Premio Racconti nella Rete 2018 “Amatrice” di Gloriamaria Pizzichemi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Amatrice era il mio regno.
La prima volta ci arrivai in carrozza scortata da mia madre e mia nonna, dormivo inconsapevole tra le tendine di voile bianco e la copertina a punto croce.
Era giugno e sarei rimasta a presiedere quel luogo come una regina fino ai primi di settembre, per undici estati.
Durante quei tre mesi abitavamo il secondo piano di una casa all’entrata del paese, tutti passavano lì davanti quando rientravano a casa. Ho ancora nella mente il rumore degli zoccoli dei muli col loro carico di fascine e accanto il contadino che li incitava a camminare.
Il cielo era sempre terso nei miei ricordi, il tempo soleggiato e freddo.
La scala che salivamo per arrivare a casa era chiusa da un cancelletto di legno per evitare che io, ancora piccola, scendessi da sola. Da quel cancello entravano centinaia di ospiti che facevo accomodare nella grande cucina. Per loro tiravo fuori dalla scatola vere tazzine di ceramica che avevo chiesto come regalo alla Befana e, anche se erano vuote, del caffé sentivo lo stesso il sapore e l’odore.
Al piano di sotto abitavano da sempre Maria e Giuseppe, i padroni di casa, che per la loro dolcezza e bontà ho sempre pensato appartenessero al presepe che facevamo a casa a Roma ogni Natale.
Maria era una bella signora, con un sorriso rassicurante e la tranquillità delle mamme di una volta, insieme alla rassegnazione di svolgere il compito che la vita le aveva assegnato. Il mio ricordo è legato alle frittelle di pane che preparava per me, quel sapore non l’ho mai più trovato ma non l’ho mai dimenticato.
Come si conviene a una regina, dando la mano a Maria per attraversare la strada di fronte alla reggia, ispezionavo le mie terre e i miei allevamenti.
In un triangolo di terreno tra tanta erba alta, c’era una casupola in legno e dentro un maialino al quale portavamo con un secchiello tutti gli avanzi dei pasti. Anch’io col piatto in mano facevo cadere bucce di patate, torsoli di mela, che non facevano neanche in tempo a toccare terra che quel fagotto sporco e cicciottello, grugnendo, ripuliva tutto.
Poi richiudevamo la porta, fatta con assi di legno, con il lucchetto unendo i due anelli di ferro, uno attaccato alla porta e uno allo stipite. Poi, come faceva Maria, battevo le mani per togliermi la terra e la polvere sul vestito giallo che mi aveva cucito nonna.
Di Giuseppe ricordo l’odore di terra e di buono. Timido e riservato qualche volta mi faceva un buffetto sulle guance con la sua mano ruvida.
Il pomeriggio anche le regine riposavano. Nel lettone tra mamma e nonna facevo finta di chiudere gli occhi mentre loro si appisolavano veramente, mamma col braccio abbandonato fuori del letto, nonna con la rivista ancora tra le mani. La tenda svolazzante disegnava ombre sui muri e io fantasticavo.
Gli uomini di casa, mio padre e mio nonno tornavano da Roma ogni fine settimana. Riconoscevo il rumore del motore della macchina prima delle ultime due curve e correvo incontro a loro appena mia madre mi lasciava la mano.
I pomeriggi passavano pigramente, le donne allineate sul muretto chiacchieravano, sfogliavano riviste e tra una risata e un racconto qualche testa ciondolava. Tra loro c’era anche la figlia di Maria, una bella ragazza dai capelli ondulati, con mia madre erano diventate amiche e il pomeriggio facevano lunghe chiacchierate. Liana era più giovane e si era appena fidanzata.
C’era una passeggiata poi fuori dal centro del paese che facevamo spesso e che mi piaceva tanto.
Ci preparavamo per uscire io, mamma e nonna e avevamo sempre un golfino leggero sul braccio, «perché in montagna fa freddo appena va via il sole!».
Mi tenevano per mano fino all’inizio del grande viale, poi potevo correre liberamente lasciandole indietro. Ogni tanto le raggiungevo per portare i fiori raccolti. Proprio percorrendo quel viale mi sentivo una regina, potevo correre, saltare, rallentare e tornare indietro, mentre le loro voci mi accompagnavano.
