Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Provvisorio” di Raffaele Montesano

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Avrebbe sicuramente fatto l’insegnante di matematica, se le cose fossero andate diversamente.
Non era soltanto la materia in cui aveva ottenuto i voti migliori, non poteva essere quello l’aspetto rilevante. Apparteneva ad una generazione obbligata a saper far bene i conti, la prima in grado di poter generare figli ingegneri, mantenerli agli studi in città con quello che la terra dava e la bocca centellinava. Avere un figlio all’università significava dover togliere ancora qualcosa al dominio del necessario per inserirlo nel superfluo. Dall’altro lato, dal punto di vista del figlio, non si poteva far altro che dedicarsi ai buoni voti per non sentire il magone mangiarsi lo stomaco.
Ebbe la fortuna di vivere la matematica come una passione, non esattamente una ragione di vita, ma sicuramente qualcosa che gli impedisse di sentire eccessiva fatica agli occhi nelle lunghe ore di studio.
Sì, avrebbe fatto l’insegnante e accontentato comunque i suoi genitori che, più che una mansione specifica, desideravano per lui la possibilità di lavorare in giacca, seduto dietro una scrivania, a riparo dal sole.
Li avrebbe accontentati.
Ripensava spesso all’ultimo anno di liceo, agli amici che presto avrebbe dovuto lasciare, probabilmente per sempre, e all’unico vero amore della sua vita, Erica Giurizzani, sua compagna di classe che aveva velatamente corteggiato per quattro anni senza mai decidersi a dichiararsi apertamente.
Rimuginava ancora su quella storia, nonostante fossero passati quasi quarant’anni e i suoi genitori erano morti col sorriso sulle labbra sapendo il figlio collocato esattamente dove lo avevano sempre sognato; anche se non era mai stato perfettamente chiaro a nessuno dei due in cosa consisteva precisamente il suo lavoro. Lui gliel’aveva spiegato molte volte, durante i pranzi a casa loro, quando veniva ricevuto quasi con la deferenza di un ospite piuttosto che come un figlio, ma il padre aveva rinunciato a capirci qualcosa fin dall’inizio e alla chiarezza della dinamica preferiva la concretezza degli effetti. Al figlio non mancavano i soldi, questo contava.
La madre si adeguava alle opinioni del marito, affidandosi alla sua visione delle cose del mondo; era sempre stato così per lei. Ma alla fine di ogni discorso, quando ormai ogni parola era stata detta e i pensieri si appesantivano per il cibo e il vino, lavando i piatti sotto l’acqua tiepida, con l’espressione del tutto personale che riusciva ad assumere – una sorta di tristezza serena, l’avrebbe descritta il figlio – diceva quello che veramente pensava, e cioè che sì, i soldi andavano bene, ma lei avrebbe preferito per lui un matrimonio diverso e una nuora meno distante, per nascita e per carattere. Si consolava con i due nipoti maschi di cui parlava come se fossero un buon ricavo da un pessimo affare.
Lui si era immaginato molte volte Erica Giurizzani alle prese con sua madre, mentre con discrezione si allontanava dalla tavola per rassettare la cucina e si aspettava che la nuora la seguisse per dimostrarle quanto bene avesse fatto il figlio a sceglierla come compagna.
Erano questi pensieri ad avergli ribadito, nel corso degli anni, che l’amore per lei si stava mantenendo vivo, anche se lasciato in disparte, anestetizzato dai mille avvenimenti piccoli e grandi della vita.
In quel momento, a quarant’anni dalla nascita di quell’amore e a quasi sessant’anni di vita, erano rimasti gli unici pensieri che lui faceva a proposito di Erica. Da circa quindici anni non pensava a lei in termini erotici. Il motivo era che la incontrava raramente e sempre in situazioni così fugaci da non permettergli di fare una seria analisi del cambiamenti del suo fisico. Nella sua immaginazione non era riuscito a sostituire il corpo della ragazza con quello della donna, di conseguenza non era più in grado di desiderarla carnalmente perché gli ricordava troppo una volta che suo figlio portò la fidanzata a cena e lui notò più di una somiglianza con il suo antico amore.
