Premio Racconti nella Rete 2018 “Ritorno a casa” di Giada Tommei
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018La macchina faceva il solito strano rumore allo sterzo. Una specie di crack quando prendeva le curve troppo strette che le faceva pensare: “Ci siamo, adesso si rompe qualcosa e mi schianto in qualche muro”. Scendendo dall’auto, camminando a passo svelto verso il grande portone di casa, Fedora sentì dentro lo stesso insolito mix: da un lato la fretta di entrare nel rassicurante atrio del palazzo, dall’altro l’irrefrenabile voglia di camminare lenta gustandosi l’aria fredda delle tre di notte respirando il silenzio ovattato di un marmoreo, spaventoso ed accogliente centro storico. Poteva scegliere una via di mezzo, ma non lo fece: non lo faceva mai, nella vita. I suoi gesti erano sempre netti, impulsivi e radicali: virate decise a destra o a sinistra che producevano nel suo cervello lo stesso identico crack dello sterzo della macchina. L’umidità della notte aveva creato una leggera guazza sui sampietrini : per fortuna che non portava mai i tacchi, dato che i giudizi ricevuti da piccola per il suo metro e ottanta di altezza le erano bastati. Aprì la porta con un po’ di fatica, guardandola con ammirazione ed intensa devozione: era così bella, con il suo legno antico e la maniglia di ferro battuto. Era come l’ingresso ad un mondo sicuro: un universo caldo che la vita le aveva donato e che con tanta fatica si sforzava di mantenere. Si avviò verso il lavabo e riempì un pentolino di acqua corrente: poi lo mise sui fornelli e accese il fuoco. Era un rito che aveva inconsapevolmente preso da sua madre: scaldava dell’acqua e la usava per riempire l’apposita borsa. Poi la metteva sotto il piumone e andava a prepararsi per la notte. Grazie a questo espediente, non solo le coperte erano già calde ma poteva godere per tutta la notte di un dolce e rincuorante tepore. Molto spesso , in realtà, il rito si presentava anche quando non era poi così freddo: chissà, forse era così che riusciva a sentire sua madre vicina. “Non voglio nemmeno pensarla!”, si ripeteva sbuffando. Eppure, la sua mancanza era così forte che di frequente si ritrovava a compiere gesti che erano un palese calco delle sue abitudini: il modo in cui passava il cencio sul pavimento, la modalità con cui teneva le gambe sul divano, il fastidioso suono dello starnuto. A volte, quando guidava, le sue mani le sembravano davvero quelle di sua madre: mani vive e vegete si, perché sua madre non era morta e nemmeno ne voleva sapere di morire per finta, dentro Fedora, nonostante gli screzi. “Non abbiamo più niente da condividere, io e te”. Mentre squarci di frasi le scoppiettavano tra una vena e l’altra strozzandole di tanto in tanto lo stomaco, si tolse velocemente il trucco passando dell’acqua sul viso con una casuale quantità di sapone: il risultato di tanta svogliatezza era una pastosa linea sull’occhio destro che, non sparendo mai completamente, finiva puntualmente per macchiare il cuscino. Le orecchie ancora le fischiavano dalla musica di quella sera: troppo alta, troppo techno, troppo tutto. Fedora non amava la bolgia, così come non amava uscire spesso: non era mai stata la regina della festa, ne a 16 ne a 30 anni. Di locali ne amava davvero pochi ed erano per di più luoghi molto tranquilli dove il sound circostante permetteva una qualche conversazione: tutti gli altri, erano vere e proprie fonti di ansia. Luoghi dove l’unica cosa da fare, per evitare di riconoscersi passando davanti gli specchi, è bere un poco. Quella sera, in uno degli sporadici tentativi di sentirsi “normale”, era andata in discoteca. La sua amica si dimenava sotto cassa, muovendo le anche ora verso questo ora verso questa: Fedora aveva deciso di entrare nella mischia e provare a scatenarsi. Eppure, dopo poco tempo qualcosa l’aveva puntualmente frenata; come una giraffa invitata al ballo degli Elfi, si fermò improvvisamente in mezzo alla pista. Intorno a lei, gente scalciava e si dimenava: ridevano, ballavano, cantavano e si stringevano. Sembravano tutti così smaccatamente felici: era decisamente troppo per lei. “Vado in fila per la toilette!”, esclamò. L’amica le mostrò il pollice ed ecco che la festa, da quel momento in poi, fu costituita dal semplice count down delle mezzore che la separavano dalla fila verso l’uscita. In bagno, sospesa sopra il water reggendo con una mano la borsa con l’altra se stessa al muro, Fedora si soffermò a leggere le scritte sulle pareti scrostate: “Mauro, torna da me”, “Chiamami per notti indimenticabili” , “Scusa sono uno stronzo”. Quale disperazione aveva spinto un qualche sconosciuto a scrivere quelle parole così apparentemente insignificanti, sul muro di uno squallido locale di città con le mani ancora umide di urina? Forse anche quel qualcuno, muto come lei dentro quel cesso, si sentiva sbagliato: quella parete , alla fine, andava solo ringraziata. Anche Fedora , nella sua casa, scriveva casualmente frasi su di una lavagnetta appesa in cucina: l’ultima che aveva scritto era “Viviti”. Era il solito senso di incomprensibile dualità: da un lato la voglia