Premio Racconti nella Rete 2018 “Prima di mezzogiorno” di Donatella Renda
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018La testa. Mi fa male la testa. Cerco il dolore con le dita, non c’è spazio tra i capelli incrostati di fango e sangue. E’ tutto quello che sento, questo dolore. Tutto quello che sono, tutto quello che sono diventata. Sono io, dal collo in su. Oltre non sento niente, non c’è niente. Le vedo le mie braccia attaccate ad un tronco putrido e le mie gambe penzolare da questo legno duro sotto di me, ma non possono essere mie.
Lamya, la vedo. E’ rannicchiata nella melma del pavimento e guarda fuori attraverso quella fessura tra i due pezzi di legno della porta. Lei forse sente ancora qualcosa. Qualcosa oltre alla sua testa, voglio dire. Deve essere così, altrimenti non potrebbe stare là dove sta, a guardare fuori.
Ha le gambe distese, lunghe, sporche, buttate nel fango. E guarda fuori. Ha il vestito, ancora. La copre solo fino ai fianchi però, e poi niente, sotto non c’è niente, solo il fango che nasconde tutto il resto.
La mia testa, tra un po’ non sentirò più nemmeno quella.
Lamya sembra un topo. Come uno di quelli che passeggiano in mezzo a noi, non solo sui cadaveri voglio dire. Proprio su noi, che siamo ancora vive. Io non so se sono ancora viva, spero di no. Ma se sono morta allora questo è l’inferno.
Niente da fare, sono viva. Come Lamya seduta lì nell’angolo e come Hamida che non smette più di piangere. L’ultima volta che l’ho vista, Hamyda, era al mercato con sua madre. L’ultima volta prima di qua, intendo. Stavano comprando un vestito per la festa degli angeli e lei saltellava per la felicità. Doveva essere il primo vero abito della festa, uno di quelli che non puoi indossare prima di aver compiuto tredici o quattordici anni, ma per lei devono aver fatto una eccezione perché di anni non ne ha più di dieci. Almeno così mi pare. Anche i miei ricordi sono incastrati nel fango.
Non che mi siano mai piaciute le feste, non mi piace vedere un animale sgozzato. Che cosa ci può essere di bello nello sgozzare un animale? No, non mi piace il sangue che insozza tutto e tutti come qui, come adesso. E’ brutto vedere il sangue dove non dovrebbe esserci, come qui, come adesso. Come quello dei buoi scannati, come quello sulla schiena di Lamya, come quello che Hamida sta perdendo tra le gambe, come il mio che cola a goccia a goccia dai miei piedi. Ecco, li sento di nuovo i piedi, per un attimo. Sollevo la testa, li guardo e vedo tutto quello che c’è tra me e loro. Avevo ragione, questa non sono io. Io sono la mia testa, tutto il resto non c’è. Possono farne quello che vogliono, perché quella carne laggiù, fino ai miei piedi, certo non è la mia. Gli occhi, quelli sì che sono miei. Mi servono per vedere, per capire. E le orecchie, certo. Voglio ascoltare ancora la voce di mia madre che ride mentre papà le fa il solletico e quella di Bashir che canta stonato e nessuno ha il coraggio di dirglielo. Tutto il resto non lo voglio, non mi serve più, non è più mio.
Doveva sposarsi Bashir con Lamya, prima che lo ammazzassero davanti ai suoi occhi e ai miei. Prima che mio padre fosse fucilato davanti alla nostra casa, prima che mia madre fosse ammazzata pure lei perché a quarant’anni costava più di quanto valesse. Io no, invece. Io valgo. Certo non quanto Hamida quando è stata portata qui, perché adesso anche lei non la vuole quasi più nessuno.
«Stai zitta!»
Lamya si volta inferocita verso di me. Mi ringhia di stare zitta ma io non sto parlando.
«Stai zitta ho detto!»
Provo a stirare il collo su questo legno scheggiato e ammuffito. Non ce l’ha con me. E’ Hamida che continua a piangere, è lei che deve stare zitta. Glielo dice ancora e poi di nuovo. Guarda fuori da quel buco nella porta e le urla di stare zitta.
«Ci sono dei soldati, sono stranieri!»
La vedo mentre allunga le braccia sulla porta e mentre affonda le dita di una mano sui chiodi lì in alto. Si solleva tirandosi su da quei chiodi, in piedi sulle sue gambe lunghe, col vestito lercio che non le copre più niente.