Ogni tanto, in un passaggio di qualche romanzo, – il suo lavoro, che non riusciva a spiegare bene ai genitori, era quello di romanziere; scrittore di gialli, per la precisione – inseriva un personaggio che vagamente gli ricordava lei.
Era questo un aspetto fatto notare anche da qualche suo lettore. Una volta, alla presentazione di un suo libro, vide tra il pubblico un braccio alzarsi vigoroso, notò le unghie dallo smalto rosso, gli sembrarono enormi. Pensava di dover rispondere ad una delle solite domande sulla scrittura, sull’ispirazione o cose simili. Invece la proprietaria del braccio, un donnone proporzionato alle unghie che portava, gli parò davanti alcuni suoi volumi sottolineati in più punti. Glieli mostrò come fossero prove ad un processo e gli chiese conto di quelle descrizioni ricorrenti che, a suo dire, erano riferite tutte alla medesima donna.
Lui si sforzò di rispondere con tono allegro, cercando sul viso un sorriso un po’ imbarazzato. Fece in modo da lasciar intendere che l’osservazione della lettrice era del tutto casuale, superflua, puerile. Applicava la sua capacità di apparire snob solo di fronte a domande che in qualche modo lo avrebbero costretto a mettersi a nudo.
Era quello il motivo principale per cui scriveva esclusivamente gialli: gli consentivano di non scoprirsi, di non mettere in gioco altro che la sua abilità di tessere trame avvincenti, mai i suoi sentimenti.
Ecco perché era convinto che, se la sua vita avesse preso un’altra strada, sarebbe stato un buon insegnante di matematica. Quello che scriveva c’entrava con l’arte allo stesso modo che il risolvere una complicata equazione a più incognite. Era una questione di ragionamento, più che di sensibilità artistica.
Al suo agente letterario tutto questo andava più che bene. Considerava come maggior aspirazione della vita il poter gestire un’artista che non ragionava con i criteri dell’arte ma con quelli della matematica. Da lui non ci si potevano aspettare colpi di testa, crisi creative. Era costantemente una questione di fare due più due.
Scrivere e riscrivere forsennatamente sempre lo stesso romanzo con parole diverse, questo il giudizio di qualche critico.
Chissà che cosa pensava Erica Giurizzani dei suoi romanzi, chissà se ne aveva mai letto uno. Non l’aveva mai vista a nessuna delle sue presentazioni e in quei quattro o cinque incontri in dieci anni non c’era stato che il tempo di un ciao detto al volo, in preda ad una frenesia che forse non era del tutto reale bensì voluta, per evitare l’imbarazzo del dover rivangare i tempi andati.
Gli piaceva dire che per lei aveva consumato il cuore, che le aveva dedicato tante energie, troppe, e poi non gli era rimasto molto se non un pacato affetto che, in qualche modo, era riuscito a distribuire tutto sommato bene in trent’anni di matrimonio con sua moglie.

Aveva bisogno di consegnare qualcosa entro aprile. <> gli aveva detto il suo agente, dando alla parola “cazzo” un tono di incoraggiamento.
Lui aveva fatto come sempre: aveva comprato per una settimana i principali quotidiani e si era dedicato alla lettura della cronaca nera, selezionato quattro o cinque articoli che riportavano una storia interessante e su quella aveva iniziato a lavorare.
Si era soffermato sulla vicenda di una ragazza poco più che diciottenne, uccisa, forse per gelosia, dal suo fidanzato.
Appuntò sul suo taccuino “Lei – Erica”.
Aveva bisogno di qualcosa, una scintilla per trovare la voglia di scrivere quel romanzo che – questo lo avrebbe presto annunciato in pubblico – sarebbe stato l’ultimo della sua carriera. Decise di dare il nome del suo vecchio amore alla vittima del suo giallo.