Qualche pomeriggio Maria mi portava alla processione, mi affascinava tanto vedere tutta quella gente che cantando con i rosari tra le mani, andava nella stessa direzione. Riuscivo a vedere Sant’Emidio traballante e pensavo sempre che da un momento all’altro ci cadesse addosso.
Ma un brutto giorno invece fu il mio castello a traballare…
Sentii un boato, gli sportelli della credenza in cucina che si aprivano, i bicchieri tintinnavano, qualcuno di essi cadde rotolando all’interno della credenza. I lampadari dondolavano e la luce andava e tornava come ci fosse qualcuno a divertirsi con l’interruttore.
Corsi tra le braccia di mia madre che mi prese in braccio e in pochi secondi fummo in strada. Tutti.
Avevo paura che anche il mio castello sarebbe caduto.
Il sole era andato via e gli occhi di mia madre erano pieni di lacrime: «Non ti preoccupare Glorietta, è il terremoto, fa paura ma ora è passato …» Maria aggiunse: «Sant’ Emidio ha detto vi farò tremare ma non vi farò cadere».
Ma io quella sera non la dimenticai più e desiderai più di ogni altra cosa tornare a casa, a Roma.
L’anno dopo i miei genitori cercarono di convincermi a tornare, di non preoccuparmi, che i terremoti accadono raramente. Ma fui irremovibile e anche loro per amor mio rinunciarono a tornarci per sempre.
Quell’esperienza segnò la fine della mia infanzia e da regina diventai una bambina come tutte le altre.
Liana scrisse tante volte cartoline di saluti, di auguri, sopra c’erano foto di bambini, paesaggi romantici, le lasciavamo in vista sulla credenza della cucina fino all’arrivo della successiva. Mia madre ricambiava con le sue, che invece erano piene di fiori e di panorami romani.
La vita proseguì il suo cammino e mi trasformò in un’adolescente, poi in una donna sposata, mamma e nonna. Ci vollero quarant’anni per trasformarmi, ma il ricordo di quei mesi è rimasto indelebile.
Durante questi anni sono ritornata ad Amatrice ma solo da turista. Ho avuto un brivido la prima volta quando siamo passati con la macchina sotto la mia vecchia «reggia», ormai restaurata, ma non cercai di sapere nulla di quella che fu la mia seconda famiglia.
Poi il passaggio inevitabile della separazione dai miei genitori, in due mesi la malattia e il declino. Fu un tonfo. Allora sentii il bisogno di ricomporre i pezzi, di riallacciare i fili.
Dopo sei mesi dalla loro morte un giorno d’estate di sette anni fa tornai ad Amatrice e non da turista, ma per cercarli, per sapere.
Chiesi alle persone del posto se ancora abitavano lì e seppi che tutte le estati erano sempre nella loro vecchia casa.
Erano passati troppi anni, pensavo che forse non mi avrebbero riconosciuta, forse non avrebbero ricordato, ma decisi che valesse comunque la pena provare.
Col cuore che batteva forte mi avvicinai al cancello della vecchia reggia, che si era improvvisamente rimpiccolito, come Alice nel paese delle meraviglie. Il giardino era grande come un balconcino, ma c’era ancora la panchina di marmo dove mi mettevo a giocare e anche due signori che chiacchieravano tra loro.
Uno dei due che avevo già riconosciuto, il fidanzato di Liana, mi chiese: «Cerca qualcuno?» Io risposi imbarazzata che in quella casa avevo trascorso tutte le estati della mia infanzia e se per caso ci fossero Liana o Paride …
Fu così che quell’uomo meraviglioso mi spalancò la porta di casa e chiamò forte: «Liana, Liana, vieni giù!». Apparve Liana, riconobbi anche lei: «Tu sei … Gloria!! Vero?!». E ci abbracciammo forte.
I ricordi ci sostengono, che siano dolorosi o gioioso ci fanno essere ciò che siamo. Emozionante!
Grazie Domenica, è proprio così.
Impossibile non leggere e rileggere questo racconto che inizia nominando un paese, Amatrice, che una mattina d’agosto ci ha fatto tremare …
Anche se tardi la protagonista, la reginetta di casa, esce vittoriosa, poiché trova il coraggio di tornare indietro nel suo passato superando il dolore. Brava! È un bel racconto commovente scritto col cuore.
Grazie Lucia, sono contenta di averti trasmesso questa emozione, ho amato molto Amatrice e nei miei ricordi è ancora intatta. Grazie ancora.