Premio Racconti nella Rete 2018 “Storia di Ti” di Sonia Manfrini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Correvo a più non posso, avevo la smania di raggiungere la parete verde che per uno strano effetto ottico cambiava forma. Quando stavo per raggiungerla, si spianava sotto di me e il cuore quasi mi scoppiava; eppure, il dondolio del fantastico gioco dato dal cambio del piano d’inclinazione e lo spostamento del baricentro, faceva sì che aumentassi sempre più la velocità della corsa, drogava lo stimolo fisico annullando il balenio del piccolo cervello cha ho in dote. La galvanizzazione di quella volata a perdifiato mi donava il giusto riposo; la vita, per quasi tutto il tempo dei miei ricordi, era fatta di questo. Ero certa che non avrei mai raggiunto la parete verde che si stagliava davanti a me: non che me ne importasse.
Accadeva spesso che mi nascondessi in ogni angolo della tana; un giorno, mi strizzai così forte tra una sbarra e l’altra che fuoriuscii trovandomi in uno spazio tanto grande da non distinguerne i contorni. Lanciata in una folle corsa mi arrampicai su un cilindro metallico e al termine della scalata, raggiunta una superficie scura e morbida mi accoccolai. Stremata e in un certo senso soddisfatta, feci pipì: intuii che si trattava della mia prima vittoria.
Fu la sensazione di un lampo e dopo la dormita che seguì cercai rifugio in un pertugio per nascondermi ma fui catturata e rinchiusa in una teca di plastica trasparente, piccola perfino se rapportata alle mie ridotte dimensioni. Neppure in quello spazio così limitato si esaurì lo spasmodico istinto alla frenesia vitale. Le mie quattro zampe balzellavano rapidamente alternate, susseguendosi in rapidissimi passi, incapaci di condurmi in altro luogo se non quello che si presentava ciclicamente uguale a se stesso.
Seppi poi che la minuscola prigione fu l’acquario di un pesce combattente, di quelli che vanno lasciati soli per tutta la vita, a causa del loro carattere bellicoso. Questa storia la intesi più avanti quando conobbi il pesce in questione, ormai vecchio e trasferito in un altro acquario di medie dimensioni; raramente facevamo viaggi con le nostre gabbie accostate.
La punizione mi collocava nell’angusta cella ma la visione tradiva le mie pupille conformi a capocchie di spillo allargando l’orizzonte sull’ambiente luminoso circostante, al di fuori della scatola che mi conteneva. Non posso riferire del tempo che rimasi contenuta nella teca ma quando ne uscii feci ritorno nella gabbia che conoscevo, già casa nei miei pensieri.
Una graticola di fitti fili sottili, calava la luminosità che filtrava dall’esterno; provai un immediato piacere nello spalancare gli occhi chiarissimi di cavia albina. La rete metallica avvolgeva come ghirlanda medioevale la mia gabbia e non mi permise più di fuoriuscirne.
La liberazione dalla teca determinò l’inizio della mia esistenza nel macrocosmo che stava all’esterno della gabbia.
Presenze già note di un passato che ritenni atavico entrarono in contatto con me, riempivano la ciotola con variopinti semini secchi e foglioline fresche; mangiavo con avidità, affidandomi alla sorte e sopraffatta ancora una volta dalla mia natura. Vicino alla ciotola comparve una sorta di tana con diverse aperture laterali che resi più accogliente portando all’interno pezzi di morbida carta che strappavo e riducevo in striscioline con lavoro certosino; la rinnovavo di tanto in tanto con scorte che mi fornivano dall’esterno.
Fu sempre l’istinto a governare il mio modo d’essere ma in un momento di luce bassa, dopo che fui sazia della razione di cibo, mi fecero uscire dalla gabbia; ben inteso, lo feci di mia spontanea volontà e una mano autorevole prese a strofinarmi la radice del naso e le tempie: fu l’estasi.
Durante quelle serate afose cominciai a piegare l’istinto fatto di paura placando l’accelerazione del battito del cuore con le carezze calde. Presi a partecipare a rappresentazioni ignote, persuasa al comportamento innaturale da strofinamenti ipnotici, ben presto mi accorsi che il bollore dei giorni diminuiva ma i contatti mi scaldavano altrettanto, i gridolini dei miei accarezzatori mi divennero consueti e provai una specie di condiscendenza nei loro confronti.
Era chiara l’inadeguatezza di quegli scambi ma l’esistenza solitaria di unico esemplare della mia specie dava adito a qualsiasi forzatura. Non ho mai saputo chi fossero i miei genitori e neppure di me stessa avevo una chiara percezione identitaria ma adattavo, con un minimo discernimento, il mio comportamento. Mi espressi con la facoltà dell’immaginazione di un pensiero; fu allora che il germe del cambiamento decise per me.