Sulla riga appena sotto scrisse “Lui – Paolo”.
Era il nome che usava quando voleva inserire un suo alter ego all’interno della storia. Dunque, sarebbe stato lui ad uccidere Erica. L’ingenua perversione di questo pensiero lo fece sorridere.
Cercò ancora tra le disgrazie altrui e si accorse che Lui – Paolo era morto a sua volta. Suicidio o, forse, omicidio. Su quel “forse” avrebbe costruito la sua nuova ed ultima fatica letteraria.
Aggiunse al taccuino “Chi ha ucciso Lui – Paolo?”, incorniciò la domanda in un rettangolo, su uno dei lati disegnò una freccia alla fine della quale scrisse: “Terzo – Assassino”.
Terzo poteva essere in stretti rapporti con la prima vittima, Lei – Erica. Questi rapporti non dovevano per forza essere usuali, si rischiava di cadere nel banale.
C’erano migliaia di storie fatte di padri che ammazzavano gli assassini delle figlie. Terzo non doveva essere un familiare, magari un amante oppure un corteggiatore. Se lo immaginava come un’ombra dietro i vetri di un’automobile che spiava Lei e Lui passeggiare per strada. Lui forse intuisce qualcosa, indaga, s’ingelosisce e perde la testa. Uccide Lei e Terzo si vendica. Semplice e abbastanza d’effetto.
Qualcosa in questa trama però non lo convinceva. Fosse stata un’equazione, pensava, sarebbe di semplice risoluzione. Una pagina di calcoli al massimo. Bisognava inserire una nuova incognita per rendere il gioco più articolato.
Fece partire un’altra freccia dal rettangolo con la domanda che culminava nella parola “Quarto”. Era lui il vero assassino da svelare solo nelle ultime pagine.
Improvvisamente ebbe l’esatta percezione di cosa quel libro sarebbe stato: un ottimo esercizio di stile, ordinario più che banale, senza particolari novità se non la forte personalizzazione degli stereotipi di genere. Non gli rimaneva che scriverlo.
Accese il vecchio Acer che aveva nello studio, comprato dieci anni prima e mai più cambiato nonostante il figlio gli avesse più volte spiegato che dieci anni in campo informatico erano come cinquant’anni nel mondo reale. Stava scrivendo su una macchina del secolo precedente.
Non gli importava. A lui interessava che nello schermo comparissero esattamente le stesse lettere digitate sulla tastiera, che quanto scritto rimanesse al sicuro senza cancellarsi per tutte le settimane che gli occorrevano per completare il lavoro e mandarlo via mail al suo agente che lo avrebbe letto e, se giudicato buono, venduto al miglior offerente. Al rango di buono, ovviamente, si accedeva tramite l’ostica qualità dell’essere vendibile.
Aprì una pagina del suo programma di scrittura, centrò il cursore sulla prima riga e scrisse “Provvisorio”.
I titoli non erano il suo forte.
Era molto più bravo con gli incipit, alcuni erano diventati più famosi del libro stesso e gli erano valsi qualche premio. Quella volta però non aveva buone idee, si sentiva come svuotato.
Quando si trovava in questo stato d’animo evitava accuratamente di scrivere, in genere passeggiava per la stanza parlottando tra sé e sé, discutendo della trama fino a che non fosse arrivata una sensazione più propizia.
Concepì particolari inutili, riempitivi: la marca di sigarette che Terzo fumava, il colore preferito di Lei, il film che Lui guardava almeno una volta ogni sei mesi, quello che Quarto era solito mangiare prima di andare a dormire ogni sera. Erano quel genere di dettagli che appassionavano il lettore, lo facevano sentire all’interno della storia, vicinissimo ai personaggi.
Si dedicò poi alla descrizione di Lei – Erica. Spense allora l’emisfero destro, quello della fantasia, per raccogliere tutte le energie nella zona dei ricordi.
