Premio Racconti nella Rete 2018 “Spirito” di Francesca Villani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Dottor G. Spirito, è scritto sulla porta in alluminio di questo studio al piano seminterrato di un ospedale dal nome presago di un destino infausto, Incurabili. In realtà, leggo su una targa mezza annerita dal tempo, è esattamente il contrario, qui venivano accolti gli ammalati di morbi rari dati per spacciati altrove e che soltanto in questo regio nosocomio potevano sperare di salvarsi la vita. Oggi nulla dei fasti di quel passato è più visibile: entrando, percorro un chiostro ormai scalcinato, le colonne perimetrali sgarrupate, i marmi crepati, gli intonaci sbriciolati. Invaso per metà da erbacce e rampicanti di ogni specie che abbracciano sacchi di calce e tubi innocenti ormai arrugginiti lasciati a terra nell’altra metà della sua superficie per lavori mai cominciati.
Sono in anticipo di mezz’ora, colpa dell’ansia per questo controllo ecografico al seno che mi mette in allarme. Dopo una mammografia di prassi, mi era arrivata la telefonata: signora, il medico vorrebbe vederci chiaro, l’esame lascia spazio ad alcuni interrogativi. Per calmarmi, qui ci sono venuta da sola, perchè è l’unico modo che conosco di affrontare le cose. Da sola, in silenzio, respirando bene ogni boccata d’aria che mi entra nei polmoni come a purificare il corpo attraverso il mondo che faccio più mio e del quale oggi mi sento parte nel cercare la solidarietà e il sorriso degli sconosciuti che incrocio: il vecchietto nell’ascensore della metropolitana che prendo per un pelo, il guardiano nel gabbiotto all’ingresso dell’ospedale a cui chiedo indicazioni come se la sua risposta fosse già la soluzione al mio problema, il parcheggiatore abusivo al quale regalerei subito un euro anche se quassù ci sono arrivata a piedi.
Non ho neanche il tempo di immaginarmi uno scenario, fuori questa porta priva di sala d’aspetto, perchè l’inserviente solitario che forse sta smontando di turno reduce dalla nottata, senza che io gli abbia chiesto niente mi dice “Signo’ entrate entrate, il dottore sta già dentro, bussate alla porta ed entrate, se siete in anticipo è pure meglio per lui”. Non mi sembra vero azzerare i tempi dell’impatto, così chiedo permesso e faccio capolino. Mi accoglie questo bel signore brizzolato sulla sessantina che assomiglia vagamente a John Turturro ma più impettito, dentro uno studio completamente in penombra, unica luce il quadro illuminato sul quale sono già posti due seni palesemente diversi per dimensioni e aspetto in radiografia.
“Mettiamo subito una cosa in chiaro, signora. Qua, nonostante il camice, io non sono un medico e lei non è un numero. Siamo due esseri umani, uguali, anzi fratelli, come diceva Einstein, perchè tutti discendenti dalla stessa donna africana vissuta non so quanti milioni di anni fa. E il suo sorriso così aperto è già un segno chiaro, perchè io e lei adesso ci facciamo prima una bella chiacchierata.”
Sono terrorizzata. Il ‘segno chiaro’ è questa accoglienza, che mi sembra tanto il preludio cordiale volto ad indorare una pillola inesorabilmente amara, anche perchè lui continua: “I pazienti vengono qua convinti di essere immortali, e così quando scoprono che hanno una malattia cercano da noi il rimedio come se fossimo infallibili e la medicina riuscisse a guarire ogni male. Ma io lo dico a tutti, guardate che anche voi prima o poi dovete morire! Rassegnatevi! Nessuna cura, per buona che sia, potrà salvarvi la vita! Con le malattie bisogna saperci convivere, bisogna accettarle, fanno parte del gioco, cara signora bella.”
Ma questo qui cosa sta cercando di dirmi? Mi sento improvvisamente accaldata e così faccio per togliermi il cappotto e lo appoggio su una sedia dietro di me, tanto tra qualche minuto dovrò spogliarmi comunque.