«Non li vedo, non li vedo più. E’ colpa tua, dovevi stare zitta»
Hamida ha smesso di piangere. Ha gli occhi nel vuoto, guarda verso di me ma non mi sta vedendo. Non vede più niente, neanche il sangue che continua a scorrerle sulle cosce e sui polpacci fino alle caviglie. Bene. Ha capito finalmente. Ha capito che quello non è il suo sangue, che quello non è il suo corpo e che manca pochissimo. Tra poco sarà morta. Avrebbe dovuto capirlo prima però. Avrebbe dovuto capirlo quando le urlavo che quello che veniva consumato da tutti quegli uomini, uno dopo l’altro, uno dopo l’altro, non era il suo corpo e che presto non avrebbe più sentito nessun dolore. Allora forse avrebbe pianto di meno, ma non mi ha voluto ascoltare. Lamya invece sente ancora ogni cosa. Lei è così bella, ha persino gli occhi azzurri. Dice che li aveva la nonna materna che non era delle nostre parti. L’hanno comprata cara, proprio per quei suoi occhi così azzurri e ancora non si sono stancati di lei. Non è ancora mezzogiorno e sono già entrati in trenta in questo tugurio. Li ho contati tutti, ad uno ad uno, mentre le aprivano le gambe e smettevano di essere uomini. Mentre sceglievano chi torturare tra lei e Hamida. Strano, nessuno sceglie più me. Scelgono quasi tutti lei, perché sì, è vero, non ha dieci anni come l’altra ma ha pur sempre gli occhi azzurri e questo per loro ha una grande importanza.
Io di anni ne ho sedici, mi pare. Anzi no, ne sono certa. Mia madre mi ha preparato una torta magnifica proprio un mese fa e sono sicura che sopra ci fossero sedici candeline. Dice sempre che dovrei imparare a cucinare come lei, ma è impossibile, lei è troppo brava. Dice che di questo passo non troverò mai marito. Ma io non lo voglio trovare un marito. Prima devo finire di studiare, voglio diventare medico, andare via da Raqqa. Ma è meglio se non glielo dico, che non mi voglio sposare intendo, che poi ci rimane male.
Non sento più il dolore alla testa. Ho freddo invece. Non ho più i miei vestiti, non ho più nemmeno il mio scialle, quello che avevo quando mi hanno portata qui. Stupido scialle. Si è rotto subito, al primo tentativo. Si è aperto in due appeso a quella trave sopra di me. Non ha retto il mio peso, non ha stretto nemmeno un po’ il mio collo, è scivolato via lasciandomi cadere nel fango. Stupido scialle.
Ho freddo, sono immobile su questo pezzo di legno, sono di legno come questo tavolo e non ho più il mio scialle. Me lo hanno tolto, non hanno capito che non reggeva il mio peso, che era inutile, che non sarebbe servito a niente e me lo hanno tolto lo stesso. E’ stato quando sono venuti quegli uomini, quelli nuovi. E’ stato allora che hanno preso il mio scialle e tutto quello che poteva essere appeso ad una trave.
Ci hanno ispezionate per bene, tutte. I denti, gli occhi, ci hanno guardato per bene e poi hanno deciso. Non ci hanno comprate, infatti siamo qua. Hanno provato la merce però. Hanno pregato, si sono messi sopra di noi. Poi si sono lavati per bene e hanno pregato di nuovo. Però non ci hanno scelte, non andavamo bene, si vede.
Pregano sempre quando vengono qui. Come adesso. Sono entrati poco fa, in silenzio e stanno pregando. Sono in tre, qui davanti a me, ma non nel fango, un po’ più in là, più vicino ad Hamida. Bisbigliano con gli occhi chiusi e i palmi delle mani verso il cielo, poi si spogliano in silenzio, uno alla volta mentre gli altri continuano a pregare. Si stendono su Hamida, da qui non riesco a vedere, non riesco più a muovere la testa, ma so che lo fanno. Lei sparisce, è così piccola. Ho le sue urla conficcate nelle orecchie. Ecco, adesso non ho più voglia neanche di sentire, speriamo che smettano di funzionare presto le mie orecchie, come tutto il resto.
Quello ha finito, va di là, si ripulisce, si riveste e prega, ancora, mentre quell’altro è su Hamida. E di nuovo le urla e le preghiere e il silenzio, l’acqua e le urla, le preghiere, l’acqua e il silenzio.
