Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Il primo giorno di scuola” di Francesca Branca

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

     E sì che il primo giorno di scuola è sempre il primo giorno di scuola. Non solo il primo di quest’anno, ma il primo di sempre. Vai in prima elementare e c’è l’ansia, la paura del nuovo. Almeno per me. Per mia figlia non lo so, le emozioni, a sei anni, si tengono dentro.

Abbiamo messo la sveglia alle sette in punto, non ho capito perché visto che la scuola è giusto al di là della strada. Il fatto è che non siamo abituati a svegliarci così presto la mattina. Abbiamo avuto paura che il tempo non ci sarebbe bastato.

In televisione dicono sempre che il tempo non basta mai. Io questa cosa non l’ho capita veramente. Sarà che a me il tempo non solo basta, ma avanza pure.

Sono un operaio specializzato in cassa integrazione. Dicevano che sarebbe durata poco e invece sono otto mesi che va avanti così.

Avere trentacinque anni negli anni Duemila significa soprattutto non avere scelta.

In casa nostra è mia moglie che esce per andare a lavorare. Lavorare poi, anche questo è un parolone. L’hanno impiegata in un call center di un politico di queste parti che la prende e la svende come gli pare. Quando va bene firma un contratto di tre o quattro mesi al massimo, con la clausola del poi si vedrà. Ogni tanto torna a casa: licenziata. E poi invece serve personale e la richiamano.

Io lo chiamo lavoro yo-yo e lei si offende, perché è orgogliosa di quello che fa. Se ne vanta. Ha la fissa che ha colpito tutte le donne dell’ultima generazione: “Vado a lavorare per un’indipendenza mia, è una cosa di testa!” Dicono così. Lei lo ripete sempre: mette in mezzo questa cosa dell’indipendenza, della realizzazione personale. E va bene, io ci sto. Non sono uno di quegli uomini che dettano legge a casa. Io sono uno aperto di mentalità e poi in lei ci credo. Anche se quello che prende di stipendio – a provvigione tra l’altro -, non basta nemmeno a coprire le spese del viaggio che fa (quaranta chilometri ad andare e quaranta a tornare!).

Glielo faccio notare. Mi pare più logico se rimane a casa a curare la bambina, invece che sbattersi in questo modo per quattro soldi. Però poi lei ribatte con questa storia dell’indipendenza e della realizzazione personale e io che sono buono non me la sento di ricordarle che con i cinquanta euro che avanzano c’è poco da sentirsi indipendente.

Infatti dipendiamo, dai miei che ci pagano la luce e il gas e dai suoi che ci prestano la casa e ci danno una banconota da cento a settimana per la spesa e altre cose che servono.

Normalmente non si vive con così poco. Non è dignitoso. Noi invece ci riusciamo, rimaniamo in equilibrio meglio di quelli del circo Togni.

Parlo io poi che non trovo lavoro in nessun modo. A me il lavoro me l’hanno tolto con la forza. Almeno io la penso così. A parte, va be’, che lo dice pure la televisione che il lavoro è un diritto. E poi perché io, da operaio specializzato, al macchinario in fabbrica in tre o quattro occasione c’ho lasciato un pezzo.

Una volta mi è rimasta impigliata una mano. Ho gridato, sono venuti, m’hanno liberato e quando mi sono guardato m’è presa una paura. La mano mi si era aperta, uno squarcio da farsi nelle mutande, in due parti e mi sembrava che ci mancasse un dito. Poi, però, abbiamo contato, le dita c’erano tutte. M’hanno ricucito, la paura m’è passata, ma la mano non è che mi è tornata come prima. Funziona così così.

La mia fabbrica ha chiuso. Trasloca in Bosnia. Gli operai costano meno in Bosnia.

Mi sono incazzato. Io gli ho dato la mano sana, cazzo!, loro che mi hanno dato?

 

 

Dalle mie parti non è che sono il solo a spasso. Anzi, io almeno sono in cassa integrazione, significa che ho lavorato, ma c’è pure chi il lavoro non l’ha mai visto.

Per le donne è normale stare a casa, ma per gli uomini no. Si alzano presto, prendono la macchina che pare davvero che vanno a lavorare e invece poi li trovi al bar o in piazza. E la giornata passa così. Nessuno gli dice niente. Tanto finché ci sono i genitori alle spalle con la pensione il treno può camminare ancora.

Neanche a me nessuno mi dice niente. Con la mano così poi. Però mia figlia me l’ha chiesto perché non vado più a lavorare e io che dovevo rispondere? A una bambina di sei anni come si spiega che il lavoro va e viene? Allora dici che papà è in vacanza e lei ci crede. È una versione buona che mette a posto le cose, che ristabilisce i ruoli.

