Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Il pozzo” di Roxana Sagrera

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Cammino tra le piante di caffé che ancora sono senza frutto, fermandomi solo a staccare le parti dei vestiti che si agganciano ai rami.  Le grosse foglie di banano  sopra la mia testa fanno si che la piantagione di caffé mantenga una temperatura stabile.  La terra rilascia l’ umidità della pioggia torrenziale che è venuta giù la sera scorsa, creando un tipo di vapore invisibile, la cui presenza pesa, ti fa rallentare il passo.  Le mani mi tremano un po’. Sono cosi scure. Preferisco non guardarle. A casa mi prendono in giro per questo. Mi giro per vedere dove è Atilio.  Lui si è appena levato i suoi vecchi sandali (quelli che portano solo gli indios).  Io invece fatico ad andare avanti con i miei stivaletti.  La suola di cuoio duro e liscia fa si che io scivoli ogni tanto sulla terra bagnata. Sono nuovi.  L’unico modo di sopportare di portarli è di riempirli con la carta di giornale bagnata e lasciarli stare cosi tutta la notte.  Questo va ripetuto diverse volte finché non diventano più molli, più flessibili.  Atilio non aveva questi problemi.  Ne quelli di dove mettere i calzini una volta levatoli.  Nel frattempo, mi sono levato tutto anche io.

-Ati, che fine hai fatto?  Dai che ancora ci manca tanto.

-Eccomi qui. Quanto manca? Sai che ci puniranno se lo vengono a sapere. Quante volte ci hanno detto di non superare la recinzione? Ed è già tanto che l’ abbiamo superata.  Giriamo e torniamo indietro prima che sia troppo tardi.

-Devo vedere che c’è, ti ho detto.

-E che ci dovrebbe essere?  Che pensi che ci sia?

-E tu che ne sai, se non ci sei mai stato? E mentre gli rispondevo, sentii che la rabbia mi saliva sul corpo.  Il ronzio delle mosche si mescolava al cicalio delle cicale che cantavano disperate, senza sosta.  Sentivo che il fazzoletto intorno al collo era zuppo.  Lo stesso valeva per i capelli.  Il caldo mi fa venire un po’ di nausea, offusca ogni mio pensiero. Ti svuota dentro.  Pensavo soltanto a dove avrei dovuto mettere i piedi scalzi. E anche se non mi sto sentendo bene, cerco di camminare più velocemente.   .

-Guarda che non si distinguono più i tetti delle case, se non ci vedono per l’ ora di pranzo, sono io che becco le botte. Mi hanno detto prima di uscire dalla cucina che non dovevamo allontanarci.

-Non manca molto.

Il sentiero si fa più largo.  Si vede una tetto di paglia di una piccola capanna.  Un cane incomincia ad abbaiare appena sente la nostra presenza e una bambina ci viene incontro.  E’ più piccola di noi.  Ha gli occhi leggermente a mandorla, i suoi piedi mi sembrano sproporzionatamente larghi e sporchi e il tutto stona col suo corpo minuto. Ha in braccio un bambino piccolo completamente nudo che una bella pancia gonfia e che non la smette di piangere.  Il bimbo ha i capelli ricci e gli occhi del colore del miele chiaro. Stremata dal peso che porta, ogni tanto lo appoggia  su un catino di zinco che si è riscaldato sotto il sole e fa si che il sedere del bimbo sia molto rosso.   La bambina mastica un pezzetto di erba e ci guarda come se volesse venire insieme a noi, ma sa bene che non può.  Atilio le passa accanto senza smettere di battere gli arbusti che ci stano intorno con un piccolo ramo che porta in mano.

Un po’ mi gira la testa.

-Dai Ati, sbrigati.

Il burrone che ho in mente si trova prima della terra dei ………….  Giusto prima di esso,  c’é il pozzo della finca.  Un vecchio pozzo abbandonato che prima serviva per raccogliere le acque piovane con cui prima si lavava l’indaco. Il cuore mi batte forte, le mani mi sudano.  Il terreno inizia a cambiare, è più irregolare.  Il sentiero su cui ci troviamo finisce in un campo abbandonato, dove si vedono dei vecchi tronchi d’alberi che sono stati tagliati chissà quando.  In mezzo ad essi, si vede qualche giovane albero di mango o di jocote.  A sinistra invece, intravedo il parapetto di pietra vulcanica della cisterna gigante.  Mi avvicino ad esso.  Ma è troppo alta per guardarci dentro.