Ho sentito le mie mani, per un’istante. Ho sentito le mie unghie conficcate nel legno e le mie dita indolenzite. E’ solo un attimo. Lamya è tornata a sedersi accanto alla porta ma più vicino alla catena che la tiene chiusa. Prova a tirarla per allargare lo spazio dallo stipite. Ci infila tutte e cinque le dita della mano sinistra e con l’altra fa forza. Si gira verso di me ma guarda Hamida.
«E’ morta, finalmente. Almeno la smetterà di urlare.»
Provo a guardare anch’io, riesco a muovere solo gli occhi. Hamida si è accasciata sulle gambe, con la pancia sulle cosce e le braccia aperte lontano dai fianchi. La testa sulle caviglie e la faccia in giù. Sembra una bambola di pezza, abbandonata. Finalmente ha smesso di piangere.
Lamya ha ancora le dita incastrate nella porta. Si è addormentata così.
«Chi c’è? C’è qualcuno?»
La voce è appena un sussurro. Ma la sento, è reale, viene da lì, da dietro la porta. Qualcuno dà dei colpetti sul legno.
«C’è nessuno?»
Io la sento, vorrei dirlo a Lamya. Apro la bocca, non esce un fiato. La voce continua a parlare, ha un accento strano ma è comprensibile. Continua a chiedere se c’è qualcuno. Si, maledizione, c’è qualcuno, ti prego Lamya svegliati, ti prego! Non riesco a gridare, non riesco a muovermi. Voglio sentirlo adesso il mio corpo, ti prego svegliati Lamya!
«Sì…»
Lamya riesce a farsi sentire.
«Sì, ci sono io.»
«Quante siete?»
Ecco, è americano. E’ un accento americano sono sicura.
«Ci sono solo io.»
No, che dice? Ci sono anche io, sono qua dietro di te, ci sono anche io! Non mi sente, non riesco a parlare, non mi sente.
«Liberiamo tutte. Poi attacchiamo.»
Ci sono altri capannoni come questo. Tanti altri con decine di donne e bambine, morte o vive. Tutte assieme si alternano nelle torture, mescolano il proprio sangue, le proprie urla, i propri orrori. Sì, liberateci, sì, vi prego.
«Bombardateci.»
Lei bisbiglia alla porta con la mano a conca, all’orecchio del soldato accovacciato dall’altra parte.
«Bombardateci. Noi non siamo più niente. Io non sono più niente. Non c’è niente da salvare qui. Bombardate tutto, ogni cosa. Bruciate queste belve e noi con loro.»
Dall’altra parte il silenzio. Nessun salvatore, nessun esercito, nessun padre, nessun fratello.
Lamya striscia verso di me, si appoggia al legno duro che è diventato il mio corpo seviziato. Io non sono più qui, non sento più niente, non vedo più niente. Solo lei che mi avvolge la testa col suo braccio sottile, solo la sua guancia sulla mia fronte, solo le sue lacrime sui miei occhi.
E poi più niente.
Terribile, fa venire i brividi. Quel “Bombardateci!” e’ una lama affilata. Un racconto che fa pensare, scritto molto bene.
È vero. È agghiacciante come la realtà che descrive. Grazie per il tuo commento.
Meraviglioso nella sua crudezza. Uno spaccato duro, vivido e purtroppo vero di una realtà lontana nello spazio con cui conviviamo però tutti i giorni. Mentre leggevo hai saputo provocare in me dolore vero, pietà assoluta e rabbia per queste donne violate nel corpo e nell’anima. Un pugno nello stomaco scritto con vera maestria.
Grazie Dany per il tuo commento. Il racconto è basato su un fatto vero di cronaca ma ovviamente con personaggi inventati. Ho voluto rielaborare la vicenda sotto forma di racconto cercando di lasciare intatto il dolore e in generale la durezza dei fatti. Grazie ancora per le tue parole.
Difficile commentare questo racconto, duro, durissimo. Meglio far finta di non averlo letto, sperando di dimenticare presto, di assolversi in qualche modo.
Difficile traslare il giudizio dai fatti,dalla storia alla tua capacità di scrivere e descrivere .
Difficile dirti brava, perchè sei brava anzi bravissima, con ancora neglio occhi le immagini del dolore e dell’ abisso nel quale ci hai gettati.
Complimenti Donatella ! Coraggioso scrivere così e non solo per una questione di denuncia, ma soprattutto per quello che devi mettere in gioco nel tuo animo.
