Premio Racconti nella Rete 2018 “Agriturismo” di Marco Pedroli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Le possibilità di essere serviti in tempi e modi normali all’agriturismo della fonte era la prima variabile da scartare. A far sì che il cliente si pentisse di esservi capitato ci pensavano innanzitutto i due inservienti, soprannominati Furia e Pigiamino dai residenti del borgo. Il primo era un ragazzotto stempiato e rubizzo sulla trentina, costantemente in affanno. La fronte imperlata di sudore in qualsiasi stagione, era noto per la smania di ben figurare servendo ai tavoli il più velocemente possibile anche quando non ce n’era alcun bisogno; il che, considerata l’affluenza di clienti valeva a dire più o meno sempre. Brandendo la penna e il bloc-notes piombava di corsa sull’avventore di turno mentre questi si stava ancora guardando attorno per scegliere il posto. Vedendoselo arrivare addosso lo stesso si spaventava temendo un’aggressione e usciva dal locale all’istante smadonnando e giurando di non farvi mai più ritorno.
Furia non si dava pace nemmeno nei momenti morti, oltretutto piuttosto frequenti all’agriturismo. Girava come una trottola tra i tavoli vuoti, allineando un tovagliolo e risistemando di continuo le sedie che aveva appena finito di spostare. All’arrivo dei clienti la sua frenesia si scatenava. Annotava le ordinazioni febbrilmente e le trasformava in geroglifici che lui stesso una volta rientrato in cucina non era più in grado di leggere, col risultato che chi aveva chiesto una bistecca si vedeva servire una fetta di crostata e viceversa.
Una maggior precisione nella gestione degli ordini, benché con una tempistica a dir poco rilassata, si registrava quando ad occuparsi degli stessi era il suo alter ego Pigiamino, un giovanotto di nemmeno vent’anni dall’aria perennemente assente. L’attesa in tal caso poteva diventare snervante per chicchessia. Ad esempio per i ciclisti, che nelle giornate di bel tempo si fermavano all’agriturismo a riempire le borracce o a prendere al volo un caffè. Per costoro la flemma di Pigiamino poteva risultare fatale; la sosta infatti si prolungava oltre ogni previsione, finendo per raffreddare le viscere dei centauri che pur rimettendosi in sella con la tradizionale baldanza, erano costretti a fermarsi poco dopo nei prati circostanti dove si vedevano correre imprecando alla ricerca di un cespuglio.
Il biglietto da visita di Pigiamino stava tutto nel suo aspetto. Si aggirava fra i tavoli con la banana sghemba da cuscino, la pelle cerulea come un caciocavallo, un paio di fuseaux padellati di ogni lerciume e zoccoli di pioppo ai piedi. Quando sua zia Elvira, titolare dell’azienda agricola, ebbe a dire sulla sua tenuta chiedendogli un minimo di decoro, Pigiamino rimase sorpreso. Si guardò allo specchio chiedendosi cosa potesse esserci di sbagliato nella sua mise. Alla fine, pur non venendone a capo, si decise per un upgrade rinunciando alle calzature lignee a favore di un paio di espadrillas che prese a portare in ogni stagione. Nelle giornate di pioggia le ciabatte di corda s’inzuppavano gonfiandosi come spugne e procurandogli una frescura pedagna che a suo dire lo aiutava a stare sveglio. Il sonno, da cui la sua proverbiale lentezza, era infatti il suo grande problema. Lo si vedeva vagare senza meta fra i tavoli del salone, l’occhio a mezz’asta, in uno stato di imminente catalessi. Non sospettando che fosse un cameriere i nuovi clienti non lo chiamavano nemmeno, fino a quando a raccoglierne le ordinazioni si precipitava Furia zompando paonazzo da un tavolo all’altro con un’avventatezza da manicomio.
La signora Elvira che li aveva reclutati fra il parentado li considerava entrambi degli inetti. Ciò nonostante si guardava bene dal licenziarli per non doverli rimpiazzare con qualcuno che potesse pretendere un’assunzione in piena regola. Innervata come un’amadriade sul suo albero, non si allontanava mai dalla cassa, mentre con lo sguardo da sfinge vigilava su qualsiasi movimento all’interno del locale. La sua fissità statuaria a lato del banco frigo la faceva somigliare ad una specie di semifreddo antropomorfo che i clienti sulle prime non notavano, per poi trasalire impauriti al suo inatteso quanto tardivo palesarsi.
