Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Strappare un sorriso” di Federico Balducci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

C’era una volta un uomo povero. Viveva in una piccola casupola di fango al confine tra due importanti stati di grande tradizione e grande cultura. Non era molto colto, tanto che neanche lui ben sapeva in quale dei due fosse. Così, per evitare i guai, aveva deciso di pagare con regolarità le tasse ad entrambi.

Aveva una moglie fedele che gli aveva donato una bella figlia. Dico bella anche se non era bella fisicamente. Dico bella perché era la luce dei suoi occhi, e i suoi occhi erano così profondi che non si fermavano all’aspetto esteriore di lei, ma le vedevano nell’anima. Era per questo che brillavano quando la osservava.

Aveva anche un cane, un po’ malandato invero, eppure con una certa pulciosa eleganza. Soleva stare steso nel piccolo pergolato della casa, e si alzava e correva a leccar le mani all’uomo quando tornava dai campi, sempre con un pezzetto di cibo in mano per l’animale.

Si reputava senza alcun dubbio un uomo felice.

Eppure alcune sere tornava a casa a mani vuote; eppure ogni moneta che pagava agli esattori pesava altrettanto di suo sudore; eppure il sole in quella valle era crudele e la terra estremamente dura e d’inverno copiosamente nevicava e sempre la notte era fredda.

Ma l’uomo mai ebbe un dubbio sulla sua felicità.

Venne un tempo la carestia, più lunga di qualunque altra egli avesse mai visto. Voraci sciami di cavallette ripulirono la valle di qualunque germoglio, mentre l’estate si appressava. All’inizio del caldo il ruscello si prosciugò. A monte uno dei due stati l’aveva sbarrato con una diga. Furono in molti ad emigrare, ma l’uomo decise di sentire consultare prima la moglie, la figlia e il cane.

La moglie era malata, e da tempo ormai non si alzava dal letto. La figlia non l’avrebbe mai, dunque, abbandonata. Anche il cane era troppo vecchio per poter tanto camminare, e l’uomo era affezionato alla sua terra, così tante volte dissodata e irrigata, amata e maledetta.

Mentre la valle si spopolava, l’uomo continuava a lavorare nella speranza di poter mettere da parte qualcosa di più per poter sopravvivere all’inverno. E i suoi sforzi furono premiati da qualche spicciola provvista che, sommata a ciò che aveva, non riempiva che metà credenza.

Dopo il caldo torrido venne l’autunno, dopo l’autunno l’inverno. Alla prima neve la moglie spirò dopo aver tanto sofferto. L’uomo e la figlia si abbracciarono e la ragazza pianse copiosamente, ma il padre allora le asciugò le lacrime con le ruvide maniche di lana e la portò sotto il pergolato incrinato dalla neve e le fece vedere il roseo tramonto. E la ragazza capì, e smise di lacrimare.

Nonostante la scarsità di cibo, facendo molta economia riuscirono a giungere alla primavera. L’uomo avrebbe presto iniziato a lavorare nei campi, quando venne la guerra. Un esercito passò nella valle razziando e distruggendo.

Una sera, di ritorno a casa, s’avvide che qualcosa non quadrava: il cane non era gli era corso incontro. Ebbe paura, poi respirò a fondo e sorrise: non doveva farsi buttare giù d’animo. Giunto davanti alla casupola, vide subito la carcassa nera e rossa e i soldati. Fu subito arrestato e non oppose resistenza. Chiese piuttosto spiegazioni sorridendo: quale pericolo poteva lui rappresentare?

Dopo poco venne fuori la casa un ufficiale. Era costui un brutto uomo, ma il povero non lo giudicò minimamente per questo: siam fatti così, e siamo tutti belli per come siam fatti, pensava. Decise allora l’ufficiale di umiliare l’uomo, poiché ben poco da razziare aveva trovato nella casa. Lo fece inginocchiare e lo costrinse a guardare mentre i suoi soldati violentavano la ragazza, uno dopo l’altro. La ragazza piangeva, e il padre s’era fatto tutto serio. Ma ogni volta che incrociavano gli occhi, sorrideva. E la ragazza piangendo si ricordò del rosa tramonto e piangendo rise un riso amaro.