Lei era bassa, o almeno parlava di sé in questi termini. Non aveva mai avuto un’opinione precisa sulla questione. Semplicemente, non ci aveva mai fatto caso. Gli piaceva però quando lei si lamentava dichiarando di invidiare la sua altezza. Era una delle cose che lo facevano stare bene.
Aveva capelli rosso scuro. Fosse dipeso da lui, sarebbero stati neri. Ma Lei – Erica si arrabbiava quando qualcuno definiva i suoi capelli come neri.
<> protestava mettendone una ciocca in controluce, ed effettivamente un qualche riflesso rossastro s’intravvedeva dal nero generale.
Descrisse il colore degli occhi con le stesse parole che lei, un numero indefinito di molti-anni prima, aveva usato per definirli: “color ciliegia molto matura”.
Il seno ampio, abbondante, che nelle sue fantasie di ragazzo doveva essere infinito e morbido come la trapunta in cui si appallottolava nei pomeriggi d’inverno passati a masturbarsi e morire di spasimi d’amore per lei.
Mentre rievocò quel ricordo, a quasi sessant’anni e un giusto numero di donne avute per le mani, poté finalmente fare una valutazione esatta di quanto concretamente fosse grande il seno di Lei – Erica. Tornò per un momento a desiderarla, poi si ricordò della donna, dei saluti fugaci e tutto tornò come prima. Inserì tra i suoi propositi per il futuro quello di far caso senza andar troppo per il sottile, al prossimo incontro, a come si fossero conservate le sue tette. Si sarebbe dimenticato di quell’idea, non perché puerile ma perché sarebbero potuti passare anche anni fino ad un nuovo incontro con Lei.
Rivangare per l’ennesima volta quel passato gli regalò mezza pagina che ad una prima rilettura giudicò come buona, l’avrebbe poi forse limata un po’, senza rimuginarci troppo sopra. Aveva passato già da tempo la fase in cui l’editore esigeva da lui testi perfetti, curati nella forma. Ora richiedeva solo testi, senza aggettivi. Il resto era lavoro da stagista.
Si dedicò poi alla descrizione di Lui – Paolo. Quando ripensava al se stesso di quegli anni, la prima cosa che gli veniva in mente era la lotta continua contro il suo stesso corpo, contro i muscoli che non riuscivano per qualche motivo a coordinarsi bene con il cervello. Cercò allora una bella frase per descrivere la sua goffaggine.
Scrisse: “Era come un ballerino con in testa una musica diversa rispetto a quella suonata dall’orchestra.”
Decise che sarebbe diventata l’incipit del libro.
Era riuscito a trovare una buona entrata ad effetto, di quelle che, insieme al titolo e alla copertina, facevano vendere i libri.
Ritenne che con quella prima frase fosse possibile “campare di rendita” per almeno cinque o sei periodi. Completò dunque la descrizione di Lui – Paolo senza altri virtuosismi, di mestiere. Ne venne fuori un quasi-post-adolescente del tutto ordinario, senza particolari caratteristiche che lo differenziassero dagli altri.
Quando vide la prima pagina quasi completa, pensò che sarebbe stata pressappoco la stessa della bozza di stampa, quella che avrebbero poi letto tutti.
Si chiese se anche Erica Giurizzani l’avrebbe letta, ma era una domanda che si poneva spesso. Quella volta però riuscì ad essere più preciso, si domandò cosa ne avrebbe pensato lei del ragazzo descritto nell’incipit, se le avesse ricordato qualcuno – magari lui – oppure lo avrebbe ignorato, come spesso si fa con le descrizioni, per concentrarsi sullo sviluppo della trama.
Anche lui era uno che, da lettore, non dava importanza alle descrizioni. Le leggeva mangiandosi le parole, solo ogni tanto notando qua e là qualche idea da poter personalizzare. Eppure da scrittore erano diventate una sua caratteristica. Metaforicamente assomigliavano a molte cose della sua vita, diceva, erano dei semplici riempitivi ma esteticamente ben fatti.
