Premio Racconti nella Rete 2010 “L’ultima parola” di Riccardo Mannori
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Andrea, come tanti ragazzi a quell’età, era fragile nel suo equilibrio interiore, indifeso di fronte al mondo degli adulti e di quei coetanei che lui sentiva e gli altri giudicavano, più furbi ed intraprendenti. Ad Andrea piaceva fantasticare, immedesimarsi nei suoi eroi, ora si sentiva Zorro, altre volte s’immaginava nei panni di Robin Hood o in quelli di Sandokan ed era in queste vesti che faceva giustizia, la sua giustizia, vendicandosi dei soprusi, delle umiliazioni e dei torti subiti. In certi momenti la realtà diventava così pesante ed insostenibile che Andrea s’isolava dal mondo rifugiandosi nelle sue fantasie per intere giornate. Capitava che arrivasse a sera senza nemmeno rendersene conto, costretto ad inventare bugie per giustificare i compiti non fatti. Per quei falsi mal di testa l’avevano portato anche dall’oculista ed ora era costretto ad indossare un inutile, orrendo paio d’occhiali, per il quale, i compagni, non mancavano di canzonarlo.
Andrea aveva un sacro terrore degli insegnanti. Tremava, gli sudavano le mani, gli si contorceva lo stomaco e non gli usciva più la voce. In classe i compagni gli facevano stendere le braccia in avanti.
– Guardate! Guardate come trema. Commentavano ridacchiando.
Per un compito ben svolto fu accusato d’aver copiato. Tutti sapevano che Andrea non copiava mai, non copiava semplicemente perchè non aveva il coraggio di farlo.
A presenziare alla sue interrogazioni c’erano sempre due o tre insegnanti.
– Che poi non si dica che sono io quella che ti incute terrore.
Allora il panico d’Andrea diveniva totale e le sue paure si moltiplicavano per due, per tre, quanti erano gli insegnanti.
– Dove ho messo il testo di grammatica? Chiese un professore. Qualcuno l’ha visto?
Ad Andrea sembrava impossibile d’esser l’unico a ricordare ma, considerato che nessuno rispondeva trovò il coraggio di parlare e con una vocina flebile disse.
– In basso, signor professore, nell’armadietto a destra.
– Andrea?! Allora non sei addormentato come sembra!
Alla fine dell’ora i compagni si accanirono contro di lui. Lo prendevano in giro imitando il vocione del professore.
– Allora Andrea? Non sei addormentato come sembra, sei proprio scemo!
Continuarono così per tutta la ricreazione fin quando, all’improvviso, la camicia d’Andrea cominciò a gonfiarsi paurosamente, i bottoni, ad uno ad uno, saltarono via, i pantaloni si aprirono rompendosi in mille brandelli, i muscoli delle braccia e delle gambe diventarono enormi e la pelle si tinse di verde, era arrivato Hulk.
Nel cortile, durante la ginnastica, i ragazzi si mettevano in riga per ordine d’altezza. Più basso d’Andrea c’era solo Turiddu, un morettino dalla corporatura robusta e una folta chioma di riccioli neri. Andrea era esile, il carnato chiaro, i capelli lisci e sottili e gli occhi grigi come la nebbia d’autunno. Sotto la doccia, dopo la ginnastica, c’era voluto tutto il suo coraggio, lo avrebbero deriso e lui lo sapeva ancor prima di spogliarsi. Il Caponi non faceva testo, quello aveva già i coglioni gonfi come noci, il glande sempre di fuori e pisciava schizzando e sgrondando dappertutto. Il Caponi non faceva testo, ma nessuno, nemmeno Turiddu, l’aveva piccolo come il suo. A casa se lo guardava, non capiva perchè a lui il glande non usciva e anche i testicoli, che ogni tanto scendevano poi scomparivano di nuovo.
Ad Andrea piacevano le ragazze, sopratutto piaceva Simonetta, quella con le fossette sulle guance. Con Simonetta faceva tutti i giorni un tratto di strada insieme, lui da solo su un marciapiede e lei, con due amichette, sull’altro. Lui la guardava ed anche lei lo guardava, rideva, indicandolo alle amiche. Andrea giurò a se stesso che avrebbe attraversato la strada e per costringersi a farlo s’impose una penitenza.
– Se oggi non lo faccio giuro che mi taglio un dito.
Attraversò la strada. Si avvicinò alle ragazze, era ad un passo, le sentiva chiaccherare, Simonetta si girò verso di lui, con un gesto eloquente avvicinò il pollice all’indice e rivolgendosi alle amiche esclamò.
– Così! Dicono che ce l’ha piccolo così!