Un racconto duro, affilato e bello come un diamante.
O un coltello.
“Mentre le aprivano le gambe e smettevano di essere uomini”.
L’essenza dello stupro in un verso che vedrei bene in una canzone del grande De André.
Ci ho pensato molto prima di proporre questo racconto tra i miei proprio per quell’abisso di cui parli tu Gianluca. L’abisso che le donne yazide hanno vissuto a Raqqa peima che la città fosse liberata. Da donna è stato devastante immaginare e scrivere basandosi su una notizia sentita distrattamente al telegiornale. Tu da uomo hai colto e sentito quello stesso dolore dimostrando una sensibilità inusuale che sarebbe bello che tutti, ma proprio tutti gli uomini possedessero. Grazie per le tue parole, grazie davvero per aver letto e commentato il mio racconto.
Grazie Patrizia per aver letto e commentato il mio racconto. La metafora del diamante è bellissima, hai colto l’essenza di questa storia difficile da scrivere e da leggere.
E’ proprio vero, il tuo racconto è difficile da commentare. Sicuramente è scritto benissimo e hai dimostrato di avere un’ ottima capacità di descrizione, ma non riesco a dire altro perchè l’argomento che tratti prende il sopravvento. L’orrore e la sofferenza che descrivi mi fanno pensare: ” meglio morta”.
Quando dici “smettevano di essere uomini” forse è riduttivo, perchè uomini non lo sono mai stati. Sei stata coraggiosa e…bravissima. Complimenti.
Davvero brava, Donatella, brava e coraggiosa, come già ri hanno scritto. Che altro aggiungere? Dolore vivo, fango, orrore. La preghiera che purifica, non dalla malvagità delle proprie azioni, ma dal rischio della contaminazione che viene dai corpi violati di quelle creature innocenti. L’uomo che smette di essere tale per trasformarsi in bestia. Fa male, fa male sapere che accade veramente, fa male leggerlo e al contempo vederlo e sentirlo attraverso le tue parole.
Grazie Pasqualina e grazie Ester per i vostri commenti. Non ho mai fatto leggere questo racconto a nessuno a differenza degli altri proprio per la crudezza dell’argomento. Questo “luogo” virtuale, invece, abitato da uomini e donne che scrivono come me per comunicare qualcosa mi sembrava il posto giusto e non mi sbagliavo. Grazie per le vostre parole.
Il tuo racconto arriva dritto come un pugno allo stomaco. Non è facile raccontare storie come questa, per l’orrore che accompagna il lettore, dall’inizio alla fine.
Dirti brava, è a mio parere, riduttivo.
Tu scuoti l’animo e induci a riflettere: sei una vera narrattrice, complimenti.
Grazie Mariangela. Lo scopo di questo racconto era esattamente quello che tu hai colto: far riflettere, scuotere l’animo di chi legge, cercare risposte a domande che forse di risposte non ne hanno. Che poi in fondo è quello che qui dentro tutti cerchiamo di fare, ognuno a proprio modo e con le proprie storie. Grazie per aver letto e commentato.
“Quando finisce?” ho pensato tutto il tempo.
Mi è sembrato infinito, come doveva essere, e nemmeno posso immaginare quanto lo sia stato per tutte loro. Non ho nemmeno un sostantivo per dire cos’è, ciò che hai raccontato.
E sciocca che sono, ho sperato, ma in cosa?
Ci ho messo un po’ per decidermi a leggere il tuo bellissimo racconto, lo ammetto.
Donatella, hai tutta la mia ammirazione, per quello che hai scritto e per come lo hai fatto, e ti ringrazio, anche per la nausea che mi è rimasta.
Come ho già scritto nel commento a Aldo Menghevoli a proposito di “Sangue nero”, sono convinta che alcune storie non vorremmo mai raccontarle ma poi alcune di loro si presentano davanti e noi non possiamo che “metterle in scena” con l’unico obbligo di raccontarle al meglio delle nostre possibilità. Il tuo racconto appartiene sicuramente a uno di questi casi, per quel che mi pare di capire dalle tue dirette parole a commento. Ti faccio un sacco di complimenti per una storia, quella delle violenze perpetrate dal califfato nei confronti delle donne yazide, di cui noi donne dovremmo parlare di più e sempre. Mi dispiace solo che tu abbia scelto di farle arrendere. La testa era ancora salva ed è la sola cosa che conta.
