Premio Racconti nella Rete 2018 “Suicidio” di Adriano Pistolese
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Stamattina lo faccio. Così ho stabilito, è mercoledì 9 maggio 2018, sono le sei e quaranta del mattino, e io ho deciso che oggi lo faccio, non domani, non dopodomani, non fra un mese o un anno, oggi, così non ci penso più.
Sto fissando il soffitto sopra al mio letto, in un angolo ci sta uno di quei ragni con le zampacce lunghe, è immobile e credo stia ricambiando il mio sguardo, pare quasi che mi giudichi, divertito, perché sono brutto solo e disperato, ma non me ne frega un granché dato che in ogni caso lui è più brutto più solo e probabilmente più disperato di me.
Sarà da circa mezz’ora che sono sveglio, non riesco più a dormire ultimamente, mi faccio al massimo un paio di ore di sonno, mi sto lentamente trasformando in uno zombie. Passa qualcosa come un’ora, poi mi levo le coperte di dosso e vado in bagno a pisciare.
C’è ancora la lettiera del mio gatto sotto al lavandino, il mio povero Attila che è morto qualche settimana fa per un problema ai reni… ma è stato meglio così, aveva undici anni e io non riuscivo più a stargli appresso mentre invecchiava. Dovrei levarla quella lettiera, buttare via tutto, ma tanto ormai lo lascerò fare a qualcun altro, probabilmente a mio fratello quando verrà in questo buco che è casa mia, come un avvoltoio, per svuotarla delle mie cose e farci quello che vuole. Finisco in bagno e torno in camera a cambiarmi, mi sfilo il pigiama sudicio e indosso il completo da ufficio, lo faccio con lentezza, tanto di fretta non ne ho.
Poco prima di uscire mi domando se non sia il caso di scrivere una lettera, magari da lasciare sul tavolo in cucina o sulla mia scrivania in ufficio. A chi la dovrei rivolgere, però? A mio fratello? A quella serpe di sua moglie? Ai loro figlioletti? Ai miei colleghi? A chi? L’avrei volentieri lasciata ad Attila, ma lui mi ha preceduto, pace all’anima sua. No, niente lettera, che senso avrebbe? Il mio gesto parlerà da solo, eccome, non avrò bisogno di usare le parole. Così lascio il mio appartamento, senza starci troppo a pensare; nemmeno prendo le chiavi della macchina, ho voglia di camminare fino all’ufficio, a piedi ci vuole una ventina di minuti.
Fuori pioviccica, è una di quelle classiche giornate di merda, tutto grigio, triste, le nuvole, lo smog, le macchine, i clacson, la gente che fuma alla fermata dell’autobus, i bambini spaesati che danno la mano agli adulti, odori nauseanti che fuoriescono dai bar appena aperti… non vorrei vedere, non vorrei sentire, non vorrei respirare. Non ho portato l’ombrello, sento le gocce fredde cadermi sul punto calvo al centro della testa, anche la giacca mi si sta bagnando, e non voglio fare il mio ultimo ingresso a lavoro zuppo d’acqua. Accelero il passo, in un quarto d’ora arrivo.
Lavoro in una filiale Telecom, reparto Controllo di Gestione, c’ho messo piede a ventitré anni e ci sono rimasto incastrato per altri dodici, fino a oggi. Mi sono guadagnato una buona posizione perché sono un ottimo lavoratore, perché ho vinto i concorsi, ho fatto le cose come si devono fare. Arrivo che sono le otto e quarantadue, un po’ bagnato ma nulla di grave.
Incontro all’ingresso un paio di colleghi, do loro il buongiorno, ricambiano, poi tiro dritto fino alla mia stanza. Mi chiudo la porta alle spalle, poso la valigia, mi tolgo la giacca, siedo alla scrivania e mi prendo qualche minuto per pensare. Mi chiamano: devo stare in sala riunioni fra venti minuti, dico va bene. A questo punto ho un momento di crisi, perché la mia mente si è subito attivata per rispondere alla richiesta che mi è stata fatta: direzione sala riunioni, portarmi appresso i documenti che ho stampato ieri, fermarmi dal capo reparto per consegnarglieli, chiedergli anche un paio di cose su un problema sorto l’altro giorno, poi riunione. Ho già elaborato la sequenza di azioni che dovrò compiere nei prossimi minuti, in automatico, perché sì, funziono come uno stupido automa, digiti un codice e io subito rispondo, faccio, vado, dico, ed è così che mi porto avanti, che mi trascino ogni giorno, ma non sono io a volerlo, o meglio, io non ci sono più, è il mio ruolo che continua ad andare avanti, a funzionare senza di me, è un po’ come se mi avessero mozzato la testa e il mio corpo ancora si muovesse.
