Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Quella casa dalle bianche mura” di Dino Ereddia

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Al primo scatolone da portare in casa ne seguirono degli altri, più o meno tutti della stessa grandezza e i più pesanti erano di sicuro quelli con all’interno i libri; intere edizioni di enciclopedie e poi qualche classico della letteratura, vecchia edizione, oltre ad un modesto numero di best seller e libri di nuova pubblicazione.

Mio padre ritrovò quella casa, dopo averla lasciata all’età di 16 anni, tale e quale. Poche cose, diceva, erano effettivamente cambiate; una di queste sicuramente le pareti, interamente bianche, senza alcun quadro o piccolo segno di umidità.

E a dire la verità anch’io, che mai avevo visto prima quella casa, notai che c’era una differenza tra le mura attuali e quelle che mi si mostravano nelle descrizioni di mio padre con quei colori, uno diverso per ogni stanza. Fin troppo angosciante per un ragazzo come me, nato e cresciuto nella più grigia delle città italiane, Milano, vedere tutto quel bianco. Pensai subito che mio padre avrebbe provveduto a dare un po’ di colore a quelle quattro mura. In realtà non lo fece mai abituandosi, anzi, a quella purezza emanata da ogni angolo di quella casa.

Sistemate un po’ di cose e dopo aver adeguato alle più semplici condizioni igienico-sanitarie la mia camera, almeno da potervi trascorrere la notte senza rigirarmi tra la polvere, mio padre mi invitò ad uscire per scoprire “la città più bella del mondo”.

Da parte mia non vi fu un’eccessiva curiosità, per via anche delle idee che, da buon nordico, vantavo su quella città dell’estremo sud della Sicilia che tutto potevo immaginare fuorché come la più bella del mondo; motivo per cui rimandai la mia escursione al giorno successivo.

Ho cercato, invano, di dimenticare quella che fu la mia prima notte in quella casa. Ai miei occhi s’apriva un’immensa oscurità e alle orecchie non arrivava alcun suono se non il fruscio delle fronde di un albero vicino casa e il fastidiosissimo canto notturno di una civetta. Ben presto, però, quell’angosciante oscurità sarebbe divenuta serena culla dei miei sogni e quel fruscio accompagnato dal verso della civetta la mia ninna nanna di ogni sera.

Le mattine seguenti, prima che al liceo iniziassero le lezioni del nuovo anno, furono dedicate interamente alla visita, alla scoperta, alla curiosità, inaspettatamente crescente, per ogni angolo di quella città. Fu così che quelle idee che consideravo certezze si rivelarono in realtà solo pregiudizi.

Avevo cominciato a conoscere tutti i nostri vicini, ad entrare, poco alla volta, negli usi e costumi indubbiamente strani o quanto meno inconsueti di quella gente. All’inizio era soprattutto la vita di quartiere a lasciarmi perplesso. Quella condivisione di ogni cosa, anche degli odori o dei piccoli problemi di ogni giorno e quella riservatezza nel tacere ciò che dalle case altrui, per delle mura spesso troppo sottili, si carpiva. Mi parve l’esempio più alto di civiltà e proprio in questo periodo della mia vita capì veramente cosa volesse dire comunità, il vivere bene a stretto contatto con altre persone.

Era passato circa un mese dal trasferimento da quella lontana Milano, custodita ancora in un angolo del mio cuore, quando venne in classe, invitandomi a seguirlo fuori, il vicepreside del liceo. Mio padre aveva avuto un incidente sul lavoro; ecco cosa doveva comunicarmi, urgentemente, il vicepreside.

Mi prese allora un momento di straniamento, solo in una terra da poco conosciuta. Solo, o meglio, mi restava quella nonna che, seppur nei suoi 70 anni, viveva con un vigore degno d’una ventenne. Incarnava appieno, penso, l’immagine di quella donna meridionale dalla pelle dura, temprata dalle fatiche, dagli stenti, dalla forza di tutta una vita.

Tornando a mio padre, ero andato allora in ospedale correndo alla ricerca del reparto giusto o di qualcuno che mi desse delle informazioni sulle sue condizioni. Mio padre era entrato in coma.

Non saprei ora descrivervi gli eventi che portarono a quell’incidente o le dinamiche del medesimo. Ricordo solo che, notti dopo, immaginai nei miei sogni, più e più volte, l’accaduto. Nulla di più.