Grazie Marcella e grazie SImona per i vostri commenti. Questa storia nasce da una notizia ascoltata distrattamente alla tv, una frase afferrata mentre attraversavo il soggiorno pensando ad altro. Allora è nata l’urgenza di raccontare, o meglio di immaginare, tutto il dolore (non solo quello lontanissimo dalla nostra quotidinità) che ogni giorno ci viene servito a pranzo e a cena.
Profondo disagio nel leggere il racconto della mostruosità di quelle bestie. Durissimo. Brava.
Profondo disagio nel leggere il racconto della mostruosità di quelle bestie. Durissimo, cartavetrata sulla pelle. Bravissima.
Sei stata molto coraggiosa a scrivere una racconto su questo tema. Il mostro che sta nell’uomo è sempre in agguato e a molti non piace né ammetterlo né ricordarlo. La tua prosa è molto molto buona, la morte in arrivo è descritta benissimo. Ho provato disagio, angoscia, rabbia. Occorre essere coraggiosi perché le parole rendano giustizia alle vittime e tu lo sei stata.
Ti ringrazio Germana Urbani per aver letto e commento il mio racconto. Le storie difficili vanno raccontate per non dimenticare e perchè non si ripetano.Grazie per le tue parole.
Grazie Luca Bonacina per il tuo commento. Il disagio che hai provato tu nel leggere è lo stesso che ho provato io nello scrivere, dalla prima parola all’ultima. La cartavetrata sulla pelle, come la definisci tu, è la sensazione più vicina a quella che volevo si provasse nel leggere questa storia. Ti ringrazio per aver letto e commentato.
Complimenti a tutti i racconti vincitori! Alcuni li ho letti e meritavano davvero la vittoria a mio parere. Il mio era “impubblicabile”, ci voleva troppo coraggio. Bravissimi tutti gli autori selezionati!!
Scusa Donatella, non ce l’ho fatta a leggerlo. Sei sicura di volere questo?
Caro Pietro, quello che vorrei è che non fosse così difficile arrivare alla fine di una storia che racconta la verità sulle violenze sessuali durante i conflitti bellici. È più facile non leggere, è vero, ma sarebbe bene farlo e parlarne fino allo sfinimento. Soprattutto se sei un uomo.
Cara Donatella, non è il contenuto che mi ha fatto desistere. Tu racconti in prima persona e dovresti chiederti quanta credibilità ci sia nella storia. Se ti dico queste cose è per farti conoscere il punto di vista del lettore e per farti riflettere. Lascia perdere se sono un uomo, piuttosto leggi il mio racconto e commentalo. Ci tengo. P
Donatella,
mi sembra che il tuo racconto abbia offerto a tutti un’ottima occasione di dialogo su un tema scomodo e scuro; per come la vedo io, si tratta del primo obiettivo che ogni scrittore dovrebbe porsi: smuovere le anime abbastanza da suscitare suggestioni, sensazioni ed emozioni, belle o brutte che siano.
Hai irrorato di luce il lato oscuro della libera manifestazione del pensiero, offrendoci una prosa così elegante da sembrare eterea e benevola come nebbia al primo mattino; un compito mostruosamente difficile che hai condotto in porto con grande maestria, senza scadere nel già visto e nello scontato.
Non so perché, ma il modo di scrivere e le ambientazioni mi hanno ricordato un po’ Khorakhanè di De Andrè e ti assicuro che, per come la vedo io, non potrei farti miglior complimento.
Bravissima.
In risoposta a Pietro Garuccio.
La storia è basata su un fatto di cronaca vero, passato tra una notizia e l’altra di un telegiornale nazionale antecedente alla liberazione di Raqqa. L’ultima frase pronunciata da una delle ragazze è stata riportata da un cronista di guerra in uno dei suoi reportage. Io sono diventata quella ragazza e ho provato a immaginare, come donna, l’orrore da lei vissuto. Ritengo quindi la storia non solo credibile ma veritiera. Ti ringrazio per avermi dato lo spunto per spiegare attraverso il tuo punto di vista. Leggerò con piacere il tuo racconto.
In risposta a Lorenzo Garzarelli.
Ti ringrazio per le tue parole che rappresentano esattamente il mio pensiero sull’essere uno scrittore. Ti ringrazio soprattutto perchè hai colto e fatto tuo il lato oscuro – come lo definisci tu – di cui volevo si parlasse. Grazie perchè lo hai colto da uomo e la cosa non è così scontata. Grazie.