Intanto mia moglie va a lavorare e io resto a casa senza fare niente. Ogni mattina mette su Canale 5 mentre si prepara, e aspetta l’oroscopo. Io all’oroscopo veramente non c’ho creduto mai, ma mia moglie mi ha convinto che ci prendono. Almeno con lei c’hanno preso: la mattina che l’hanno chiamata per il colloquio al call center, il suo segno ha detto: “Buone prospettive di lavoro”.

Un giorno mi lascia un biglietto sotto la tazzina del caffè. “Cancro: possibilità di guadagni futuri”. Allora io ho pensato: eccolo, vuoi vedere che oggi mi chiamano e ricomincio a lavorare? In fondo alla macchina mangia mani io mi ci ero pure affezionato. Lei mi prendeva un pezzo di carne ogni tanto, ma mi ricambiava con lo stipendio. E andava bene così.

Lo stipendio per uomo è tutto. Per me è tutto.

Sta di fatto che non era successo proprio niente. Disoccupato ero e disoccupato sono rimasto. E siccome non mi andava giù l’idea che l’oroscopo non fallisce con mia moglie ma con me sì, mi ero un poco fissato. Ci pensavo in continuazione.

Pensa che ci ripensa ero arrivato alla conclusione che il mio oroscopo non aveva parlato di lavoro, ma solo di un guadagno, in senso generico. Avevo interpretato male.

Da allora vado al bar tabacchi e mi prendo un gratta e vinci, uno soltanto ché costano mica uno scherzo. E ogni volta, prima di grattare, mi dico: non si sa mai che è la volta che ci risolleviamo.

 

 

Quando ho conosciuto mia moglie avevo più o meno diciotto anni. Anzi non li avevo, ma li ho compiuti subito dopo. Me lo ricordo perché andavamo a mangiare la pizza con la Prisma di mio padre. Guidavo uno schifo, avevo la patente da poco. Ho preso pure un palo della luce in retromarcia una volta. Un imbranato insomma.

Veramente imbranato lo sono di natura. Sono timido. Anche con mia moglie, non è che sono stato io ad andare da lei, anche se mi piaceva assai. Pure quando ci imboscavamo con la macchina, dopo che ci eravamo messi insieme, era lei che mi metteva la mano tra le gambe e mi abbassava la cerniera.

Oggi invece va al contrario. Lei si infila sotto le coperte e se le tira fino al naso. Io mi avvicino e lei mi dice che non ce la fa, che non c’ha la fantasia, che le saltano gli occhi e vuole riposare. Io la scherzo, che ancora un poco di fantasia a me m’è rimasta: “E dai, facciamolo. L’ha detto pure l’oroscopo…”. La solletico, ma niente. Già dorme.

Allora mi accendo la televisione e metto su Ballarò, ché parlano della crisi e mi piace vedere tutti questi operai nelle mie stesse condizioni. Almeno non mi sento solo.

 

 

Mia moglie non viene a scuola ad accompagnare la bambina. Ha detto che ha chiesto un giorno, ma le hanno risposto di no. Sono quasi tutti giovani dove lavora lei e se ognuno va ad accompagnare il figlio al primo giorno di scuola, chi risponde ai mille utenti della Tim in difficoltà con le tariffe?

In effetti non hanno torto. Di chiamate ne arrivano a valanga e non tutte per motivi di telefono. Pure io, prima che prendevano mia moglie a lavorare lì, se ero incazzato, facevo il 119.

Quando mi hanno detto che entravo in cassa integrazione a zero ore ho fatto il numero un sacco di volte. Mi hanno risposto dopo mezz’ora d’attesa, gliene ho dette tante, tutte quelle che mi venivano, soprattutto male parole.

C’è soddisfazione a chiudere una telefonata con un vaffanculo!

Adesso ci vado piano, ché alla fine questi dei call center non è che stanno meglio di me che sono a spasso a tempo indeterminato.

Mia moglie mi ha fatto fare la domanda per andare a lavorare da lei.

“Sai che forza”, ho detto, “con cinquanta euro in più ci riprendiamo davvero”. Lei mi ha risposto, giustamente, che intanto che aspetto faccio qualcosa. In fondo c’ha ragione. Se vado pure io almeno ripaghiamo la spesa per gli pneumatici e la benzina. E poi tra un mese non avrò neppure più la cassa integrazione. Mi devo dare da fare.

Una settimana fa ho presentato la domanda, ho fatto il colloquio, ma quando il responsabile delle risorse umane mi ha visto la mano mi ha scartato.

Meglio così, almeno oggi posso accompagnare la bambina il suo primo giorno di scuola. Mi seccherebbe chiedere a mio suocero. Lui già ci mantiene. È lui che compra tutto a mia figlia. Questa cosa non me la ingoio facilmente. Suo padre sono io.