Ogni volta che faceva questa considerazione non poteva far a meno di perdersi in pensieri ingarbugliati che riguardavano la sua famiglia. I suoi due figli, di cui parlava con espressioni del tipo “il nostro è un rapporto abbastanza originale per via di…”, diventavano man mano che gli anni passavano sempre più sconosciuti. Riusci a tener sotto controllo ogni minimo aspetto del loro carattere soltanto nei primissimi anni d’età, quando ancora la loro vita era totalmente domestica e dipendente dai genitori. Iniziò a perderli di vista già ai tempi della scuola. Vedeva i loro compagni come microbi corruttori, come piccoli demoni che con la loro compagnia a poco a poco glieli stavano portando via.
In verità era stato lui a lasciarli andare, a permettere che il loro carattere sviluppasse aspetti che avrebbe poi per sempre ignorato. Scusava se stesso per questo, considerando che due possono essere i traumi infantili: la troppa oppressione dei genitori o il totale abbandono. Riteneva di essersi barcamenato abbastanza bene, lasciandogli “corda lunga”, come diceva spesso suo padre, per intervenire solo quando strettamente necessario. Era più una scusa che una reale situazione, lo sapeva bene. Si era rassegnato da tempo nell’apprendere di essere pervaso da una sorta di egoismo gentile, che qualcuno chiamava disinteresse nei confronti di qualsiasi cosa, ma in realtà era solo voglia di curare quelle migliaia di micro-ferite all’anima che negli anni si era procurato nei modi più disparati, curarle con altrettante parole da impacchettare in romanzi, qualcuno buono altri molto meno. Coltivare un semi-assopito amore per Erica Giurizzani, ma più come fosse un hobby piuttosto che un sentimento.

Lavorava ai suoi libri per otto ore al giorno, come fosse un impiegato. Scriveva in camicia, pantaloni di velluto e mocassini. Sopperiva così alla sua esigenza di sentirsi addosso una divisa.
Dopo i tre mesi bastevoli per finire un romanzo, però, smetteva completamente di pensarci e si dedicava ad altro. In genere faceva un piccolo viaggio con la moglie. Nel salotto avevano foto di loro due ad Atene, con alle spalle l’acropoli, a Londra e a Parigi. Erano quelli i momenti in cui il loro matrimonio si mostrava per quello che era, pacato ed incrollabile.
Si erano conosciuti alla Facoltà di Lettere e Filosofia che lei aveva portato a termine con il massimo dei voti e lui aveva “brillantemente lasciato a metà”, come spesso ripeteva, per via di quel suo primo romanzo pubblicato dalla Mondadori al numero 4273 della collana dei gialli.
Gli era costato più fatica il dover combattere con il padre per scegliere un indirizzo di studi che differiva dalle aspettative familiari che riuscire a farsi leggere e pubblicare da un grande editore.
Era successo tutto quindici giorni prima degli esami di maturità. Aveva già da tempo deciso che il suo avvenire sarebbe stato tra i numeri, a cancellare e riscrivere formule su una lavagna. Una sera, però, per riposarsi dallo studio si era messo a scrivere.
Non riuscì mai a spiegarsi da dove veniva quell’ispirazione che lo portava a compiere un’attività per lui del tutto inusuale come scrivere una storia di fantasia. Compilò tre fogli protocollo da quattro facciate. Dodici pagine fitte di scrittura sottile non per timidezza ma per paura che la carta finisse prima della storia. Trascrisse in bella con una vecchia Olivetti comprata più per questioni estetiche che funzionali. Quando vide il suo lavoro terminato, immortalato con l’inchiostro tipografico sul foglio bianco e i margini perfettamente allineati proprio come quelli di un libro, provò una gioia pari solo a quella di una volta in cui Erica Giurizzani gli diede la mano una notte di Natale, a messa durante il Padre Nostro, e lui ne sentì la temperatura tiepida e l’immensa delicatezza.
Cambiò il suo futuro in una notte, fu la prima ed unica volta della sua vita.
