Premio Racconti nella Rete 2018 “Neve a Milano” di Marco Frigerio (sezione racconti per bambini)
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Le strade imbiancate abbagliavano la città col giallo del mattino, di uno splendore da far invidia alla migliore estate. Dopo tre giorni di assenza, il sole erompeva tra gli ampi squarci di nubi bluastre, ancora cariche di neve. Il chiarore rimbalzava dai tetti ai cumoli di neve, raccolti dagli spazzaneve notturni agli angoli delle strade.
Dopo tre giorni di neve leggera, la notte aveva portato una nevicata magica. Pigri fiocchi, ampi e leggeri, avevano riempito l’aria e si erano adagiati morbidi su tutta la città come una spessa nuvola. Il traffico si era fermato e i sogni si erano crogiolati dentro la lenta discesa della neve.
Con la porta spalancata sul bianco, la scuola media attendeva gli alunni che tardavano ad arrivare. Le poche auto dei genitori, che non erano rimaste intrappolate nel traffico, scaricavano i ragazzi sulla via principale, lasciandoli attraversare da soli la piazzetta davanti alla scuola, immersa nella bambagia gelata. I ragazzi guadavano infreddoliti lo spiazzo bianco, affondando nella neve fino al polpaccio e si infilavano nello scuro portone con un sospiro.
“E se bigiassimo?” Tre figurette ferme all’inizio della piazzetta, fuori dalla vista della strada trafficata. “Sì! Dai, andiamo a giocare a palle di neve.”
Il parco Sempione era un bagliore immacolato. Dal Castello all’Arco della Pace nessuna orma feriva la coltre bianca. Gli alberi erano di marmo chiaro, i sentieri di zucchero filato. I tre ragazzini si fermarono timorosi davanti al cancello aperto sul limitare di quel luogo incantato, così diverso dal parco che conoscevano così bene.
Il suono dei loro passi era attutito, la ghiaia non rotolava sotto le loro scarpe. Nessuna voce. Non il canto di giovani, non il suono di bongo e chitarre. Nessun pianto di neonato, nessuna mamma che chiama il suo bambino. Le loro stesse voci, diverse. Più profonde e più sonore.
Gli alberi più grandi, raddoppiati in volume grazie alla neve, eppure più leggeri, come se non fossero radicati nel profondo, ma appena posati sulla terra. Come se, tirata su la corteccia-pantaloni se ne fossero potuti andare via a piedi fin dove avessero voluto.
“Allora, che facciamo. Entriamo?” “Certo, abbiamo bigiato apposta per venire qui a giocare. Dove potremmo trovare un posto miglior di questo?” “Andiamo!” Si mossero piano, la neve arrivava appena sotto al ginocchio. Il più piccolo prese un po’ di neve, fece finta di mangiarla, poi la gettò nel collo del più alto che si voltò ridendo, rotolò nella neve e iniziò a scalciare con mani e piedi lanciando fiocchi contro il piccolo e la ragazzina. Lei rise, scartò di lato e si mise a correre. “Seguitemi, venite”. Si muoveva velocissima. Saltava, rotolava e sorrideva ai suoi compagni che si buttavano sui mucchi di neve e balzavano come lepri sul prato imbiancato, scuotendo cespugli e siepi come per far riprendere la magica nevicata.
“Cosa direte domani alla prof?” “Niente. Perché?” “E alla mamma?” “Non so ancora, era troppo bella la tua idea di correre al parco, che non ci ho proprio pensato.” “Io credo che le dirò che siamo andati a far palle di neve.” “Ma sei matto? Se le dici così viene a saperlo anche la mia che poi mi fa due palle tante, e non di neve!” “Dai giochiamo ancora un po’, poi ci pensiamo. Nascondino?” “E già brava! Segui le tracce e ci trovi subito.” “Allora: Un Due Tre Stella.” “Bah, è roba da poppanti, quella.” “Hai paura di non farcela!” “Figurati.” “Dai, inizio io. E il primo che arriva fino a me mi abbraccia e mi bacia.” “Sei matta?” “Io ci sto! Iniziamo.”