Quando ancora facevo i tubi di gomma alla ITG Srl ci potevamo permettere di mandare nostra figlia a danza. Tira qua e tira di là, avevamo spremuto dallo stipendio le punte, le mezze punte, il tutù, la calzamaglia e tutto il resto. Era brava mia figlia, ce la metteva tutta. Mi ripeteva sempre: “Mi piace ballare, papà”. C’era stato anche il saggio di fine anno, ma io non l’avevo visto. La domenica sera ero sempre in fabbrica per avviare i macchinari. Nessuno mi poteva sostituire.

Adesso che ho il tempo non ho i soldi per portarla a danza. Allora almeno l’accompagno a scuola, come tutti i buoni padri. Solo che io non ho la Land Rover da parcheggiare sul marciapiedi, non ho la cravatta e la giacca, né il portatile sul sedile accanto a quello di guida.

Ho solo mia figlia per mano, con il grembiule e il fiocco.

Mia moglie glieli ha scelti con cura, tanto li pagava mia suocera.

“Ho preso il fiocco di seta”, mi ha detto, “così è uguale agli altri”.

Uguale a chi? Tanto si vede lo stesso chi sono i figli di chi può e di chi non può. La scuola è il posto dove si nota di più la differenza di reddito, c’è poco da coprirsi con grembiule e fiocco. Si vede dallo zaino, dalle scarpe, dai quaderni che hanno dentro lo zaino, dall’astuccio superaccessoriato. Dall’atteggiamento, si vede anche da come si muovono sicuri in un posto che non conoscono. Si vede da come vengono accolti dalle maestre.

A me alla fine mi piacerebbe essere come loro. Mi piacerebbe arrivare davanti a scuola suonando il claxon per far spostare il vigile e parcheggiare in seconda fila. Mi piacerebbe far vedere che ho fretta di andare da qualche parte. Mi piacerebbe ridere mentre la maestra dice al microfono che per i tagli alla scuola i bambini fanno un’ora in meno. Che mi importa? Tanto poi il pomeriggio porto mia figlia al British Institute, a pianoforte e in piscina.

Mi piacerebbe soprattutto poter dire a mia figlia sempre sì. Invece devo dire sempre no. Per un padre è deprimente dire sempre no, anche se non è no e basta, è “no, amore, purtroppo non posso”. Cerco di spiegarglielo insomma. Ma mia figlia ha sei anni, a sei anni si capisce soltanto il no. Punto e basta.

 

 

La campanella è suonata. La campanella del primo giorno di scuola. Guardo mia figlia che entra. Inciampa su uno scalino e la maestra la sgrida pure. Le dice: “Oh, e vuoi fare attenzione?!” E allora mi sento ancora di più una merda, perché se avessi avuto anche io la macchina grande, forse la maestra l’avrebbe accarezzata e l’avrebbe invogliata ad entrare senza spaventarla. E invece lei è la figlia della crisi dell’industria italiana e dei call center ed entra il primo giorno di scuola con la maestra che le grida nell’orecchio di svegliarsi.

In un giorno come questo la rabbia prende a tradimento.

Quasi quasi mi torna la voglia di fare il 119 e mandare qualcuno a fanculo. Mandare a fanculo il vigile urbano o la maestra o quello stronzo col macchinone che se la tira.

È questa la vera ingiustizia: lui può atteggiarsi, io no. Non ne ho i mezzi.

Però lui si maschera, invece io sono una lastra contro luce. In fin dei conti è una fortuna non dover dare a vedere una cosa diversa da quello che sono. Tutti sanno, come lo so anch’io, che passerò la mattinata senza fare niente. Al massimo andrò al bar tabacchi, a cento metri da qui, e spenderò due euro e cinquanta per un gratta e vinci.

Due euro e cinquanta, tanto mi costa l’illusione.

 

 

 

 

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4 commenti »