-Ati, cerca di far rotolare un grosso sasso fino a qui.

-Ma Emilio, non c’è tempo.  Guarda che ci staranno già cercando.  Sai la paura che avranno se non ci trovano?

-Veloce! Prima fai, prima ce ne andiamo da qui. Devo solo vedere che c’è dentro.

-E che ci devi vedere là dentro? Sarà  pieno di piante e rane. Cos’ altro?

Appena salgo sul muro ho la sensazione che io stia per entrare in un altro mondo.  Dalla cisterna si solleva una aria umidiccia che mi raggiunge la faccia. E’ una sensazione gradevole.  Ci sono delle piante arrampicatrici che coprono il parapetto.  Molto sotto, in profondità invece, distinguo l’acqua scura.  Sembra una grossa tovaglia nero azzurra con sopra delle foglie secche, piante acquatiche e chi sa cosa altro che non riesco a distinguere.

-Sali anche tu, Ati

-Ho paura, Emilio. Tu non vieni quasi mai punito.  E guarda che la nuova ragazza che lavora in cucina perde la pazienza facilmente.

Mi sento invaso dalla rabbia. Mi sale verso la gola attraversandomi la pancia.  E’ la stessa sensazione che sento quando mi sveglio e vedo che fuori piove e so che non mi faranno uscire. Quella frustrazione al fatto che non potrò allontanarmi.

Intanto caccio fuori la corda che ho preso dalla stalla.

-Legalo ad uno di quei tronchi. Cercane uno.

Sento ad Atilio muoversi intorno al parapetto.  Io non levo lo sguardo dal acqua.  Un lieve odore di piante, si alza dal basso.  E tutto cosi tranquillo qui.

Ati torna.

-Non ci sono tronchi così vicini, ho trovato solo un sasso che spero reggerà.

-Sali allora, dico dandogli la mano.

Ati è più leggero di me, più  agile, più abituato all’ attività fisica. Questo mi ha sempre causato un po’ di invidia.  Mi lego la corda intorno alla vita e gli dico di prendere l’altra estremità.  Inizio a scendere lentamente. Cerco di appoggiare i piedi nelle pietre all’interno del pozzo mentre con le mani mi acchiappo alle arrampicatrici del parapetto.  L’interno è patinato di un vellutino verde scuro che rilascia un odore di fresco.  Mi faccio forza ed inizio a scendere. Voglio solo mettere una mano dentro l’acqua.  In quel momento, sono felice. Ma tutto cambia poco dopo quando mi  accorgo che sono ad un punto in cui non c’è modo di continuare a scendere.  Non trovo un punto di appoggio in nessuna direzione. Inizio a scivolare.   Dico ad Ati di darmi un po’ più di corda, di darmi una mano a scendere, ma lui e’ più piccolo di me, più mingherlino. Faccio di tutto, ma niente.  La rabbia mi invade.

Inizio a scervellarmi per cercare una soluzione, sapendo bene che non ce ne sono.  E’ un impasse.  Mi rifiuto di credere che non ci sia una risposta.

-Non ce la faccio.  Non posso farcela cosi.  Risalgo, gli dico a Ati.

Lentamente inizio a risalire, a malincuore mi lascio dietro quella oscurità umidiccia che mi conforta. Di sopra, mi raggiunge subito la luminosità accecante e il caldo insopportabile del sole. Quando finalmente raggiungo il parapetto, Ati mi prende per un braccio e mi dà una mano a risalire.

-Ati, provaci te, sei più piccolo.  Tu si che ce la faresti a raggiungere l’acqua.

Vi risparmio i dettagli nel cercare di convincerlo, alla fine sono io che comando.

Lui si mette al posto mio, le lego la corda intorno al petto e vedo come inizia a calarsi dentro.  Ma la corda ruvida  mi sbuccia le dita.  Mi fa male.  Mancano soltanto pochi metri. Il cuore mi batte all’impazzata.  Non so come ma in un attimo, Ati finisce dentro. Ho sentito il tonfo. Mi chino per vedere.  Le piante che ricoprono la superficie si sono mosse a malapena.  Le vedo che tornano subito a galleggiare tranquillamente sopra la superficie come se non fosse successo niente.    Non riesco a parlare ne a chiamarlo. Mi immagino che tra poco lo rivedrò che risale in superficie tossendo ed invece i secondi si allargano.  Mi sembra che si sia fermato il tempo.

