Premio Racconti nella Rete 2018 “La bacchetta magica, sulla punta una stella” di Maria Cristina Benetti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018<<Se vuoi tornare a camminare sulle tue gambe te lo devi guadagnare. Lo devi volere con tutte le tue forze.>>
L’ho detto a mia madre ma per lei queste parole hanno il peso delle piume d’oca in una giornata di vento. Hai voglia a convincere una persona di ottantatré anni che tutto andrà bene. Le vedo negli occhi il peso di pensieri bui e di parole inespresse.
La paura le fa corrugare la fronte.
La comprendo. Cosa posso dire a una donna della sua età? Da qualche giorno vicino a lei c’è Lidya, le darà sostegno di giorno, sarà con lei anche di notte. Parliamo di ausili, di come gestirà quella che è la casa di mia madre.
Come faccio a farle credere che riacquisterà la sua autonomia?
Al momento mia madre è in una casa di riposo, ma per lei è solo una prigione. L’odore sovrasta tutto, anche l’amore di chi ha una persona cara che vive in quel posto.
Penso sia la puzza delle parole che le ho detto per farle vedere quel luogo come un Resort in attesa di ristrutturazione: <<Come essere in vacanza: non devi farti da mangiare. Lavano te, la tua biancheria. C’è il parrucchiere, fai fisioterapia.>>
Vado in scena così, giorno dopo giorno. Cerco di interpretare una parte, ma quando le parlo i miei occhi guardano in basso.
Sento forte il suo rancore per averla portata in un ricovero. Lei lo odia.
Lo odio anch’io.
Non vedo l’ora che arrivi il giorno in cui la porterò via. Mi piacerebbe poter viaggiare nel tempo, tornare alle nostre chiacchierate. Noi che partiamo per la montagna che per lei ha il sapore di mio padre. Quando ci andiamo me ne parla come se pensasse di rivederlo. Come se lui la stesse aspettando in quel posto che sappiamo solo noi. Ci andavamo a funghi, ne abbiamo sempre trovati in quel prato. La ricordo correre perché ha visto delle “mazze di tamburo”, ma ecco che inciampa e ci rovina sopra.
Vorrei riportarla a pranzare in riva al mare, vederla che muove i piedi, a rigare la sabbia. La brezza le muove i capelli e lei si preoccupa di perdere l’acconciatura.
Entrambe abbiamo capito che quei momenti non torneranno più. Allora cerchiamo di assaporare quegli istanti che hanno il profumo di timidi baci, quei baci che da poco ci scambiamo.
A volte mi fissa, ma sembra guardare oltre. Come non vedesse niente, come non fossi niente. Come non fossi la persona che l’ha messa in quel posto.
<<Mia figlia, è mia figlia che mi ha portata a vivere qui!>>
Forse non è vero niente, è solo un altro film che mi passa davanti agli occhi. Domani rimedierò, reciterò meglio la mia parte. D’altro canto, se non voglio pentirmi dei baci che non le ho dato in passato, posso dargliene di più adesso che vive in quel Resort.
E devo abituarmi all’idea che tutto cambia. Che prima o poi lei non ci sarà più.
<<Se vuoi tornare a camminare sulle tue gambe te lo devi guadagnare. Lo devi volere con tutte le tue forze.>>
Come pesano queste parole. Mi rimbalzano in testa come le palline di un flipper, e mi fanno andare in tilt. Ma non devo crollare, come posso farle ingoiare questo boccone se non lo digerisco io per prima.
Ecco che diventa automatico mentire, fare finta che sia solo un gioco: vince chi recita meglio, chi le racconta più grosse. Ma gli occhi non mentono. L’anima fa sempre più male, lo sguardo indugia ovunque pur di non incrociare il suo.
<<Guardala quando le parli o ti scoprirà,>> dico a me stessa. Sembra che anche lei abbia imparato le regole di questo gioco. Fissa qualcosa nel vuoto, quasi non fosse in questo posto. Quasi si immaginasse altrove, libera.
<<Portami a casa, me ne starò ferma a letto, ma fammi uscire da qui.>>
L’ho portata altrove, ogni giorno, quando mi raccontava di episodi che un domani mi parleranno di lei.
Storie di gioventù e delle sue fughe in montagna con una bicicletta che niente aveva a che vedere con le bici di adesso.
Le domeniche mattina, rigorosamente dopo la messa, indossava i pantaloni presi in prestito dall’armadio di suo padre, molletta sul fondo per non sporcarli con la morcia della catena, partiva dalla “Carpaneda” di Bolzano Vicentino in sella alla sua bici, facendo a gara a chi arrivava prima sull’Altopiano di Asiago. Tutto il costo che allora era poco più di una stradina senza mai fermarsi. Quanto deve aver spinto con quelle gambe, le stesse che adesso la stanno tradendo e la tengono prigioniera nel letto di una stanza che non è la sua.
Sudore, crampi, fatica, guance arrossate, aria pulita, sole, risate, gioventù.
Vento tra i capelli.
Altra storia che odora di sterco, paglia e fieno.