L’università fu un episodio breve, fatto di corsi seguiti male ed esami dati controvoglia. Fu la sua futura moglie a consigliargli di lasciar perdere per dedicarsi alla scrittura.
<> gli disse, <>.
Lui seguì il consiglio dedicando un semestre ad una scrittura forsennata che alternava alla compagnia di lei. A metà dell’opera iniziò a crederci davvero, fino al punto da negarsi l’amore fisico per non togliere energie utili al lavoro. In quel periodo non era un ragazzo ma una specie di pila a carica temporanea, da saper amministrare per completare l’impresa.
Lei lo assecondò, credeva in lui pur non avendo mai letto una riga della sua scrittura. Era quella una forma di devozione ereditata da qualche membro femminile della sua famiglia che in passato aveva eccelso nell’essere donna-moglie-madre-del-sud.
Questa suo modo di essere si abbinava bene all’egoismo gentile di lui. Erano perfettamente complementari, con qualche perdita da parte di lei sul fronte dell’assolutezza dell’amore reciproco. Lacuna qualche volta contemplata da entrambe ma mai affrontata apertamente. Lei la annoverava tra le cose non perfette della vita e che tutto sommato poteva anche farsi andare bene. Lui voleva\doveva solo scrivere. Tutto il resto era accessorio.
Quella del romanzo pubblicato a soli ventitré anni da un grande editore non fu l’unica cosa eclatante di quel periodo. Gli riuscì anche di mettere incinta la fidanzata in tempo utile per farle discutere la tesi con un inizio-di-pancione notato da pochi.
Se ne andarono a vivere in un bilocale non lontano dalla casa dei suoceri, preso in affitto e non acquistato per una nevrosi di lui che improvvisamente aveva preso a considerare quello dello scrittore come un mestiere altamente precario e assolutamente incompatibile con un mutuo. Vane furono le offerte d’aiuto da parte dei suoceri.
Acquistò la villetta dove avrebbero passato il resto dei propri giorni, pagandola quasi in contanti, quando sette anni dopo uno dei suoi libri fu preso in considerazione per lo Strega. Non vinse ma vendette quattro volte la tiratura dei precedenti. Da quel momento in poi ebbe la percezione netta che le cose non sarebbero cambiate più di molto, ed effettivamente così fu.

Dopo tre giorni di lavoro, Provvisorio stava per essere dotato di un primo capitolo completo. Lui – Paolo e Lei – Erica occupavano gran parte delle pagine. Si amavano con un amore giovane, un po’ morboso, fatto di litigate che si potevano tranquillamente evitare e una sintonia sessuale altalenante; i regalini di Natale e San Valentino, le feste a\(di) (finta) sorpresa per il compleanno e pranzi un po’ imbarazzati la domenica a casa dei genitori di lei.
Il padre di Lei – Erica era ammiraglio dell’esercito. C’era la forte possibilità che fosse lui Terzo, ma la questione rimaneva ancora aperta. Era troppo presto. Fu preventivamente descritto in maniera spigolosa, con parole tali da metterlo in cattiva luce agli occhi del lettore.
“Era costantemente di umore acre, ricordava un signore obeso che ad agosto se ne stava a sudare in maglia della salute sotto un ombrellone un po’ arrugginito, con una peroni calda appoggiata al tavolo in plastica dell’Algida, con ai piedi zoccoli di sughero e le unghie vistosamente lerce.”
Aveva utilizzato molte volte quel trucco per orientare il lettore verso sensazioni sgradevoli ancor prima che la trama avesse smascherato, tramite l’azione, la reale essenza del personaggio.
Chiuse il capitolo con la frase: “la vita scorreva ordinaria come tutte le altre, nell’attesa che arrivasse qualcosa di eclatante a renderla speciale.”
