Premio Racconti nella Rete 2018 “La Fortuna bacia i ciechi” di Mario Trapletti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Omero era cieco. Nessun ufficio anagrafe certificò mai la sua nascita, al pari della morte; però sappiamo che se è esistito fu cieco. Come Borges e Sartre, che al contrario sono ben noti alle anagrafi dei rispettivi paesi di nascita. Entrambi furono scrittori di un certo talento e di una certa fama, tali che persino un Moccia e un Volo potrebbero aver sentito i loro nomi.
A Beethoven dopo una certa età accadde di divenire sordo, pur essendo musicista. L’arte non ammette logica.
Il signor M, giunto a quell’età in cui anche i sogni cominciano ad addormentarsi e le fantasie, per metterle a fuoco, devi allontanarle parecchio, si trovò un giorno a rosolarsi le considerazioni di cui sopra. Non era tipo da riflessioni troppo profonde: non sapeva nemmeno nuotare, figuriamoci se poteva desiderare di tuffarsi dove non si vedeva nemmeno il fondo. Eppure qualcosa scattò, e allora…
Proiettò la propria biografia sul muro della memoria.
Senza che fosse tanto una metafora, era nato con gli occhiali; non che volesse indossare i panni della vittima, però niente a che spartire con chi nasce con la camicia. Manco a dirlo, non era afflitto nemmeno da un filo di strabismo di Venere: banale miopia elevata associata a patologie non ancora manifeste ma già codificate nei suoi geni (i quali rimasero sempre l’unico suo aggancio con la genialità). Erano quelli anni in cui gli occhiali ti marchiavano: contavi su una mano i bambini che li portavano, un po’ come oggi quelli che girano senza smartphone in mano. Le sue lenti assursero in breve al rispettabile rango di fondi di bottiglia, incastonate su montature derivate dai telescopi astronomici. Fu per questo che nessuno ebbe mai a vedere i suoi splendidi occhioni; nessuno tranne il suo oculista storico. Maschio banalmente tradizionale, costui non se ne lasciò mai influenzare né ebbe mai a magnificarli né in pubblico né in privato. Sul fronte delle conquiste amorose (spostando un attimo in avanti le lancette del tempo) fu questo un handicap non da poco, visto che non poteva vantare altre armi di seduzione visibili.
Già, handicap: forse nelle parole crociate la trovavi già, quella strana parola, ma in giro non ne sentivi parlare proprio. Lui, il signor M, era semplicemente ‘due lenti e due stanghette’ o ‘quattrocchi’ oppure ‘ögialina’. ‘Orbo’, per i più raffinati. Questo approccio linguistico si applicava anche ad altre categorie non rientranti nella sfera della normalità: i poliomielitici li chiamavano ‘sopetì’, mentre quelli con problemi psichici erano genericamente mongoloidi o scemi. Si favoleggiava anche di misteriosi ragazzi afflosciati su carrozzelle o con testoni enormi pieni d’acqua, ma nessuno li aveva mai visti: erano tragedie da non esibire, da seppellire in casa o in qualche pio istituto religioso. La comunità civile non se ne faceva carico, bastavano già i mutilati e invalidi, compresi quelli di guerra. Problemi delle famiglie.
Per fortuna il nostro signor M se la cavava benissimo con i suoi telescopi da passeggio, se pur con qualche limite. Le attività troppo maschili, tipo fare a botte e a sassate (molto in voga all’epoca), gli erano precluse: gli occhiali, pur solidi e pesanti com’erano, sembravano soggetti a un’attrazione fatale verso pietre, bastoni e altri oggetti più consistenti di loro. Le lenti, soprattutto, che sempre all’epoca costituivano la componente più costosa dell’insieme. La sua famiglia era di quelle che puntavano al pareggio di bilancio sia in casa che fuori, il budget per i suoi occhiali era più rigido del bilancio federale elvetico. Le assicurazioni private in quei tempi erano un lusso per ricchi, quasi come i suoi binocoli: il papà due lussi non se li poteva permettere.
Il dover rifuggire dalle pratiche prettamente virili, compreso il gioco del calcio (eh già, pure il coriaceo pallone in cuoio bramava i suoi occhiali), sviluppò in lui un carattere poco incline alla sana, maschia competizione. Agonismo, antagonismo, protagonismo: tre sostantivi assenti dal suo personale dizionario. Un ulteriore grave handicap in un mondo dove, se non tieni gli occhi ben aperti, chiunque ti pesta i piedi e non ti chiede nemmeno scusa, salvo che tu lo sfondi di botte.
Forse non fu un vero e proprio perdente, però crebbe con le certe stimmate del mediocre, incapace di guardare più in là del suo naso. Per altro nemmeno lungo quanto quello di un Cyrano.
Pare quasi un miracolo che non ne venissero minate anche le sane, naturali (sempre per quell’epoca) inclinazioni sessuali: se ne venne su con una scarsa carica erotica, ma serenamente eterosessuale (orbo e culattone sarebbe stato troppo per un giovinetto cresciuto nell’humus della futura Lega Nord). Le donne (senza caricare troppo sul plurale) parevano non gradire la sua abitudine a tenersi l’artiglieria ottica fino all’ultimo istante (essendo questo un testo destinato anche alle famiglie non posso certo scendere in particolari).
Quasi una nemesi al contrario, furono proprio gli occhi a dimostrarsi la sua arma vincente con la controparte femminile. Di norma celati anch’essi come le altre virtù in suo possesso, un giorno, superata da un paio di decenni l’adolescenza, vennero finalmente alla ribalta. Dovette, per qualche strano caso della vita o sotto i colpi della curiosità femminile, togliersi gli occhiali mentre si trovava in compagnia di alcune gentili donzelle. Fu come un’apparizione della Madonna, quasi la rivelazione del terzo segreto di Fatima:
“Ehi, M, dove le hai tenute nascoste queste micidiali lanterne verdemare?! Sono la tua arma segreta, eh?”
