non per tutta la vita. Nel suo condominio stava gente normale, però, come cozze, attaccata a una vita che pensavano così originale da meritare un racconto. Che, purtroppo per noi, riusciva ogni volta di una noia mortale.
Aveva due sorelle più grandi che, altezzose e distanti, non volevano giocare con lui. Passavano il tempo fra balocchi e profumi, impegnate ogni istante a sognare. Di cantare a San Remo o ballare in TV. Se proprio doveva, poteva giocare con gli altri maschietti; vestiti, tombolo e maglia non erano cose per lui, gli dissero un giorno chiudendo la porta e lasciandolo fuori. Ci rimase male il bambino a sentirsi scacciato da quelle due streghe montate. Magari, pensò, ho sbagliato a cercarle. I maschi e le femmine sono troppo diversi. Certo che è giusto doversi sposare, ma per quello era presto e si poteva aspettare. Aveva, intanto, la mamma e, a donne, poteva bastare.
La sua, per di più, era davvero speciale. Conosceva tutto – ma tutto tutto – quello che c’é da sapere, così da potergli svelare qualunque mistero. Sulla quarantina, era bella, ma un poco scontrosa. Forse – arrischiamo – a motivo del marito, un uomo piacente, però, rammollito a suon di cinghiate dal padre tiranno, iracondo e panzuto. Maritato a una arpia, secca come la sarda salata e spiona. Tuttavia, di lingua così tanto forbita da infinocchiare la madre di lei per un matrimonio combinato, come si usava all’antica.
La più piccola di quattro sorelle che vestivano sempre di nero per rispetto a lontani parenti che nessuno sentiva neppure a Natale e che, a quanto pareva, sapevano solo morire. Casalinghe – all’anagrafe – non facevano nulla. Dalla mattina alla sera, passavano il tempo a sparlare i mariti che erano sì rammolliti, ma ricchi abbastanza da potergli pagare la serva, che – come tutte le serve, s’intende – fannullona e sgarbata, strofinava ogni giorno la casa.
In un posto in collina, immerso fra i pini, lavorava, invece, la mamma. Un bell’ospedale dove andavano solo i malati bisognosi d’aria buona e pulita.
Dal giorno ch’era nato – una notte di fulmini e tuoni che non s’era mai vista prima – il bambino aveva una voglia. Un lembo di pelle più rosea e più chiara che rivelò aprendo la mano. Con grande sconcerto di tutti i presenti che lo piangevano solo e svilito, dimenticandolo in culla. A tale accoglienza il bimbo reagì con strepiti e urla, intuendo di già che il mondo di fuori non era poi così bello. E più la schiudeva e più spiattellava la sua forma di triangolo rosa che, lui – ch’era ingenuo – considerava speciale. Almeno così, si dice, pensava finché a sei anni, finito l’asilo, non andò alle elementari. Lì, di nascosto, la fece vedere al compagno che più gli piaceva. Quello, invece di essergli amico – come lui si aspettava – gli sputò in faccia e gli diede un pugno sul naso. A tale reazione così inusitata il bambino restò sconcertato.
A schiarirgli le idee ovviò con solerzia la suora maestra vestita di nero. Spartendo i rivali con fare deciso, gli disse schifata che porcherie come quelle non andavano mostrate. La mamma lo consolò, tamponandogli il naso, ma severa gli pose il divieto di non mostrarla mai più. Che stesse tranquillo; avrebbe risolto ogni cosa con un po’ di liscivia. Parlava per dire, perché, in verità, non sapeva cos’altro pensare, e, ancora di più, cosa ci fosse davvero da fare. Una voglia così non l’aveva mai vista prima. Ricordava certe storielle, fra ragazze, dette per burla, additando ora tizio, ora caio. Ma al solo pensare che il figlio fosse fra quelli, nel fondo del cuore tremava e penava. Intanto, fornì prontamente dei guanti coi buchi per le dita; li doveva, assolutamente, indossare appena fuori di casa. Erano magici, disse; rendevano invisibili chi li portava, così nessuno, mai più, l’avrebbe pestato.
Il bambino, guardandosi i guanti restò contrariato; non capiva il motivo di tenere nascosta la voglia perfetta che faceva più bella la mano. Si consolò lestamente, riprendendo i suoi giochi. C’era poco da fare: la sua natura lo portava ad essere gaio.
Per poco doveva ancora durare la sua felicità ingannatrice. Bastava solo crescere un poco e sarebbe presto svanita. Se ne andò in paradiso, infatti, la mamma una sera d’estate. Così, d’improvviso.
Pianse il bambino; gli mancava, ovviamente, la mamma. Ma – noi lo sappiamo – si doleva di più per le parole che avrebbero svelato il mistero della voglia che non si decideva a passare.
D’inverno col buio e col freddo funzionavano bene i magici guanti. Già a primavera, però, perdevano colpi e d’estate si potevano solo buttare. Nelle giornate d’agosto, con gli amici al mare a sguazzare, il bambino non usciva di casa. Di riffa e di raffa, l’avevano convinto che si doveva vergognare.
In quelle lunghe giornate, il sole, ormai nemico, pareva non dovere mai tramontare e, chiuso il libro in grembo, passava il tempo a vederlo giocare, intrufolandosi allegro attraverso le persiane. Nel suo giro frugava fra i muri, lasciando nell’ombra porzioni di stanza man mano più scure. A lui, tuttavia, pareva fissarsi ostinato sull’oleografia appesa su un muro. Impolverata e scordata rinasceva magnifica nella luce solare. Coloratissima, mostrava, in basso, a sinistra, un bimbo coi boccoli biondi che lieto giocava. Scalando gattoni un arcobaleno di mille colori, si faceva ben presto giovanotto aitante, poi uomo, vecchio con pipa e bastone e infine moriva. Giù a destra, in una cassa da morto coperta di fiori.
Che gran guazzabuglio la vita, pensava il bambino per non più di un battito d’ali. Bisogna capirlo. Aveva la voglia che urgeva. Come un buco nero sperduto nel cosmo, pareva inghiottire ogni cosa. Ma, da bravo bambino, aspettava. Dal paradiso la mamma avrebbe ben presto chiarito e risolto ogni cosa. Non sapeva che l’attesa può sempre celare inganni, azzardi e misteri.
Intanto, il tempo passava e passava.
Caro Gandolfo, il tuo stile delizioso e irresistibile costruisce l’atmosfera di una fiaba per grandi e piccini. Complimenti!
Grazie Gaspare, l’intenzione era di restituire una questione seria attraverso gli occhi di un bambino…magari un pochino smaliziato 😉
Una favola per adulti, che induce a riflettere sulle grandi discriminazioni e le sofferenze imposte a coloro che conideriamo
diversi a causa di …..una voglia