A quel punto ogni lettore avrebbe potuto avere un’immagine abbastanza nitida di Lei – Erica. Questo dato di fatto lo indispettì non poco. Sulle prime poteva sembrare una di quelle malattie da scrittore che diventa geloso dei propri personaggi dopo averli resi vivi sul foglio. In realtà era geloso di Erica Giurizzani, quella vera, perché era chiaro che di lei si trattava e non di una mera ispirazione. Si chiese se avesse preso la giusta decisione inserendo un riferimento preciso all’amore della sua gioventù nell’ultimo romanzo della sua vita. La risposta era sì, ma qualcosa continuava a non andare. Si tormentò un intero pomeriggio in cerca della soluzione e alla fine la trovò: non poteva essere un giallo.
Stava davvero dando fondo ad ogni suo ricordo su Erica Giurizzani per un libro da ombrellone? Sì, ma cosa poteva fare di diverso? Per tutta la sua vita non aveva fatto altro che raccontare di omicidi e di assassini, di equazioni a più incognite che dopo un tot numero di passaggi\pagine si risolvono nello smascheramento del colpevole.
Questo era stato un cruccio che aveva avuto già in passato. Non aveva mai tentato di scrivere altro. Aveva la certezza di non esserne in grado. Perché non provarci comunque?
Non aveva mai seguito il consiglio di leggere Sciascia, di non dare l’esclusiva ad un unico agente ma concedersi più strade, di non pensare alla scrittura esclusivamente in termini di libro-pubblicazione. Non era mai riuscito a cedere al piacere dell’esperimento.
Gli venne in mente una poesia di Edgar Lee Masters:

Soltanto un chimico può dire, e non sempre ,
che cosa uscirà dalla combinazione
di fluidi o di solidi.
E chi può dire
come uomini e donne reagiranno
fra loro, e quali bambini nasceranno?
C’erano Benjamin Pantier e sua moglie ,
buoni in se stessi, ma cattivi l’un l’altro:
ossigeno lui, lei idrogeno,
il figlio un fuoco devastatore.
Io, Trainor, il farmacista, mescolatore di elementi chimici,
morto mentre facevo un esperimento,
vissi senza sposarmi.

Si sentiva anche lui come Trainor il farmacista che preferiva la certezza matematica del risultato al rischio del caso. Il problema però era che stava considerando la questione da un unico punto di vista, quello di lui che non faceva cose lontane dalla sua indole e dalla ripetitività del già conosciuto. Eppure tutto era nato dal caso, da un esperimento, da quella volta che per distrarsi riempì qualche foglio con quello che poi divenne il suo primo racconto. Era una cosa di quarant’anni fa, pensava. Era stata una scintilla irripetibile, alimentata quel tanto che basta per non farla morire e per costruirci intorno una vita dignitosa, vissuta come la posizione della sua casa: appena un po’ discosta da quella degli altri.
Accese la radio in cerca di un’atmosfera che calmasse i suoi pensieri, dalle casse uscivano le note ti Toots Thielemans che interpretava Blue in green con Bill Evans. Dalla qualità del brano si accorse che era molto tardi, quasi l’una di notte. Da quanto tempo non scriveva di notte? Da una vita. L’ultima volta era sulla quarantina e portava la barba lunga quel tanto in più che basta per considerarla esagerata, scriveva libri in cui credeva profondamente e gli piaceva che sulla quarta di copertina ci fosse una sua foto in giacca e dolcevita affianco alla biografia.
Fu l’unico periodo in cui rischiò seriamente di montarsi la testa con le vendite che andavano più che bene e le studentesse del suo corso di scrittura creativa che teneva all’università – non era riuscito a non vantarsi con la moglie per essere divenuto “accademico” senza uno straccio di laurea – che lo corteggiavano con le loro gambette sottili e i capelli caldi di piastra.
Non ebbe mai la minima voglia di tradire la moglie, di conoscere altri corpi oltre al suo. Più che una consapevolezza fu una cosa di cui si rese conto una volta che una di quelle ragazze provò a sederglisi in braccio dopo che lui l’ebbe ricevuta nello studio che l’ateneo gli aveva assegnato. La scacciò con ferma dolcezza, sul viso un’espressione di meraviglia al massimo grado come se si fosse trattato di un’animale di razza diversa dalla sua che per qualche strano motivo tentava un impossibile approccio. Forse era davvero così. Erano appartenenti a due specie diverse, lui e il resto del mondo femminile che non fosse sua moglie. Doveva essere quello il suo modo di amarla.