Allora mi fermo, con un enorme sforzo, stringo i denti e sopprimo il pattern di azioni che il mio corpo è pronto ad eseguire. Stavolta non esco dal mio studio, non ci passo dal capo reparto e non vado alla riunione, oggi ho intenzione di comunicare davvero, per la prima volta, con tutte le persone di merda che stanno in questo ufficio; oggi vedranno me, il tizio suicida, quello che non dorme da settimane e che non riesce nemmeno a disfarsi della lettiera del suo gatto morto, ruberò la preziosissima attenzione di tutti, per la prima e ultima volta nella mia esistenza, manderò in tilt il sistema, come un blackout.
Mi sciolgo la cravatta, la lascio cadere per terra, poi mi alzo e mi dirigo verso la finestra: la apro, ha appena smesso di piovere e l’aria è ancora densa di umidità, mi aggrappo alle ante e salgo con entrambi i piedi sul cornicione; chiudo gli occhi per un istante, prendo un respiro, poi mi calo sulla sottile striscia di marmo che mi separa da un vuoto di ventuno metri.
Insomma, lo sto facendo, sto vincendo io, mi guardo intorno e vedo gli altri palazzi grigi, il cielo pesante, le macchine per strada, le persone che camminano o che sostano, presto qualcuno mi noterà. Ho immaginato questo momento un’infinità di volte, e quasi sempre la scena si conclude con qualcuno da dentro l’ufficio che sta per agguantarmi e trascinarmi di nuovo nel sistema, ma un attimo prima che mi possano sfiorare io mi lancio, e mando tutti a fanculo. Immagino andrà più o meno così ora che mi trovo nella realtà, ma sicuramente c’è qualcosa che manca rispetto al sogno, non c’è quella solennità, quella gravezza che attribuivo ai miei ultimi istanti: è tutto come al solito, non ci sono luci, suoni o altri effetti speciali, anzi la situazione è piuttosto squallida, io lì fuori con le mani che si aggrappano alla finestra, provo un qualcosa di vagamente simile alla delusione. Poi però succede qualcosa, sento un grido lontano: una donna ai piedi del palazzo con il muso all’insù guarda nella mia direzione, non posso vedere la sua espressione ma immagino sia spaventata. Inizio ad eccitarmi, di più, voglio di più, altre persone imitano la donna e si mettono a guardare verso l’alto, a puntare il dito, ad agitarsi, ma c’è qualcosa di sbagliato, sembra che non stiano indicando proprio me, guardano un po’ più a destra… e allora mi giro verso destra e vedo anche io.
C’è un tizio in bilico sulla mia stessa lastra di marmo, a una quindicina di metri da me, ma non è in piedi, non ha i palmi delle mani stretti attorno al cornicione della finestra, no, quest’uomo è seduto con le gambe a penzoloni, il busto proteso in avanti, sul punto di cadere di sotto.
Non capisco, la mia mente prova per un attimo a processare l’immagine che ho di fianco, ma vado in tilt: cosa sta succedendo? Chi è lui? Che ci fa lì, come me? Sento di star sudando, il mio corpo è improvvisamente diventato una stufa, e a vedere quel personaggio così in bilico mi viene anche un fortissimo senso di vertigini. Provo a dire qualcosa, apro la bocca, ne esce fuori un verso confuso, ma è sufficiente per catturare l’attenzione di quello: si gira a sua volta verso di me, e lo riconosco, è entrato nel mio reparto un paio di anni fa, non ho mai avuto molte interazioni con lui, so soltanto che è divorziato… ha gli occhi rossi, gonfi, mi sta guardando e dice “no, no, no…”, ma no cosa? Vorrei chiederglielo, se solo ne fossi in grado in questo momento, ma lui mi precede, mugugnando un “non ti avvicinare”, e a quel punto capisco tutto.