I pensionati a cui era affidata la cura di un nipotino si recavano volentieri all’agriturismo per via dell’area giochi, unico spazio riservato al divertimento dei più piccoli del circondario. La sua dotazione era costituita dalle seguenti attrattive: uno scivolo in metallo del 1978. I nonni più avveduti vi accompagnavano i nipoti verso il tramonto, quando la temperatura della rampa si abbassava sotto il grado di fusione del derma. Nei mesi invernali, la stessa si trasformava in una vera pista da bob in grado di scagliare l’ignaro ragazzino a distanze inimmaginabili dall’area giochi. Lo scivolo era già stato usato dal giovane Pigiamino che da bambino se ne serviva da giaciglio, incastonandosi all’interno della rampa per la pennichella del dopopranzo dalla quale non si risvegliava finché le sue terga cominciavano a friggere. A quel punto, si trasferiva in casa della zia per riaddormentarsi all’istante sul divano.
Tra gli animali presenti nell’azienda agricola il più scenografico era senz’altro il pony. Si aggirava liberamente fra i tavoli ricevendo elargizioni di ogni tipo, dalle croste di formaggio agli avanzi di torta. In virtù della dieta tutt’altro che erbivora la sua carenatura si era abbassata pericolosamente al livello del suolo, a cui finì quasi per aderire facendogli guadagnare l’appellativo di Ferrari. Per gli anziani la vista delle sue abnormi rotondità era fonte di sincero apprezzamento. Ne parlavano come di una “gran bella bestia” a cui allungavano volentieri una carezza, ma ancor più spesso un cono gelato o una piadina. Ferrari ringraziava e faceva sparire. Fu soltanto grazie all’intervento di un veterinario di passaggio che minacciò una denuncia alle autorità sanitarie che l’equino ebbe salva la vita. Da quel giorno Ferrari fu costretto a pascolare all’interno del recinto, dove ebbe modo di scoprire il sapore dell’erba. Prima che si facesse una ragione di doversene cibare, perse stazza sufficiente da lasciar filtrare uno spiraglio di luce fra sé e il pianeta Terra.
Le specialità della casa a base di prodotti della fattoria erano raffigurate sull’insegna da una serie di disegni realizzati dalla mano inquieta di Furia. Vi si scorgeva una specie di coniglio dotato di proboscide che risultò essere, come ebbe a spiegare lo stesso artista, una carota. All’interno della scritta “AGROTURISMO DELLA FONTE” le tre “O” erano sostituite da altrettante figure, delle quali gli anziani si disputavano l’interpretazione. Alcuni vi vedevano dei palloni da calcio, altri le ruote di un carro. Qualcuno, dopo aver vuotato il terzo bicchiere di bianco della casa, vi colse le fattezze di una verza aggiudicandosi la conferma dell’autore.
Le possibilità di sopravvivenza dell’agriturismo dipendevano in gran parte dalla qualità della cucina e dunque dalla presenza del cuoco, uno scapolone allampanato dalla carnagione azzurrognola soprannominato Candela. Manovrava fra i fornelli in perenne stato di convalescenza per colpa delle pleuriti che lo costringevano a portarsi appresso uno strofinaccio da cucina nel quale tossiva e con cui si asciugava il moccio. La causa dei suoi malanni era dovuta ad un accordo con sua cugina, la signora Elvira. Questa infatti, pur non spingendosi fino al punto di proibirgli di fumare per lo stesso motivo per cui non avrebbe licenziato gli altri due, gli impose di tenere spalancate le finestre della cucina ed esponendolo in tal modo alla furia degli elementi. Le occasionali apparizioni del Candela nella sala ristorante erano preannunciate da un refolo gelido che dalle cucine si diffondeva fra i clienti i quali poco dopo, al cospetto della sua figura spettrale, perdevano fatalmente qualunque appetito.