Adesso siamo in una stalla. Adulti seduti sugli stessi sgabelli che di prima mattina hanno usato per la mungitura. Donne che recitando il rosario con olio, acqua e potassa impastano il sapone. Uomini che masticano tabacco, un fiasco di vino rosso poggiato a terra, un solo bicchiere che passa di mano in mano. Bambini sulle balle di fieno intenti ad ascoltare le loro storie. Gli animali che riscaldano la stalla… mi perdo nelle sue parole. La immagino con una gonna a quadri, calzettoni alle ginocchia, le gambe che dondolano, nervosamente.
Non riesco a figurarla tranquilla, l’ho sempre vista insoddisfatta, come a rincorrere qualcosa che nemmeno lei sapeva, come volesse di più perché non era quella la vita che desiderava. Non la ricordo gioire per qualcosa: un regalo, del cibo, un abito, un’amica.
Mio padre.
Credo abbia capito quanto le sarebbe mancato solo quando il tempo glielo stava portando via. Lo stesso tempo che ingoia le cose a cui tieni di più: serenità, gioventù, estati, amori.
Mia madre.
Nei miei giochi di fantasia aveva i superpoteri, un po’ come le fate con la bacchetta magica, sulla punta una stella. Bastasse una pozione, una formula magica per riprenderci quello a cui teniamo di più.
Me la ricorderò nelle sue gite in montagna, che pedala così veloce che quasi non si vedono i piedi. Come volesse scappare da qualcosa. Forse avrebbe solo voluto sentirsi libera.
Mi mancherà, già lo so che mi mancherà. E non riesco a dirglielo. Lei ha provato più volte a parlarmi di quando morirà, ma questo racconto non mi va proprio di sentirlo.
Non è questo il momento, arriverà, ma non adesso.
Anche se temo si stia avvicinando quel tempo.
Devo farmene una ragione, sono una persona adulta e arriverò a capire che posso camminare da sola. Non so cosa si provi ad essere madre, ma da figlia comprendo la solitudine di chi perde i genitori. La mia mamma è ancora qui, respira, vive. Ma non è lei che detiene questo ruolo.
E vorrei che tenesse per sempre la mia mano.
Quanto avrei voluto lo facesse quando ero bambina.
Sentivo la mancanza di carezze che non ha mai saputo dare, di baci che ha serbato solo per i nipoti. Forse eravamo in troppi, sei figli erano tanti da coccolare. O forse non era quello che avrebbe voluto avere.
Non gliel’ho mai chiesto, preferisco non sapere.
Spero da sempre che arrivi il giorno in cui mi racconterà la storia di una principessa dai biondi capelli e di quanto avrebbe voluto regalarle un pony, ma che i soldi che entravano in casa servivano a pagare tante cose. Che mi dicesse quanto avrebbe voluto regalarle una bambola ma c’erano bocche da sfamare, o di giochi tutti per lei, magari delle tazzine per prendere il the, da usarsi con le amiche quando gioca a “casetta di mamma”.
Chissà perché in quei giochi io impersonavo sempre la mamma.
Mi sarei accontentata di molto meno, avrei voluto quelle cose che niente avevano a che vedere con il denaro, ma che a volte costano tanto perché non si riesce proprio a dare, come i baci, gli abbracci, le carezze.
Ti voglio bene, sono fiera di te.
Tutte cose che di sicuro mia madre si poteva permettere. Sono certa che arriverà quel giorno, ascolterò la storia di una bambina come me, di quanto l’ha amata un tempo, di quanto ne è fiera adesso.
A volte le chiedo <<Perché non sei serena? Non sei mai soddisfatta di quello che hai. Potresti parlarmi di momenti felici, dirmi che ti fidi di me, che sei contenta della figlia che ti resta accanto.>>
Ma ci sarà tempo per queste cose, quando ce ne andremo da questo Resort.
Perché mia madre ha davvero i superpoteri, la bacchetta magica, sulla punta una stella.
<<Se vuoi tornare a camminare sulle tue gambe te lo devi guadagnare. Lo devi volere con tutte le tue forze.>>
Mi ha emozionato, ho sentito il dolore e una forma di accettazione del passato. Molto vivo e sentito.
Sono felice quando riesco a farmi capire. E tu mi hai letto dentro. Ti ringrazio.
Bentornata Cristina in questa piazza! Le immagini ci scorrono davanti e ci coinvolgono. Personalmente mi sono seduta accanto a te, vicino quel letto e ho visto i vostri volti e i tanti ricordi. Bellissimo il titolo, simbolo del potere “magico” che hanno le madri, nostre fate buone, volenti o nolenti, perché il legame con la propria madre va oltre, oltre le cose non dette e le carezze non fatte. Complimenti per i sentimenti trasmessi, per il rimpianto che trasuda dalle parole,insieme all’ostinatezza della prima ed ultima frase. Un abbraccio
Ciao Silvia, grazie e ben ritrovata.
Dopo il tuo commento, giuro, ho riletto il mio racconto – come non sapessi cosa ho scritto – ma questa volta con occhi diversi. Quelli del lettore e, adesso pecco di immodestia, mi è piaciuto un po’ di più. BASTA, noi donne-che-poi-proviamo-anche-a-scrivere dobbiamo cercare di essere meno autocritiche e vedere il bello delle cose. Mi ha fatto un immenso piacere quella parte del commento sul titolo, trovo davvero complicata questa faccenda, ma la tua rilettura, sì, lo ammetto, i tuoi occhi me lo hanno reso OK. Per questo, ma non solo, ti abbraccio caramente.