I ricordi penso siano stati rimossi dallo stress per quella vita che, per mesi, mi vide sbattuto da un ospedale all’altro. Qualsiasi discorso sulle carenze della sanità siciliana andrebbe accantonato se considerassi quella disponibilità e quella premura che ritrovai in ognuna delle persone al lavoro nei vari presidi ospedalieri.

Dovetti ben presto smettere di occuparmi di mio padre sia perché molto poco potevo, viste le sue condizioni, sia perché quello era anche l’anno della maturità e non potevo permettermi di perdere altri mesi di lezione.

Un giorno conobbi una persona speciale, stravagante, diversa; sicuramente la persona più anziana mai conosciuta prima e con cui avessi parlato fino ad allora. Mi parve all’impatto un immortale, uno di quei vecchi signori che hanno dalla loro parte l’esperienza, che hanno vissuto tutt’un secolo e che non sono più scalfiti dal tempo fugace perché loro, il tempo, hanno imparato a dominarlo. Era un vicino che non avevo notato prima, vuoi per la mancanza d’attenzione o perché, come spesso accade, la vita tende a nasconderti alcune cose per poi mostrartele a suo piacimento, magari troppo tardi. Nelle discussioni che, dopo il fisiologico periodo di imbarazzo in cui si conosce una nuova persona, intrattenevo, quasi giornalmente, con lui, si toccavano i temi più svariati, dalla politica alla televisione, dall’agricoltura alle donne.

Era un giorno di primavera, il Martedì della Settimana Santa se non sbaglio, quando salimmo, pur tra mille fatiche, sul colle, su cui si ergeva maestosa una splendida chiesa, che dominava la città.

Come nel brano evangelico in cui Satana tentò Gesù Cristo offrendogli, dalla cima di un monte altissimo, tutti i regni del mondo se solo il Figlio di Dio si fosse prostrato al Male, così, mi disse il mio vecchio amico, proposta simile fu fatta successivamente dal Diavolo all’Uomo; quest’ultimo scelse ovviamente di prostrarsi al Male pur di dominare il mondo. Alcuni di quegli uomini tenevano e tuttora tengono incatenato il popolo Siciliano facendo dell’isola una terra di stragi e di sangue, mi spiegò. Mi persi poi, tralasciando di ascoltare il seguito del discorso, guardando a valle la processione del Crocifisso e tutta quella gente che si stringeva attorno ad una statua che, in fondo, era solo il simbolo di un desiderio comune di rinascita, di un mondo migliore.

Il viso di quel Crocifisso, di nuovo incontrato in città, fu l’ultima immagine che mi rimase impressa di quel momento della mia vita.

I giorni volavano via velocemente, e così i mesi. Finiti gli esami, la notizia migliore fu sicuramente quella del risveglio di mio padre dal coma. I miglioramenti furono veloci ma, necessitando di cure specialistiche, decidemmo di tornare a Milano. Io sarei andato ad abitare dagli zii e mio padre, tranquillamente, avrebbe potuto dedicare tutto il tempo necessario alle sue terapie.

Trascorsi, dunque, solo un anno in Sicilia; giusto il tempo di innamorarmi di quella terra e della sua gente.

L’ultima notte, prima di partire, dormì poco o niente. Ripensai al tempo passato e a tutto quello che era successo. In quelle pareti bianche, dall’immutata purezza dei primi giorni, incisi allora, col pensiero, i volti di tutti gli uomini e le donne incontrate in quell’anno. E così, la signora della casa in fondo alla strada che sempre mi offriva i suoi biscotti di mandorla o la zia del quartiere con la sua pasta coi legumi o la nonna che filava lenzuola infinite con una lacrimuccia, quasi invisibile ma sempre lì nell’occhio destro, per il figlio lontano o il mio vecchio, saggio, amico, rimasero custoditi nella casa dalle bianche mura sicuro che un giorno, qualora fossi tornato, li avrei ritrovati ancora lì, a filare, a cucinare, a riflettere sul mondo, perché in Sicilia, è proprio vero, il tempo non passa mai.

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2 commenti »

  1. Ho iniziato qualche anno fa a dedicarmi, seriamente, alla scrittura anche se questa è stata, da sempre, legata alla mia vita. La scrittura mi permette di trasmettere e di condividere col “mondo” gli aspetti più nascosti della mia personalità. Poi, un racconto può piacere come non può piacere; la scrittura è un pò come uno stile di vita: è filosofia, religione, indagine psicologica e in quanto tale deve, necessariamente, essere intima e personale. Nella speranza che vi possa piacere il mio racconto, bè, torno a scrivere!

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