I tre ragazzini corsero nel mezzo di un grande prato, non lontano dal laghetto al centro del parco. Tutto era bianco, non un segno nella soffice coltre di cristalli lucenti nel pallido sole. Iniziarono a giocare, ridendo e rotolandosi nella neve per un nonnulla.
Se ora noi volessimo cambiare lo sguardo che sinora ha seguito i ragazzi – da una visuale piana, come di chi cammina al loro fianco, a una visione più ampia muovendoci sopra di loro, nel cielo tormentato da nuvole color cenere. Potremmo, ad esempio, rubare la vista di quel gheppio che lentamente volteggia oltre gli alberi, librandosi leggero, quasi senza muovere le ali.
Il piccolo rapace vola oltre il Castello, plana verso l’arena, fa un lungo giro sopra le strade cittadine, intasate dal traffico che scorre più lento del solito. Lì attorno, nelle aule della scuola media, i compagni dei nostri amici guardano fuori dalla finestra i neri rami degli alberi curvarsi sotto il peso della neve caduta e il cielo coprirsi di nuvole bigie. “Di certo, oggi nevica ancora.”
Il gheppio aspetta con calma che un topo, uno scoiattolo si stagli vivace sul bianco. In un attimo sarebbe giù. Ma non scorge nulla. Solo un uomo che entra nel parco vuoto.
Tutto il parco è ancora silenzioso, solo tre ragazzini che rotolano nella neve e adesso quest’uomo, che affonda i passi nel bianco.
Indossa un cappotto sdrucito, dal taglio elegante, ma vecchio, le scarpe in capretto hanno un buco nella scuola e si infradiciano tutte mentre trascina un grosso sacco di plastica fino alla panchina nascosta tra una magnolia e una siepe
Non c’è nessuno attorno. Il falchetto vola in alto, si allontana e poi torna, instancabile nella sua ricerca.
Il piccolo con tre salti raggiunge la ragazzina e le schiocca un bacio sulla guancia. Lei ride, lo getta nella neve. “Ti ho visto: ti sei mosso, hai barato!” e scappa. L’alto lancia palle di neve contro il piccolo: “imbroglione!” Lei corre dietro ai due che si infarinano, uno a destra e uno là in fondo nella neve fresca. “Venite qui. Ho trovate un mucchio di neve grandissimo. Ci si può tuffare dentro.” “Siamo qui, stiamo arrivando” urlano mentre il piccolo fa capriole rotonde.
L’uomo ora è seduto. Davanti a sé ha una grossa padella dove raccoglie i ritagli di lettere, fatture, contratti che accuratamente straccia con le mani. Si guarda attorno in continuazione, mentre strappa i documenti con frenesia.
“Cosa hai? Non stai bene?” “Io sto bene, lo sai. Sono gli affari che vanno male.” “Sì, questo lo so, anche se non me ne parli mai. Siamo messi così male?” “Sì. Sono fallito. Niente più soldi. Ci porteranno via la casa e tutto il resto. Sono fallito, e fallito male.” “Io sono sempre qui con te, lo sai. Ma, per favore, parlami.”
Con un accendino l’uomo prova a bruciare un foglio, che si accartoccia, fuma un poco, ma la fiamma non appare. Prende un altro ritaglio, ma anche questo non vuole bruciare. Si inginocchia, con le mani smuove i frammenti di carta raccolti nella padella, sì che l’aria possa passare tra loro. Ma niente, nessuna fiamma, nessun fuoco.