  1. Mi sono emozionata. Bello. Ogni tanto ci vuole qualcuno che dà uno scossone all’indifferenza. Grazie

  2. Quegli “a me mi” farebbero inorridire i puristi della lingua. Come il dipietrista “c’ho”, del tipo “che c’azzecca”. Ma il racconto con l’io operaio è una furbata della serie “io speriamo che me la cavo”, libro e film di successo dei primi del novanta. La prima persona al singolare parla come deve parlare, con la rabbia viscerale del cassintegrato, con gli argomenti umorali del senso comune proletario, con gli esclamativi finanche gestuali di chi non ne può più.
    Al diavolo i puristi. Provino loro a dare il senso di una indignazione organica, di pancia, di cuore e di mente. Loro, saturi di pietanze semantiche e grammaticali. Non è un caso che il mercato editoriale stenti a proporre buone opere sull’operaismo; o, meglio, sul neo-operaismo non più ideologico e nemmeno dogmatico, che le intuizioni pasoliniane avevano prefigurato e problematizzato. Nessuno vuole più rileggerle, reinterpretarle e rilanciarle all’attenzione della pubblica opinione, mentre la cultura liberistica, forte della sua egemonia e del suo prepotere, continua a sommergerle di polvere negli archivi delle proprie avversioni e rimozioni.
    Negli anni passati si parlò molto dell’operaio, dell’operaio massa. Le sue alienazioni e rivendicazioni erano stabilmente al centro degli impegni politico-sindacali, ovviamente al netto di doppiezze strumentali e di demagogie venali. Ma – chiediamocelo – chi parla, oggi, dell’operaio sociale? Chi ispira, espone e spiega la necessità d’una elaborazione di nuove piattaforme di lotta al lavoro nero, al precariato, alla disoccupazione? Chi s’interessa, davvero, del dramma quotidiano che le famiglie dei call center soffrono sulla loro pelle in una società di base che non ha più nemmeno la forza di sorridere? Come cresceranno i ragazzi di questa bassa congiuntura, gli scolari esclusi dalla mensa o dalla gita perché le famiglie non hanno i soldi, i pochi soldi richiesti?
    Francesca Branca, senza dirlo, affonda il suo specillo chirurgico nella piaga purulenta della cultura contemporanea che, perso l’habitat ideologico, non riesce più ad esprimere l’avvilimento di un mondo depresso nella solitudine e nelle frustrazioni; di un mondo che non trova, né tra gli intellettuali, né tra i politici, né tra i sindacalisti, lo straccio di un interprete onesto che ne porti avanti le istanze, disponibile a rompere con il liberismo impazzante e omologante, quello che paga per orientare le opinioni, quello che distribuisce, con marie, simone e barbare, con pupi, principi e conti, con grandi fratelli e isole dei famosi, dosi massive di imbonimento e rimbambimento di massa.
    Dal centro della dialettica sociale e politica, dove per tanto tempo è stato, il lavoratore è finito extra moenia, al di fuori degli interessi culturali e politici in voga, indotti a battere i percorsi del consumismo, del pil, della crescita, delle borse e a saziare il moloch dell’economia finanziaria che trangugia, da mane a sera, larghe fette di economia reale, quella prodotta, appunto, dal povero lavoratore.
    Francesca Branca volgarizza questi temi e li rende credibili con la forza e il gusto di qualche incisiva trasgressione linguistica, con la naturalezza del linguaggio, con la immediatezza delle espressioni, con la familiarità del senso comune. In assenza di interpreti e di mediatori, di avanguardie e di comunicatori, preferisce portare sulla scena direttamente il protagonista e farlo parlare, in prima persona.
    Il plot del suo racconto è costruito su un’articolazione e successione incalzante di denunce che, valutate rigo per rigo, alla fine vanno ad esplorare le pieghe e ad incidere le piaghe di un nuovo sistema di ingiustizia sociale, quello che ha trovato diffusamente impreparato il pensiero contemporaneo.
    Il lavoratore costretto a vivere sulle spalle della moglie, impiegata in un call center, è uno spaccato di carne viva. Il classismo della scuola è un uppercut alla faccia del riformismo parolaio. La macchina sul marciapiede è segnale della illegalità diffusa tra i danarosi, il più delle volte, truffatori e corrotti sicuri dell’impunità. Il gratta-e-vinci diventa un ammortizzatore sociale, scientificamente organizzato per rabbonire la rabbia nella speranza.
    Ma in quale cazza di società stiamo vivendo?
    Francesca Branca pone la domanda con l’astuzia spiegante di un lessico che prende il lettore per scrollarlo, per toglierlo dall’indifferenza e dalla pigrizia, dal riflusso nei fatti propri. “A-me-mi-piace” per un raddoppio attraente del senso e del consenso di un “a me piace”, che, a questo punto, sarebbe debole e scipito.
    La scrittrice ha saputo ben confezionare questa storia, senza orpelli. Ma, è capace d’altro. Chi ha letto, come me, questo brano, farebbe bene a leggerne un altro della sua produzione, quello che va sotto il titolo de “La fantesca e il pappagallo”. Un linguaggio tutt’affatto diverso per il solluchero dei puristi. Una costruzione deliziosa. Uno stile singolare. Un ritmo accattivante. Una trama originale. Un grande segno di duttilità. Una straordinaria versatilità, che cresce nella comparazione delle due opere. Ma di questo parleremo, semmai, in altra occasione.
    Luigi Michele Perri

  3. Stile brioso, scorrevole, convincente. Reso efficamente il tema.

  4. Leggendo i racconto mi viene in mente che la letteratura ritorna ad essere un momento, un mezzo di denuncia sociale. Coglie il racconto un aspetto e un segno della nostra realtà contemporanea: la solitudine dell’impotenza, la decadenza del dignità quando una persona è priva del lavoro.
    Carmina trillino

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