Premio Racconti nella Rete 2010 “La Velia” di Giovanna Vannini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010La Velia era una donna senza tempo, una di quelle donne che puoi trovare nella copia di un famoso quadro, raffigurata da un’artista talentuoso che non avrà mai fama. Uno di quegli innumerevoli volti da dipinto i cui lineamenti ti fermi a osservare nell’attesa fiduciosa che ti restituiscano un’emozione che non arriverà mai. La Velia di antico forse non aveva che il nome. Per il resto si poteva collocarla in una qualsiasi era storica; aspetto e modo di essere le permettevano qualsiasi adattamento temporale. Così io la vedevo e così io l’avevo collocata.
Erano anni belli in cui ancora non potevamo immaginarci che cosa la vita e il futuro avrebbero avuto in serbo per noi. Si stava bene, ricchezze e sacrifici erano così ben bilanciati tra loro che non avremmo potuto desiderare né più né meno da entrambi. La Velia abitava in un luogo speciale non troppo isolato, non troppo affollato; insomma un luogo dove l’anima poteva decidere, a suo piacimento, se condividere tempo con le altre anime o rimanere in ascolto di se stessa. Era proprio brava la Velia ad ascoltarsi. Tanto brava da saper riconoscere quando la sua anima era bella e serena, in grado di dare e ricevere e quando invece era colta da tumulti e angosce così forti da scoraggiarne qualsiasi condivisione. Per questo riusciva sempre a regalare agli altri il meglio di se, perché nei momenti di buio profondo sapeva restarsene solitaria e sola in attesa che la sua anima in tempesta si placasse. La casa dove abitava era quanto di meglio si potesse desiderare. Era la casa della famiglia paterna, una di quelle case che si tramandano di generazione in generazione. Molte famiglie si erano avvicendate tra quelle mura lasciando ognuna di esse un’impronta e un ricordo preciso del proprio passaggio; un soprammobile, un tendaggio ricamato, un’antica cassapanca, persino qualche stanza completamente arredata. L’enorme casa di stanze ne possedeva così tante che la Velia non aveva sentito la necessità di apportare cambiamenti in quelle già arredate. In altre aveva riposto il suo gusto personale, arricchendole di oggetti e mobilio a lei cari. Altre vuote ne sarebbero comunque rimaste dopo il suo passaggio. Diceva la Velia, che in particolari giornate, in cui soffiava una brezza speciale, sembrava che la casa si rianimasse di voci, suoni e odori provenienti dagli avi passati. La stessa brezza, in altri giorni, entrava furtiva nell’immensa cucina, riuscendone intrisa di fragranze e aromi di leccornie un dì cucinate.
La Velia adorava quella casa, ne adorava ogni angolo, ogni anfratto, anche se talvolta la mole di lavoro per tenerla in ordine, dentro e fuori, era così tanta da metterla a dura prova. Ma cos’era tutto questo in confronto alla gioia di poter vivere lì? E dove avrebbe potuto immaginarsi se non in quel luogo? A una stanza di essa era in particolar modo affezionata. Si trovava al piano superiore. Forse per le sue dimensioni e per la posizione rispetto alle altre era la migliore. Il panorama che si poteva ammirare dalla finestra di quella stanza era ciò che la Velia amava di più in assoluto. Alcuni giorni, saliva frettolosamente la scala di pietra che portava al primo piano e come se avesse dimenticato di fare qualcosa d’importante, tant’ era la foga di arrivare, si precipitava in quella e ne spalancava la finestra. Un desiderio urgente di contemplare per l’ennesima volta quel panorama s’impadroniva di lei. Appoggiandosi con le braccia incrociate sulla soglia di pietra, rimirava soddisfatta. Il suo sguardo compiaciuto andava lentissimamente da destra a sinistra, da sinistra a destra come se ogni volta, allo stesso modo, dovesse imprimere nella mente ciò che vedeva.; il poggio di fronte, il colore dei campi, gli olivi sofferenti dopo l’ultima gelata, la strada poderale che portava alla vicina frazione e la chiesetta, un po’ più in là, con il suo campanile e la sua campana, che scandiva ore e mezz’ore di ogni giornata. Mentre compiva tutto questo, era regolarmente assalita da un sentimento di beatitudine. Un’emozione così completa da coinvolgere testa, cuore e pancia. Mi azzarderei quasi a dire che qualche volta, asseconda del suo stato d’animo, la vista di tutto ciò la faceva commuovere, come se presagisse che non sarebbe stato per sempre. Diceva a stessa, che se mai avesse dovuto, per ragioni ancora ignote, lasciare quel luogo, non avrebbe trovato pace fino a che, riaffacciandosi a un’altra finestra, quel senso di beatitudine si fosse impadronito di lei.
La Velia era questo e forse tanto ancora o meno di questo tanto. Io continuavo a vederla lì, dove l’avevo collocata, vicina e distante, solitaria ma mai sola, triste e serena nell’arco di un solo giorno. L’avrei lasciata in quel luogo per sempre ma non erano più “gli anni belli in cui non potevamo immaginarci che cosa la vita e il futuro avrebbero avuto in serbo per noi.” Non so se ha trovato un nuovo paesaggio da una nuova finestra o se forse lo sta ancora cercando. So soltanto che un giorno dovette lasciare quello vecchio. Fino ad oggi questo solo io so.