Un giorno d’inverno in cui la temperatura si abbassò all’isoterma il Candela fu ritrovato sul pavimento della cucina rivestito di brina come una platessa, il braccio proteso a recuperare il mozzicone rotolato sotto il lavello durante la preparazione di un timballo. Il ricovero fu inevitabile e le sorti dell’agriturismo sarebbero state messe a dura prova se non fosse stato per Pigiamino che in un inspiegabile momento di lucidità ebbe un’idea: il menu di mezzogiorno.
A reclamizzarne la convenienza, ci pensò ancora una volta l’estro grafico di Furia che in quell’occasione superò se stesso. L’insegna che scaturì dalle sue mani irrequiete fu un vero capolavoro. Tutto attorno alla scritta “PRANZO 9 EURI” si snodava un treno di animali che soltanto la fantasia malata di un visionario avrebbe potuto concepire. Vi si scorgevano liocorni, narvali ed altre creature fantastiche che nelle sue intenzioni altro non avrebbero dovuto essere che mucche, anatre e galline.
Nel frattempo, la signora Elvira annunciò di aver trovato la sostituta del Candela nella vedova Boffanti, un donnone di un metro e settanta con avambracci da manovale che nella vita aveva tirato su una mezza dozzina di figli a suon di sganassoni. La stessa si presentò all’alba per prendere servizio. A quell’ora, l’unica persona in piedi nell’azienda agricola era l’Umberto, l’addetto alla mungitura delle vacche. Appena la vedova si presentò sull’uscio della stalla fra i bovini calò il silenzio. Raggiunto a passo deciso l’Umberto che in quel momento era accovacciato sotto una mucca, gli ordinò di aprirle le porte dell’agriturismo evitandosi la fatica di un saluto.
Poco dopo aver preso possesso della cucina, senza che nessuno si fosse accorto del suo arrivo, la vedova decise che era ora di dare la sveglia al resto della compagnia. Salì le scale e bussò alle camere tanto vigorosamente da sollevare sbuffi di intonaco dagli stipiti delle porte. Come un sonnambulo Pigiamino uscì sul pianerottolo e dopo aver compiuto tre giri intorno alla vedova ritornò in camera e si infilò di nuovo nel letto.
L’arrivo della nuova cuoca registrò un miglioramento degli affari dell’agriturismo. Non così i suoi rapporti con i colleghi che la temevano per le tirate d’orecchie che propinava loro senza distinzione, trattandoli come figli suoi. Furia fu il primo a farne le spese. Rientrando in cucina la vide che cercava di decifrare uno dei suoi foglietti scarabocchiati, girandolo e rigirandolo fra le manone. Quando si avvide della sua presenza la vedova con calma gli fece segno di avvicinarsi. Furia avanzò per una volta timidamente ma appena le fu a tiro questa lo agguantò per un orecchio.“Cosa c’è scritto qui? Eh?” lo sgridò torcendogli il lobo. Da quel giorno miracolosamente gli ordini di Furia presero un aspetto più leggibile.
Anche Pigiamino, una volta assaggiate le sue pettinate, si mostrò decisamente più reattivo. Per sua fortuna a fargli da parafulmine il più delle volte toccò a Furia, il quale filando come un treno dentro e fuori dalla cucina era più esposto alle strigliate della cuoca. Ciò nonostante, essendo l’unico dotato di patente, a Pigiamino toccò di accompagnarla al supermercato per l’acquisto delle provviste di cui l’agriturismo non disponeva. In tali occasioni non poté scampare ai pugni che la vedova gli tirava con le nocche nelle gambe per indicargli la strada.
La permanenza della cuoca all’agriturismo terminò bruscamente una domenica mattina in cui allo stesso si presentò la famiglia del sindaco al completo, in gita fuori porta. La vedova che si era vista riportare in cucina un avanzo di frittata strappò il piatto dalle mani di Furia, raggiunse il tavolo della famiglia, lo ripose davanti al marmocchio inappetente e gli mollò uno scappellotto per convincerlo a finire la colazione. Il licenziamento fu inevitabile e due settimane più tardi l’agriturismo della fonte chiuse definitivamente i battenti.
Una lettura divertente e molto gradevole. Bravo!
Gentilissima. Grazie per la lettura.
Marco
bel racconto umoristico, i miei preferiti! Mi son piaciuti i personaggi di Furia e Pigiamino. Complimenti Marco Predoli