I soldati se ne andarono a sera. L’uomo mise a letto la figlia. Lei gli confesso che poco le mancava da vivere. Allora l’uomo decise di rimanere accanto a lei. Dopo aver seppellito dignitosamente il fedele cane, sotto la più grande quercia nelle vicinanze, accanto alla moglie, passò tutto il suo tempo al capezzale della figlia. E non c’era momento che non le raccontasse una delle magnifiche storie che aveva sentito da bambino, e nel caso avesse dimenticato inventava.

La ragazza morì poco dopo e l’uomo sapeva che era morta felice.

Poté allora l’uomo tornare a lavorare con una nuova forza. Egli traeva forza dal verde, dal giallo, dal celeste e dal rosso. Si godeva le albe e i tramonti e mangiava il poco che bastasse.

Un altro mese passò, e mentre la campagna era nel cuore del suo splendore venne di nuovo la guerra. L’esercito ripassò in fuga, ed un altro lo inseguì. Nuovamente la campagna fu devastata, e la grande quercia abbattuta da una bomba. L’uomo fu catturato di ritorno dall’aver seppellito con nuova dignità i suoi cari, dissepolti dall’esplosione. Fu catturato e deportato, e mentre s’inerpicava su un monte a bordo di un camion vide la diga rompersi e la valle essere spazzata via. E poi girò una curva e la vista gli fu tagliata.

L’uomo, insieme agli altri del camion, fu chiuso in un recinto che conteneva baracche. Sopra la rete correva un fil di ferro a spirale, e tre torri con sentinelle vigilavano sui prigionieri. L’uomo ragionò che le capanne in cui avrebbero ora vissuto fossero ancor più scomode di quella che aveva lasciato, ma poi pensò che grazie ai soldati ora non era sommerso dalle acque, e pensò che finalmente avrebbe avuto della compagnia. Alcuni visi gli erano noti, ma la maggior parte no. Parlavano comunque la sua lingua.

All’interno del campo poteva insieme ad altri coltivare la terra e mangiarne i frutti per integrare il poco che gli veniva dato a mattina e sera. Era ben felice di poter mettere a disposizione il proprio lavoro.

Presto all’interno del campo l’uomo divenne un’istituzione. Rallegrava i bambini con le sue magnifiche storie, aiutava gli infermi grazie all’esperienza fatta con la sempre malaticcia moglie, insegnava agli uomini i segreti della terra e le sue piante. Il suo sorriso perenne ne trascinava molti altri.

Per questo motivo fu da subito preso in antipatia dall’ufficiale a capo delle guardie. Già dall’inizio della sua prigionia fu interrogato ripetutamente, ma ben poco cavarono dall’uomo: cavarono la verità. L’uomo, mentre torturato, trovava sovente la forza di ridere e sembrava dicesse: «Non capite che non potete ottenere di più da me solo perché avete già avuto tutto?». Questi sorrisi scatenavano l’ira dei soldati, ma l’uomo mai disse cose che li avrebbero soddisfatti poiché in lui la verità non sarebbe mai stata soppressa dal dolore.

Dopo un periodo smisero di torturarlo convincendosi delle sue parole. Quello fu un periodo felice per l’uomo. Non che fosse mai stato triste, ma quel periodo fu ancor più felice per lui. Si vedeva immerso in un vortice di sorrisi e mai perdeva un tramonto pensando con felicità alla sua bella figlia e alla sua amata moglie.

Questo periodo era però destinato a finire, l’ufficiale capo delle guardie prese la risoluzione di spostarlo in cella di isolamento. Mentre veniva portato via dalle guardie, s’accorse che molti piangevano. Si girò e disse: «Siete cento, io sono uno. Non dimenticatevi quanto vi ho insegnato, e godetevi ogni momento delle vostre vite». Non riuscì a farli smettere di lacrimare, ma molti di loro non si persero mai più d’animo.

In isolamento la vita divenne più dura ma meno faticosa. Molto più spesso veniva interrogato, ma l’uomo non capiva perché. Se avesse saputo leggere si sarebbe accorto che era stato segnato come spia dall’ufficiale a capo delle guardie che lo aveva preso di mira.

La cella era stretta e umida, ma da una alta finestrella, sulla branda in punta di piedi, poteva godersi ogni tramonto e pensare con felicità alla figlia e la moglie. Presto si rassegnò alla solitudine, ma non intristì: in cuor suo portava l’affetto di tutte le persone conosciute nella sua vita.