Così segreta, argomentò dentro di sé, che ne aveva sempre ignorato l’esistenza: se si guardava allo specchio inforcando le lenti vedeva i suoi occhi minuscoli come li vedevano gli altri; se si contemplava a occhio nudo, la nebbia stemperava colori, forme e dimensioni.
Fu una bella rivincita, dai, che proprio l’origine dei suoi guai terreni si rivelasse un grimaldello scardinacuori (ricordarsi che il plurale si applica a qualsiasi quantità superiore a uno).
Restando in tema, un giorno che anche il cielo era sgombro di pensieri ponderosi, si trovò a così riflettere: “Se entrerò nel ‘Guinness dei primati’ non sarà certo per il record di cuori infranti. Però mi porterò nella tomba un rovello che toglierà il sonno anche ai vermi addetti al mio smaltimento: quante, santodio! quante donne non avrò avuto per non aver visto i loro cenni d’intesa, le loro moine, i loro sguardi innamorati? Quante mi avranno divorato con gli occhi, senza che io nemmeno vedessi i brandelli della mia carne intrappolati nelle loro ciglia e sopracciglia?”
Hai voglia a dire che oggi l’handicap è sotto controllo, non è più un problema, ci sono gli ausili tecnologici! Che fai, ti porti agli occhi un costosissimo monocolo della Eschenbach e scruti i visi delle donne, le loro mani, nel raggio di cinquanta metri? Vaglielo a spiegare, a loro e alla Polizia, che non sei un maniaco, ma un maschio normale che con la tecnologia cerca solo di portarsi al pari con i suoi rivali. Un poliomielitico, uno che sta sulla sedia a rotelle non possono correre dietro alle donne, ma le vedono, possono farsi cenni a vicenda, incrociare sguardi; lui può tentare di attirare la montagna a Maometto.
Durava poco, però, l’invidia: “Mica ci faremo la guerra fra poveri, il campionato della sfiga? Meglio una bella società di mutuo soccorso: tu mi tieni d’occhio la preda, la punti, me la segnali – e io la vado a prendere, te la porto. Poi si vede.”
Appunto.
La Storia invece dispose diversamente: M e l’amico fecero ognuno per sé, senza bisogno di ausili tecnologici o umani. Perché se l’amore trionfa sempre sull’invidia e sull’odio, alla fine lo fa anche sull’handicap. (“Mica male questa frase: – pensò mister M – potrebbe essere lo slogan di un’agenzia per cuori solitari che hanno sano solo il cuore.”)
La vita non è fatta unicamente di sentimenti, di ricerca della felicità, propria e altrui. Ci sono anche le banali incombenze quotidiane: il lavoro, gli spostamenti, la manutenzione della persona e delle cose, il tempo libero. Finché era stato ragazzo o poco più (fase protrattasi per un tempo indefinibile), il signor M non aveva dato peso più di tanto ai fastidiosi risvolti della sua menomazione. Un fiume, quando nasce in montagna, è torrente impetuoso, se ne frega degli ostacoli che incontra sulla sua strada, macigni, tronchi e tutto il resto. Travolge, sovrasta, scansa allegro e via. Giunto in pianura, si spaparanza, si fa placido Don: non ama incontrare ostacoli e se ne incontra si innervosisce, si imbizzarrisce. Guardatelo come vortica intorno ai piloni di un ponte, come schiumeggia contro un isolotto. Lui, il nostro eroe, questa similitudine non l’ebbe mai a pensare; ma a noi, suo burattinaio, piacque fargliene dono. È bene avere un occhio di riguardo per un ipovedente.
Limitazioni e menomazioni, si diceva, con gli anni assumono un peso sempre crescente, perché la patologia si sviluppa armonicamente con il tuo decadimento fisico. Dovette, il serafico signor M, darsi da fare, correre ai ripari, cercare supporti. Accettare l’handicap era giocoforza (prova a cacciarlo di casa); farsene schiacciare gli sembrava un po’ meno doveroso. Incappò nell’adagio “L’unione fa la forza”; si lasciò sedurre dalle sirene dell’associazionismo. Prese la tessera della Grande Unione, che lo accolse nel suo caldo, pantagruelico seno. Bella esperienza: scoprì che ci sono ciechi che ci vedono benissimo, almeno quanto i politici normovedenti. Anche lì allignavano carriere, giochi di potere, serbatoi di voti, collateralismo. Eppure, nonostante questa potenza di fuoco e un ampio bacino di voti, in Parlamento ci vanno solo i normodotati. Ma lo capiva bene, il signor M: come poteva un parlamentare cieco o ipovedente captare i messaggi non verbali dell’elettorato?
“E in definitiva, ma che vogliamo? – sibilava ai suoi correligionari – Pensate che passi avanti abbiamo fatto dalla rupe Tarpea a oggi!”
Lo fissavano con sguardi più assenti del solito, come un evidenziatore che sottolineava l’assenza di comprensione.
“Avete ragione anche voi, a non conoscerla: – pensava – noi ci buttavano dalla rupe Talpea”.
E venne il giorno che decise: avrebbe fatto lo scrittore! Povero signor M, cadde subito in depressione: lui era solo ipovedente e se non sei almeno cieco non vai da nessuna parte.
“I soliti raccomandati” pensò scagliando dalla finestra la pen-drive che conteneva i suoi primi tentativi di scrittura.
Complimenti Mario, descrivi con leggerezza tutte le difficoltà di chi è costretto ad affrontare la vita in salita fino dai primi momenti. E’ una prosa che si legge molto bene.
Grazie!
Parrebbe ne sapessi qualcosa…