Sono passati tanti anni da allora. Adesso vivo in Europa e  l’America Latina con tutto i suoi ricordi, quelli della mia infanzia, mi sembra parte di un altro universo.

Cammino ancora spesso in natura qui. Mi piace farlo in pieno inverno, quando il vento freddo mi costringe a guardare in basso.  I sentieri hanno tutte le sfumature del marrone, tra le foglie cadute e la terra bagnata. C’è tanto spazio tra gli alberi di faggio e le querce.  Sono rimasti senza foglie, allargando dei lunghissime rami che sembrano che aspettino pazientemente. In questa terra, tutto mantiene una distanza come se fosse arrivata una direttiva del tempo, prima dei tempi che e’ ancora in vigenza.

La sua mente registrava tutto mentre camminava tra gli alberi quasi come in sogno, quelli in cui si accetta di trovarsi in un posto completamente alieno a te, ma che allo stesso tempo ti appartiene. E tra il grigio del cielo e ed il marrone della terra risaltava quel corpo estraneo, che era il suo,  che trasudava calore nel mezzo delle temperature sotto zero.  Era ben consapevole che questa fosse una terra con altri dei, dove non c’era posto per quelli che aveva conosciuto.  Quetzalcoatl qui, non era nessuno.  Lo stesso suono era troppo diverso per poter essere pronunciato da queste parti. Aveva, a suo malgrado, imparato che c’era una gerarchia persino dei suoni.  Una vasta piramide la cui struttura era consacrata.  E pure cosi, era in questo continente che aveva imparato a raschiare gli angoli degli spazi che componevano la sua coscienza per vedere cosa ci fosse li, fin dove si poteva scrutare.  La solitudine glielo aveva permesso.  La solitudine dello spirito era una religione qui. Questo aveva imparato. E’ anche se aveva la possibilità di andare via, eccolo qui, anni dopo, a girovagare in libertà e in solitudine.

Qualcuno ancora mi domanda ogni tanto, sentendo la mia pronuncia, del mio paese di provenienza.

-E’ bello? Fa caldo? Ti piace la salsa?

Dico di si, anche se non è così.  Troppo complicato spiegare che gli schiavi africani non sono arrivati dalle mie parti, che quei suoni di rabbia e di voglia di libertà non mi appartengono.

Non mi chiedo mai cosa sarebbe diventato Atilio negli anni o se la guerra civile che poi ha devastato la mia terra l’ho avrebbe risparmiato.  Ma mi tengo stretto il ricordo di quel bambino nel centro del mio centro.  Questo insieme al mio segreto,  e tutti e tre camminiamo insieme.

E quando mia moglie mi trova che guardo fuori dalla finestra e mi chiede se sto bene, le rispondo

-Si, si, sto bene.

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6 commenti »

  1. Se è una condivisione, grazie. Il racconto e’ toccante e sembra davvero reale. Ho percepito la tensione, la paura, perfino l’umidità. A volte ci sono mondi sommersi dentro a sguardi apparentemente distanti. Spero sia frutto di fantasia. Se non lo fosse, ti mando un forte abbraccio.

  2. Complimenti Roxana. Un potente racconto che descrive molto bene sia l’infanzia impaziente che la maturita’ con un peso da portare. Ha il passo di quella scrittura dell’America Latina sempre legata alla natura come forza superiore che influenza, circonda e prende.

  3. Molto coinvolgente e profondo questo racconto. Una riflessione in forma di paesaggio che avvolge il lettore. Segnalo solo che ci sono alcuni refusi che si potrebbero correggere.

  4. Cara LauraBi, grazie infinite per avere letto il mio racconto e per il bellissimo commento lasciatomi. La storia è finzione, ma il pozzo c’era. Era nella “finca” della mia bisnonna nel Nicaragua. Ne ero affascinata, (avrò avuto 5 anni all’epoca), mio padre lo ha notato e mi detto di starne lontano perché il figlio del giardiniere era affogato proprio lì. Non so se fosse vero o no, so però che mi ha traumatizzato vita natural durante. Cari saluti, Roxana

  5. Cara Ivana, grazie per avere letto il mio racconto. Lo apprezzo di cuore. Grazie pure per il prezioso consiglio.

  6. Caro Marco! Il commento mi ha molto, ma molto, colpito. Grazie infinite per le sue parole!

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