Incaricato di torturarlo era sempre lo stesso ufficiale. Era un brutto ceffo, ma agli occhi dell’uomo era bello come ognuno è bello per come è fatto. Ai suoi profondi occhi appariva con chiarezza il suo animo malvagio, ma l’uomo non si permise di giudicarlo perché, come una volta aveva sentito dire, senza cattivi non ci sono buoni. E anche questo ufficiale prese in antipatia l’uomo, scambiando suoi sorrisi di felicità per beffardi.

Ben presto l’ufficiale fu annoiato dell’uomo, e come obiettivo di soldato e di vita si pose il distruggere l’uomo o almeno la sua felicità. Il nuovo regime fu caratterizzato da una cella nuova, senza illuminazione e sottoterra, minor numero di pasti e più strazianti torture.

All’uomo mancarono i tramonti e le albe, ma in cuor suo sentiva il calore di tutti coloro che gli erano stati accanto e che mai avrebbe dimenticato, e ciò bastava a riscaldarlo tra le umide mura.

Nel frattempo l’uomo s’era ammalato, e piaghe s’aprivano dappertutto sul suo corpo. La tortura iniziò a fargli ancor più male del solito, ma mai un momento dubitò sulla sua felicità. Troppi sentimenti provava per potersi sentir triste.

L’ufficiale dal canto suo aveva trovato un osso duro. Ma anche lui mai si perse d’animo: in cuor suo aveva una grande speranza di annichilire l’uomo.

«Ti è morta la moglie» gli diceva. «Ti è morta la figlia» continuava. «La tua casa è stata distrutta, i campi tuoi devastati, i tuoi luoghi non esistono più. Ora altre famiglie del nostro popolo vivono felici dove una volta vivevi tu. I tuoi compagni del campo, quelli con cui pare tu avessi sodalizzato, sono tutti morti in un’incursione del nemico» aggiungeva lentamente.

«Son felice che i miei campi non siano stati abbandonati» rispondeva felice nel dolore l’uomo. E poi: «Son morti, ma son vissuti felici».

Accortosi che l’uomo non avrebbe vissuto per molto, e più che mai deciso a demolirlo, l’ufficiale decise un giorno di torturarlo a morte fino a fargli pianger sangue. Solo allora si sarebbe sentito realizzato.

L’uomo si accorse che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno e respirò a fondo per godersi l’aria che mai più avrebbe respirato. Si eresse diritto, e camminò cercando di reggersi da solo sulle sue gambe. Sorrideva a chiunque incrociasse nei corridoi, temendo di non poter più rallegrare alcuno.

Arrivato nella stanza sentì chiudersi per sempre il pesante cancello di ferro. Dentro lo aspettavano l’ufficiale e due soldati.

Mai era stato torturato con tanta crudeltà. Lo stavano torturando per ucciderlo.

Eppure dopo i primi minuti capì che sarebbe stato ingiusto spirare senza render felici anche l’ufficiale ed i soldati. Si sforzò così di non sorridere, sorridendo invece in cuor suo nel ricordare tutto l’affetto che aveva donato e ricevuto. L’ufficiale ebbe così l’impressione di esser riuscito nel suo intento e così, felice e temendo di perdere l’attimo, s’affrettò il più possibile per uccidere l’uomo. E infatti ci mise poco, e si fermò mentre l’altro spirava.

E l’uomo in quegli istanti rivisse la sua vita, gli amori, gli affetti, la terra, l’acqua, le piante, il cielo ed i tramonti. E solo ora che più non li aveva capì quanto fossero belli, e si sentì fortunato di averli per così tanto tempo potuti godere. E, in un fiume di felicità, sorrise e spirò.

Era quello il più sincero sorriso mai comparso sul viso dell’uomo, ma tra il sangue e il dolore molto assomigliava ad un ghigno. La morte sopraggiunse, e il sorriso gelò.

L’ufficiale non poté credere ai suoi occhi. Si sentì sconfitto e fallito e inutile, e in preda alla rabbia afferrò un fucile e col calcio iniziò a randellare il volto dell’uomo nella speranza di strappargli quel sorriso che tanti ne aveva strappati. Ma più picchiava, più i denti venivano alla luce e bianco e rosso il sorriso rimaneva.

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