Il gheppio vola in tondo, in cerchi sempre più ampi, scrutando il parco, i tetti e i cortili. L’occhio attento ai colori e ai movimenti più lievi. Gira, gira, osserva, attende impassibile. Vede i ragazzi agitare braccia e gambe distesi sul prato, così da formare nella neve l’immagine di un grosso volatile, o di un angelo caduto al suolo. L’uomo è lì a pochi metri ma non li vede, così sdraiati a terra, mentre armeggia con un accendino che non si accende più. Il gheppio scende di quota, qualcosa si muove dietro l’uomo. Niente, nessun topo o scoiattolo. Il rapace risale indifferente e ansioso.
“Ho fame” “Anch’io” “C’è il bar, lì dietro” “Sarà chiuso, con tutta questa neve” “Andiamo a vedere”
Si alzano in piedi, sono completamente bianchi e camminano goffi nella neve alta. Si fermano come spaventati davanti all’uomo in ginocchio davanti alla panchina. Lui li vede e alza una mano “Buon giorno, cioè ciao.” Poi abbassa lo sguardo sul tentativo di falò e balbetta “ragazzi, sapete, a volte accadono cose strane.” Loro, gli passano accanto in fila indiana, qualcuno mormora “buongiorno.”
Il bar è chiuso e spento. Tutta la neve attorno alla casetta di legno è immacolata, sia davanti che dietro non una traccia, non un segno di vita. Sono soli nel parco. Solo loro tre e l’uomo in ginocchio.
Poi la luce si accende, la porta si apre e la barista sorride: “Avete fame? Volete far merenda?”
Tutto il baretto sfavilla, i tavoli sono puliti e il profumo delle brioches aleggia fino a loro. Ma come ha fatto?
“Ehi ragazzi, voi quanti soldi avete?” “Io niente, oggi a scuola non mi servivano.” “Anch’io. Niente” “Frughiamoci bene” Parlottano, cercando nelle tasche.
“Allora ragazzi, entrate?” “Signora, abbiamo solo un euro e mezzo. Non basta per nulla.” “Va benissimo. Una brioche costa settantacinque centesimi e con ‹La merenda tre per due›, che vale fino alle undici, un euro e mezzo è proprio il conto giusto. Volete anche una bibita, una cioccolata calda, una coca-cola?” “Ma signora…” “‹La merenda tre per due›, che vale fino alle undici, comprende una brioche e una bevanda. Sedetevi che vi porto tutto. Allora tre brioches e tre cioccolate?”
I ragazzi seduti al caldo del bar si sono tolti i giacconi, hanno buttato a terra gli zaini e aspettano la merenda guardando l’uomo che si affanna con le sue carte. “Ma cosa sta facendo?” “Nulla ragazzi, non abbiate paura. Ecco qui la vostra colazione. Adesso vado da lui.” La barista si mette una giacchetta ed esce.
“Buon giorno, posso aiutarla?” “No, no. Adesso prendo tutto e me ne vado. Anzi, lei non mi ha neanche visto.” “Urca che melodramma, per un fallimento. Deve bruciare un po’ di carte vecchie, fatture, ordini eccetera?”
“Ma lei chi è? Cosa dice e cosa vuole?” “Non sono nessuno, sono solo la barista e nel bar c’è una bella stufa. In tre minuti bruciamo tutta questa carta e lei può tornare tranquillo da sua moglie.”
L’uomo si alza in piedi, la donna è piccola e gentile, sebbene dica cose strane. “Va bene.” “Venga entriamo da dietro, che i bambini sono un po’ spaventati.” “Io?” “Sì, ma non è nulla. Andiamo”
Il gheppio li vede prendere il sacco di plastica e la padella ed entrare nel bar. Lui lascia orme profonde. Lei nulla. Deve essere molto leggera. Ora il falchetto ha fame, ma non vede ancora alcuna preda, né uno scoiattolo, né un topo, neppure piccolino.
Amplia ancor di più il suo volo, planando su tutta la città, ma pur sempre tornando sul parco, che magneticamente lo attira.