Ma allora Erica Giurizzani? Bel guaio, quello. A se stesso aveva dato una spiegazione più che articolata e chiara, era però fatta di intuizioni non traducibili in parole; impossibile quindi esternarla. Erica Giurizzani era nella sua vita come una specie di divinità, come una religione in cui credere senza approfondire troppo. Si può dire che il rapporto con lei era lo stesso di un cristiano non praticante con Dio. Poteva essere amore come poteva non essere assolutamente niente.
E se quella mancanza di coraggio nel tentare un genere letterario diverso fosse in realtà la stessa forma di vigliaccheria che per tutti gli anni del liceo gli aveva impedito di dichiarare il proprio amore? Anche a questo pensava spesso. Ora la radio passava The way you look tonight suonata dal pianoforte di Keith Jarrett. Altro pezzo buono segno della notte che avanzava. Erica Giurizzani occupava nella sua vita lo stesso posto di un genere letterario mai tentato. Questa era la sostanza dei fatti.
L’avesse avuta in quel momento davanti, non in un attimo fugace ma per tutto il tempo del mondo, per tutte le epoche ancora da venire, non ci avrebbe comunque provato. Ne era sicuro. Amava la ragazza di quarant’anni prima, non la donna sconosciuta di adesso. Ma anche se per qualche prodigio magico la diciottenne Erica si fosse materializzata nella sua stanza, sarebbe stato lo stesso. Gli avrebbe ricordato ancora una volta la ragazza che suo figlio gli presento qualche anno prima a cena e lui aveva notato più di una somiglianza con il suo antico amore.
No, non era più amore il suo ma solo l’immagine di un sentimento. “Come una fotografia di noi stessi vista a distanza di molti anni dallo scatto” scrisse sul suo taccuino, con il proposito di utilizzarla come frase ad effetto in uno dei capitoli.
Come per Erica Giurizzani così per la letteratura era ormai troppo tardi per tentare e, anche se per caso o per magia l’occasione si fosse presentata, non l’avrebbe comunque colta. Doveva essere quello il modo, del tutto personale, in cui capiva cosa realmente voleva dalla vita.
Non voleva coronare il suo sogno d’amore antico e non desiderava chiudere la carriera con un libro inusuale che non fosse un giallo-matematico-coerente-con-gli-altri.
Spense la radio e il silenzio tornò nella stanza. Andò a coricarsi affianco a sua moglie e sentì il tepore del suo corpo.
<> gli chiese lei.
<<Sì, ma non succederà più>> rispose lui.
<<Già. Non è nelle tue abitudini>>.
No, non lo era.

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4 commenti »

  1. Bravissimo ! Il tuo racconto è scritto benissimo, bella la storia , straordinaria la descrizione dei sentimenti del protagonista e delle Notti d’inchiostro, passate a costruire storie per inserire il sogno di un possibile amore . Erica Giurizzani è un omaggio a Tomizza , sbaglio ? e alla fine…nemmeno un rimpianto.
    Complimenti Raffaele grande scrittore!

  2. Bello, l’ho trovato pieno e “solido”, complimenti. Giusto a essere pignoli, all’inizio ci sono tanti avverbi (diversamente, velatamente …) io li sfronderei. Ma al di là di queste minuzie mi è piaciuto molto.
    Roberta

  3. Raffaele, molto bravo veramente. Si avverte che sei un gran lettore, considerando la tue notevoli doti nella scrittura. Complimenti! Concordo con Gianluca.

  4. Concordo con quanti mi hanno preceduta. Bella la storia, eccezionale la scrittura, dettagliata la caratterizzazione dei personaggi, interessante il protagonista. Un racconto degno di lode. Bravissimo!

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