“Signora, che fa? Lei sta prendendo una iniziativa! Non le ho mica detto che poteva! Venga, guardiamo insieme questo schermo: vede? qui ci sono migliaia di cisti microscopiche, del tutto innocue, che apparentemente non ci dicono nulla. Del resto, lei lo vedrebbe uno sciatore vestito di bianco su una montagna innevata?” Resto perplessa. “Facciamo un altro esempio, più bucolico questa volta, in omaggio a lei: il suo seno è un bellissimo campo di fiori, una sterminata distesa di piccole margherite bianche. Che meraviglia! Ma se lì in mezzo crescesse un girasole, ce ne accorgeremmo? Sarà impossibile finchè questo si manterrà allo stesso livello degli altri fiori, ma dopo un certo tempo comincerà ad emergere più alto, più grande e di colore giallo, e ogni giorno crescerebbe un po’ di più e noi a quel punto lo vedremmo nitidamente anche dalla distanza, ci salterebbe immediatamente all’occhio. Il rischio potenziale che una delle sue microcisti si trasformi in qualcosa di diverso non possiamo trascurarlo, perciò ora controlliamo da vicino.”
Non ho mai sentito un medico parlare in modo così rassicurante ed elementare, e poi con un sorriso così, come se mi conoscesse da sempre e mi volesse persino bene. E’ più forte di me, devo dirglielo: dottore, sa, questo è un periodo proprio strano e nuovo della mia vita, scopro passioni che ignoravo e che mi ispirano, mi apro ad amicizie inaspettate e gratificanti, esploro interessi che finalmente mi scuotono dal torpore di una vita spesso di un colore solo. E adesso incontro lei, di prima mattina, in questo seminterrato adibito a studio, con questo sorriso. Lei mi sta facendo un regalo.
“La signora ci ha visto giusto, perchè la mia arma è questa. Io sorrido. Sempre. E ho capito che le persone, anche quelle più incattivite e nervose, restano spiazzate di fronte ad un semplice sorriso, non sanno come reagire. Mi pigliano per pazzo. La mattina, scendendo da Capodimonte giù per la Sanità in macchina, sa quanti ce ne sono già frenetici alla guida, sembra che stiano facendo a gara a chi arriva primo, a chi frega il prossimo al semaforo, a chi riesce a spuntare la precedenza. Quando incrociano me restano basiti, perchè io mi fermo, sorrido e li faccio passare. Vaglielo a spiegare che se tutti sorridessimo un po’ di più, il mondo sarebbe un posto migliore.”
Sono ammaliata, non mi sono accorta che sono già distesa sul lettino a torso nudo, e lui mi sta frugando addosso con l’ecografo, fissando uno schermo ma senza mai smettere di parlare. Non so più che ore sono, lo ascolto ormai rilassata, e in quel momento sospeso nel tempo lui mi racconta tutta la sua vita: gli inizi come animatore sulle navi da crociera, quando ‘ancora Fiorello non esisteva’, la passione per la recitazione dopo la folgorante conoscenza di Nanni Loy e le prime esperienze sul palcoscenico, l’incontro con questa donna bruna -“era bellissima, e lo è ancora, la più bella di tutte per me, anche se gli anni ci hanno appesantito”- , il bambino concepito dal puro amore e nato a ridosso del terremoto dell’ 80, la casa inagibile e il ritorno agli studi interrotti di medicina, per tenere la testa sulle spalle e una famiglia a carico. E infine la musica, suonata, ascoltata, coltivata e trasmessa al trentenne che oggi è suo figlio, cantautore.
Quando il dottor Spirito mi consegna il foglio con il referto, che rimane più volte incastrato nel rullo della stampante di un computer che obsoleto è dir poco, vorrebbe darmi appuntamento tra sei mesi. Invece la sua espressione cambia di colpo, diventa mesta: si è ricordato che il suo ambulatorio stanno per chiuderlo per sempre, malgrado funzioni a dovere, nonostante le richieste dei pazienti e le lunghe liste d’attesa ancora in corso. Non lo avrei rivisto più. Il caso stamattina mi ha fatto un dono destinato a non ripetersi.
Lo abbraccio come si stringe un amico generoso, di quelli che condividono per lasciare qualcosa di se’ al mondo. Non faccio in tempo ad aprire la porta, ci sono tre donne corpulente in attesa. Una con l’accento russo o ucraino si avvicina con ansia, parlano tutte insieme-quanto tempo hanno aspettato qui fuori, ci avranno sentito conversare? – un’altra si è già intrufolata nello studio.
Spirito sfodera il suo sorriso disarmante.”Signore! vi prego. Con calma. Oggi è una bella giornata.”
È un racconto delicato e carico di speranza: magari fossimo tutti come il dottor Spirito, e saper affrontare con un sorriso i torti della vita.