Le scorribande sulla ruota e le passeggiate fuori dalla gabbia si susseguivano nel tempo ma a un tratto cominciai a avvertire un fastidioso prurito sotto le orecchie, in breve il pelo raso e bianco latte che mi ricopriva, cadde. Si formò un collarino rosa carne e il prurito mi fece impazzire, conobbi l’istinto suicida di grattarmi fino a sanguinare. Avevo abbandonato già da un po’ le corse a perdifiato, mi sentivo fiacca e rintanarmi nella casetta che mi accoglieva con l’imbottitura di striscioline di carta divenne insopportabile.
Avevo bisogno del calore che mi passavano nel corpo quando mi toccavano, sarei rimasta per sempre immobile nel nido tiepido delle loro mani. Feci diversi viaggi dentro scatole scure con piccoli buchi che mi permettevano di guardare attraverso e scoprire scenari sconosciuti; mi fecero alcuni trattamenti al collo che causarono anche maggiore prurito. Mi grattavo senza sosta procurandomi piaghe profonde. Provai sollievo momentaneo quando dopo un dolore acuto di pungiglione, mi abbandonai all’oblio; il risveglio rinvigorì l’istinto suicida e mi conficcai le unghie nelle ferite.
Tornavo alla gabbia, dove mi riposavo accoccolandomi nella ciotola dalla quale spazzavo fuori semi e foglioline, lo spazio tondeggiante mi conteneva in misura e il calore del corpo si dissipava meno rapidamente; quando mi facevano uscire, stavo raggomitolata nelle loro mani assorbendo calore e l’innaturale affidamento mi parve l’unica verità che imparai nella mia vita di relazione.
La ciotola fu l’ultimo giaciglio che ricordo, ci stavo dentro con l’intenzione di non uscirne mai più: unico riparo. Ottundevo ogni stimolo, abbandonavo la frenesia del movimento e le caratteristiche della mia specie. Assimilavo me stessa a compagnie di razze ignote e a tratti appartenevo già a un progetto senza definizioni, se non quella della commistione tra regno animale e vegetale e sintomi di vita aleggianti. Imparavo la resa mentre la tachicardia del cuore diminuiva concedendomi il tempo dilatato del respiro senza affanno. Forse furono solo pensieri che sognai durante l’anestesia e con quelli mi feci coraggio. La parete verde che mi fu di fronte per l’intera vita non si deformava più, immobile ne osservavo ogni sezione con fine attenzione: non rivelava segreti.
L’ultimo viaggio nella scatola con i buchi fu affollato di tutti quelli conosciuti; passai di mano in mano scaldata per benino, del dopo non ricordo.
Fantastico. All’inizio, per colpa della mia iniziale e carente concentrazione, avevo pensato a un racconto ironico visto con gli occhi di un bambino piccolo che ancora non riesce a raggiungere ciò che lo incurioscisce. Poi a poco a poco ho intravisto la dura realtà. Ma non voglio anticipare altro, ti faccio solo i miei complimenti.
Veramente bello e inconsueto , un punto di vista unico. Mi ha colpito il contrasto tra l’ insignificante piccolezza di questa esistenza e la prosa ricca ed elegante che ne descrive il trascorrere. Un racconto straordinariamente avvincente e insieme fatto di nulla o quasi, splendido esercizio di stile che non manca di trasmettere emozioni che possono essere traslate a esseri “superiori”. Complimenti Sonia!
Che emozione, siete i miei primi commenti! Vi ringrazio per l’attenzione che mi avete concesso e per la generosità
Che bel racconto! è sempre interessante vedere il mondo attraverso un paio di occhi diversi, sbirciarlo attraverso uno sguardo altro, inusuale. Tu hai fatto questo e lo hai fatto benissimo, con uno stile impeccabile. Complimenti!
Che forza Sonia! Una delle tue bravure è stata anche quella di far capire poco a poco cosa/chi fosse la creatura che condivideva con noi lettori il suo punto di vista. Mi sono sentita piccola dentro la gabbia e ho provato il dolore di questo essere, inerme di fronte ad un’esistenza segnata e decisa da mani altrui. Complimenti!
Bel racconto Sonia Manfrini, che dire, vale la pena leggerlo!
Ringrazio le persone che hanno commentato e quelle che hanno letto. Ognuno di voi ha colto qualcosa nel mio racconto che volevo comunicare, il mio intento principale è proprio quello.