“Vede, con la stufa abbiamo già finito.” “Sì, bene. Grazie, ma mi dia l’attizzatoio, che voglio vedere se c’è ancora una qualche carta che non è bruciata bene,” “Tenga, ma tutto è già scomparso”
Lui sbuffa, apre lo sportello, e sbatacchia l’attizzatoio nella stufa per un po’. Poi si rimette il cappotto, che ha appoggiato ad una sedia. “Allora, grazie ancora, io vado:” “Non vuole qualcosa? Un caffè? Un the?”
“No grazie, sono di fretta.” “Sì, ha ragione, vada a casa.” “Non vado a casa! Ho ben altro da fare.”
Ed esce nella neve che ha ripreso a scendere. “A casa?”
“E voi ragazzi, volete qualcos’altro. Brioches, acqua, qualcosa?” “No, grazie va bene così, e poi non abbiamo più soldi. Ecco l’euro e mezzo, ma cosa aveva quell’uomo?”
“Vi ha spaventati?” “No, però era strano.” “Non aveva nulla. Il suo problema è che parla poco. Con la moglie, con tutti. Ma non gli è successo nulla che non sia normale, e che non possa capitare a volte. Niente di strano.” “Ciao” “Grazie, ragazzi. Ciao.” I ragazzi escono dal bar.
Nel pieno del mezzogiorno il cielo si è fatto scuro. Le nuvole fitte e plumbee. La neve scende abbondante, formando una specie di schermo in movimento che cambia la forma degli alberi e delle cose. “Ho dimenticato la sciarpa al bar! Vado e torno. Aspettatemi. ” Il piccolo si volta. Il bar è buio e vuoto. “Ragazzi, guardate è tutto spento, ma la signora dov’è andata?”
La porta chiusa. L’interno polveroso, nessuna brioche sul bancone, nessun profumo. Solo la sciarpa del piccolo sotto un tavolo.
“Dai, torniamo domani, dobbiamo muoverci, tra dieci minuti mia mamma sarà davanti a scuola” Si mettono a correre, e in breve sono fuori dal parco.
Corrono, lasciando nell’aria le nuvole fumose del loro fiato: “saremo sempre amici, per tutta la vita”, “oggi ho baciata la ragazza più bella del mondo”, “che bello, che bello il parco, che bello i miei amici, le brioches e la cioccolata. La vita è bella.”
Il gheppio era tornato al suo nido. Se ne stava rintanato nel suo buco, là in alto sulla torre del Castello. Tutta quella neve gli impediva di volare. Ad un tratto vide un topino, proprio alla base della torre, ma la nevicata era troppa fitta. Il topino, ignaro, vagò un poco in mezzo alla bufera, senza trovare nulla da mangiare. Poi, seguito dallo sguardo attendo del rapace, rientrò nel suo buco.
Marco, questo racconto è molto bello, ma non lo trovo adatto per la sezione bambini. Lo stile è difficile per un bambino, e il tema non mi sembra abbastanza avvincente per catturare l’attenzione di un un ragazzino. Io la trovo una bellissima storia, scritta molto bene, ma per un pubblico adulto. Secondo me l’unica cosa che non funziona sono i dialoghi con le voci dei bambinii. Un ragazzino che frequenta la scuola media non userebbe mai quel linguaggio, il che rende le parti di dialogo un po’ goffe e poco naturali.
Oggi anzi ieri 25 aprile festa della libertà e san Marco … auguri caro autore! Nel corso del pic nic, dopo pranzo e prima di giocare a pallavolo, ho letto il tuo racconto a sei bambini /ragazzini che l’hanno molto apprezzato: sono stati tutti zitti ad ascoltare. Alla fine però volevano sapere il seguito! Gli ho detto che potevano inventarlo loro … i bambini sono schietti. Comunque ti faccio i complimenti per avere bene intrecciato la storia dei tre ragazzini, dell’uomo fallito e del gheppio. Ognuno di loro magicamente ottiene quello che vuole – d’altronde questa è una favola! Grazie e in bocca al lupo!