Andrea si fermò di colpo, lasciò passare l’autobus della scuola, tornò sul suo marciapiede e riprese a camminare. Fissava il movimento dei suoi piedi, uno davanti all’altro, cercando di appoggiarli sempre sulla stessa mattonella, d’un tratto sollevò lo sguardo, un timido sorriso apparve agli angoli della bocca, alto in cielo, in fondo alla strada, Batman scese giù come un fulmine, si diresse verso le ragazze e fra l’espressione attonita e stupita dei presenti, prese Simonetta fra le braccia e se la portò via.
La giachetta nuova, con quel tessuto bicche bocche, non gli piaceva proprio. Almeno due taglie sopra la sua sembrava un cappottino dal quale spuntavano solo la punta delle dita ed un pezzetto di gambe, dal ginocchio in giù. Ad Andrea quella giacchetta non piaceva, ma piaceva a sua madre che aveva fatto tanti sacrifici per comprargliela. Quando entrò in classe l’insegnante lo guardò, lo fece alzare in piedi, lo mise accanto al figlio del notaio che, pure lui, aveva un vestito nuovo.
– Ecco, disse indicando a tutti il futuro “notarino”, questa sì che è una bella giacca!
Ad Andrea quella giacchetta non piaceva, ma ora sentiva gli occhi gonfi riempirsi di lacrime, ma non pianse, tornò al suo posto, si sedette appoggiando la testa, stretta fra le braccia e strizzò gli occhi forte, forte. Sul pennone più alto del campanile del duomo vide Spiderman che legava la professoressa insieme al “notarino” mentre, irriverrenti, dei piccioni gli defecavano addosso e le campane suonavano a festa.
Alla fine del secondo trimestre ci furono i colloqui con gl’insegnanti.
– Andrea è immaturo, signora, infantile, arriva a stento alla sufficienza. Vede, ne abbiamo discusso fra di noi, nel collegio e siamo tutti convinti che ripetere l’anno non gli farebbe altro che bene. D’altronde, lei mi capisce, meglio ora che più avanti.
Sua madre tornò a casa avvilita, arrabbiata.
– Ma allora sei proprio deficiente!
Era tardi, era ora di cena, ma volle che Andrea si rimetesse sui libri.
– Avanti, traduci, sentiamo! Voglio proprio sentire.
Andrea era stanco, confuso, lesse la prima frase, cercò di ricordarsi le regole, la testa era completamente vuota, non riusciva a pensare, più si sforzava e più si perdeva nel nulla. Suo padre rientrò dal lavoro, si soffermo un attimo anche lui a leggere.
– Die constituta causae dictionis clientes obaeratosque suos…, a logica, s’intende subito, a logica, poi rivolto alla moglie, ma allora non capisce proprio niente.
Andrea non dormì tutta la notte, i suoi eroi l’avevano abbandonato, non bastavano più, non c’era Zorro o Sandokan o Robin Hood che lo potesse aiutare. Andrea odiava, odiava tutti dal più profondo dell’anima, sua madre, suo padre, i professori, i compagni e Simonetta, si, odiava anche lei. Pensò di ucciderli, ma sentiva di non averne il coraggio, pensò di punirli punendo se stesso, si alzò, aprì le finestre, s’affacciò sul balcone, gettarsi nel vuoto, si sporse più volte dalla ringhiera, guardò giù, ma non trovò la forza di farlo. Si rannicchiò su una poltrona, rimase lì tutta la notte, aveva un solo pensiero, una sola volontà, fargliela pagare. Li avrebbe fatti pentire per le loro parole. Ecco, parole…parole, quel suono gli risuonava nella testa, si, ora sapeva cosa fare. Aspettò mattina giurando a se stesso che avrebbe mantenuto il suo proposito. Sentì la mamma alzarsi, andò in cucina ad aspettarla e quando la vide, con tono di voce fermo e deciso disse.
– Io non parlo più.
Oggi Andrea a cinquant’anni, distribuisce pasti in un ospedale psichiatrico, è amato e benvoluto da tutti, medici, infermieri e pazienti, ma da quel giorno non ha mai più detto una parola.
Una legge della fisica recita: un corpo sospeso è in equilibrio stabile se il punto di sospensione passa sulla verticale del suo baricentro. La più lieve oscillazione, un soffio di vento ed il corpo cade. Così nel tuo bellissimo racconto Andrea rappresenta l’adolescenza, quell’adolescenza che corre veloce sospesa in equilibrio sopra un filo sottile e delicato, una parola, una frase, un gesto e l’equilibrio si spezza. Resta la domanda, ma cosa e chi è normale? Normale è trovare l’equilibrio o forse perderlo e cadere?