Questo stronzo si vuole suicidare, proprio oggi, proprio qui, a qualche finestra dalla mia, è un altro suicida, anzi, sono io l’altro suicida, perché lui si è chiaramente piazzato qui prima di me, forse mentre me ne stavo alla mia scrivania a rispondere al telefono. Sento un grido alle mie spalle, anche le persone dentro all’ufficio si sono accorte della situazione, e non so cosa pensare, non so cosa fare. Si affaccia una signora dalla finestra accanto alla mia, mi guarda sconvolta, poi guarda l’altro uomo, torna a me e mi strilla di “fare qualcosa”. A quel punto mi viene quasi da ridere, o forse da gridare, perché intuisco al volo che non sono nemmeno più l’altro suicida, sono solo un deficiente che sarebbe uscito lì fuori per “fare qualcosa”, per salvare quell’uomo in procinto di buttarsi.
Il mio piede muove un passo verso destra, istintivamente, sento le gambe tremarmi. Vorrei provare a spiegare la situazione, dire che è tutto un errore, che quello che si deve suicidare sono io, non quello stronzo, ma non ci riesco, la mia gola è chiusa, serrata. La donna che si è affacciata è ancora lì, e io muovo un altro passo verso il suicida, perché la verità è che sono un fallito, un automa, mi è stato dato un altro compito e io non riesco a non eseguirlo. Sto provando a fare qualcosa, qualcosa per gli altri, non per me.
L’uomo emette un verso strozzato e torna a guardare verso il basso, ormai si è formata una piccola folla, e da lontano si sente la sirena di un’ambulanza. Mi separano pochi metri da lui, ma intuisco che non c’è più molto da fare.Di colpo si butta, si lascia andare, in un istante non c’è più, precipita verso il basso, accompagnato da un orribile grido collettivo. Finisce contro il tendone di un bar ai piedi dell’ufficio, lo sfonda e cadefra i tavolini. Io a quel punto serro gli occhi e mi schiaccio contro la parete alle mie spalle. Ho una paura assurda, potrei stare per svenire, ma muovo due passi indietro e sento di nuovo la finestra del mio studio, così mi ci fiondo letteralmente dentro, atterrando sul pavimento. Sento un gran baccano nel corridoio, mentre fuori l’ambulanza è arrivata, il suo strillo adesso è forte e chiaro. Mi sollevo a fatica e do un’occhiata al di là della finestra: posso vedere il buco nella tenda, e persone che corrono per entrare o uscire dal bar, poi sento una voce urlare: “E’ vivo!” e questo mi sconvolge ancora di più.
La tenda deve avere attutito il colpo, o forse ventuno metri non sono abbastanza, sta di fatto che quell’idiota è ancora in vita, il suo suicidio è fallito, e anche il mio. Provo a ricompormi, mi passo una mano sulla fronte sudata, raccolgo la cravatta e la riallaccio attorno al collo. Mi adagio sulla scrivania e ascolto l’agitarsi dell’ufficio, i passi dietro la mia porta, le voci, qualche lamento, mi sento in trappola.
Sono le nove e venti di mattina, sono vivo e vegeto, il mio cuore batte a mille, la mia pelle suda, e io non ho più intenzione di buttarmi giù da un palazzo, non da ventuno metri e con un tendone sotto, per lo meno.
Ritmo incalzante, si legge tutto d’un fiato.
Complimenti, Adriano
Un racconto che ti cattura, ti tiene col fiato sospeso fino all’epilogo. Davvero ben congegnato e scritto benissimo. Mi è piaciuto molto
Grazie!! Mi fa piacere che sia piaciuto 🙂
Un perdente (ma non troppo) più simpatico di tanti vincenti! Il racconto ha ritmo e molta azione, e l’ironia lo conduce sulla giusta linea di equilibrio fra tragico e comico. Bravo Adriano!
Esilarante questo racconto! Complimenti per l’idea originale ed il ritmo incalzante, si legge d’un fiato.
Grazie, Marco e Gloria, per le belle parole!
Racconto che si fa leggere in modo intenso perchè incuriosisce, cattura il lettore e lo trascina portandolo con se tra le parole di chi lo ha immaginando, di chi lo ha scritto, facendo immaginare al lettore con la fantasia fotogrammi come se fosse la scena di un film.
Complimenti ad Adriano!
Davide La Noce
personaggio realistico, simil sveviano che però sembra trovare nel suicidio l’unico riscatto. ma quello che più mi stupisce sono i punti di contatto con il mio racconto, ce ne sono davvero tanti, solo che poi io non ho trovato l’ironia del finale come invece hai fatto tu. proprio bello. complimenti!