di sigillare parole dentro una busta ed inviarle ad un certo indirizzo, dall’altro la voglia di ricevere quelle stesse parole in quella stessa busta da quello stesso indirizzo. La soluzione, come sempre, sarebbe stata la famosa via di mezzo: tipo scambiarsi le buste insieme e nello stesso tempo, come quando in una battaglia si abbassano le armi contemporaneamente. Prima di coricarsi, una calda doccia fu d’obbligo per lavar via i fiati degli altri e gli eventuali schizzi di saliva volati nell’aria. Poi crema profumata e pigiama di pile: Fedora non era credente, ma certo se ci fosse stato un santo protettore dei pigiami lo avrebbe pregato e avrebbe dato regolari offerte. I capelli le puzzavano ancora di fumo. La sala fumatori della discoteca era ancora più gremita del locale stesso. Quando vi era all’interno, Fedora restava semplicemente a guardare: era anche lei una fumatrice, ma il senso della sigaretta era per lei libertà dunque preferiva aspettare il momento dell’uscita. In quel momento, la Marlboro era come un premio per le fatiche appena impiegate: il primo anelito di fumo che entrava nella sua gola era l’inizio della strada di ritorno, verso la vera se stessa. Guardandosi allo specchio, non si piacque: si sentiva profondamente sbagliata, diversa. Ai margini della pista, dentro il locale, si era sentita un’aliena: perché non riusciva anche lei a lasciarsi andare? Eppure, non era affatto vero che non sapeva divertirsi. La risposta, infatti, era semplice: accettarsi per ciò che era. Fedora, d’altronde, era così: magari alle feste era rigida come un frustino di pelle e poi magari accompagnando un amico a far spesa, trangugiava due Spritz di fila alle 5 del pomeriggio finendo per ridere come una matta fino a sera nel parcheggio del centro commerciale. Era per questo che, i pochi che imparavano ad amarla, poi l’amavano per sempre. Una volta a letto, iniziò lentamente a rilassarsi ascoltando la sua buona musica e rimproverandosi allo stesso tempo di essere la solita guastafeste. “Perché non creare un locale apposito per quelli che si sorridono in pista mentre gli altri si sballano?”, pensò scarabocchiando frasi nel suo quaderno. “Si, quelli che si sentono in profondo disagio e allora fiutano i propri simili lanciandosi occhiate di solidarietà semza però avere il coraggio di ammettere che di quell’entusiasmo lì, non ne hanno proprio voglia”. Alzando le coperte, improvvisamente, si accorse che mancava qualcosa: la borsa dell’acqua calda! L’acqua era ormai quasi totalmente evaporata col risultato che non era più sufficiente a riempire la borsa. Ecco cosa accade quando perdi tempo dietro a folli domande sul perché non riesci ad essere diversa da come sei: dimentichi ciò che davvero ti rende felice fino a che per essere felice, diventa ormai troppo tardi. Notevolmente intristita, Fedora spense la luce. Sparso sotto le coperte, un calzino solitario che sua sorella, la notte prima, aveva perso mentre dormivano insieme: un senso di tenerezza le trapassò le braccia e le diede benessere. Poi, improvvisamente, il telefono produsse un beep: “Sono felice che tu sia a casa. A domani”. Fedora pensò a quante persone avrebbero voluto che quel domani non esistesse: poi pensò a quanto era bello avere sempre qualcuno che si preoccupasse di ritrovarti viva all’alba e sentì il suo cuore scaldarsi. Ecco cosa accade quando dimentichi ciò che per te è importante , ma sei così fortunata da avere qualcuno pronto a ricordartelo. E Buonanotte anche a te, mamma.
Non solo un ritorno a casa, ma anche un ritorno a se stessi. Fedora si ritrova alla fine, nella sua casa, nella sua vita, nei suoi affetti. Basta questo per essere felici. Bel racconto, Giada.
Bellissimo diario intimo. Ci piace molto questa Fedora, capace di guardarsi dentro, con autocritica, senza paure e riscoprire le cose vere e importanti della vita, in una maturità conquistata. Azzardiamo l’ipotesi che si tratti, almeno in parte, di vita vissuta. Sarebbe molto complicato riuscire a descrivere cosi bene, con questa chiarezza e naturalezza l’accavallarsi convulso di queste riflessioni affidandosi soltanto alla fantasia e all’immaginazione.
Giada, di parole ne hai, e buone. Da regalare nei commenti e nei racconti per emozionare chi legge. Nel tuo ritorno a casa c’è una grande capacità di trasmettere e descrivere. Le parole cambiano attraverso le varie stanze come un vestito la consistenza, il ritmo e la temperatura, e seguono le svolte del racconto senza alcun rumore dello sterzo. Bellissima l’immagine della giraffa sbagliata fra gli elfi, e bello anche il bilancio finale in positivo, la direzione che alla fine è sempre quella buona anche se con tutte quelle virate non sembrava.
Complimenti Giada per la cura con cui hai riportato gli scenari, specchio dei sentimenti di Fedora. Fedora che, scaldata dentro dalle riflessioni, dimentica il pentolino… Mi è piaciuto molto, e sono tornata a leggermi la descrizione della porta, come un varco tra due dimensioni!
Grazie mille a tutti! Sono davvero felice di leggere le Vostre parole. Un ritorno a se stessi, si: un accettare se stessi, così come si è. 🙂