Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Sommossa popolare” di Vincenzo Melino

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Sobborgo senza luce     «Sangue di un tramonto sopra i colli,  sangue sopra le strade e le piazze,  dolore di cuori spezzati,  putridume di tedio e di lacrime.  Un fiume abbraccia il sobborgo come una  mano gelida che palpi nelle tenebre:  sulle sue sponde le stelle  si vergognano di vedersi. Le case nascondono i desideri  dietro le finestre luminose, mentre fuori il vento  porta un po’ di fango a ogni rosa».   Pablo Neruda

                Il dieci maggio 1961 nel borgo collinare accaddero molte cose. In quella giornata, quasi inaspettatamente, capitò che una certa condizione di vita aveva trovato, tra mille entusiasmi, l’opportunità e il coraggioso anelito di opporsi alle numerose ingiustizie, ai soprusi, alle deprimenti e fredde umiliazioni, a quella formula  greve e cavillosa che aveva saputo piegare per lungo tempo i poveri, i deboli, gli oppressi alle più aberranti mortificazioni.

                L’aria era zuppa di acquerugiola violetta come una prugna. Sembrava che anche l’erba avesse odori e colori d’acquazzone: era di un verde carico che lo scirocco pettinava a ondate, scovando l’ombra.  I confini blu, ritagliati in cielo dai monti lontani della Maiella, soffocavano nella caligine grigia; le narici dei cafoni annusavano, nel fresco, ricordi di infanzie trascorse; e i loro occhi arrossati baluginavano nei solchi lievi lasciati da una vela sul lago d’Occhito.

                Nella luce vaga e caliginosa del mattino, le ombre delle case erano nere e ferme; il vento tiepido che saliva dal vallone sollevava nuvole di polvere: nella polvere si spidocchiavano pigramente alcuni cani.

                La piazza grande, all’improvviso, in un breve lasso di tempo, prese un aspetto insolito; gruppi di persone che si erano radunati quasi per caso, cominciarono ad assumere l’aria guardinga di chi stesse tramando qualcosa, un qualcosa che per la verità iniziava a delinearsi chiaramente attraverso l’espressione dei visi che divenivano sempre più foschi e grifagni.

                Al centro del crocchio più numeroso c’erano Erminio Tornesi e Duruc Iacovone. Erminio, eternamente abbronzato, era un giovane di media statura, dai capelli castano-scuri, il cui piglio vagava sovente oltre le colline. La felice natura fisica, la sicurezza con cui riteneva le nozioni apprese, quel lento ma sicuro formarsi, nella mente, di concetti limpidi, gli avevano dato la vaga convinzione che la sua vita avrebbe avuto lieto svolgimento. Duruc, contadino arcigno, aveva un aspetto insolito anche per un cafone; di età indefinibile, basso, tarchiato, forte. Il suo viso aveva spesso un’espressione torva, preoccupante. Lo sguardo fisso a immaginare o ipotecare una felicità impossibile. Di tempra asciutta, a volte umbratile, ‘dentro la bocca stringeva parole troppo gelate per sciogliersi al sole’. Il suo teschione nodoso inceppito, sormontato da una boscaglia di capelli arruffati, era nascosto da una coppola consunta e nauseabonda. Quello strano copricapo gli dava carisma da lupo marsicano e sintomatico mistero. Nella piazza stracolma, tra una battuta burlesca e inopinati discorsi che straripavano dagli animi accesi, s’intuivano  i ripetuti richiami alla calma che Erminio e Duruc rivolgevano, con vigorosa autorevolezza, a Peppino, Riccardo, Giovanni, Tonino, Gaetano, ad altri poco discosti, nonché ad una  furente torma di contadini laboriosi, dalla  schiena indolenzita dal rude lavoro ma mai piegata, dall’eterno aspetto di persone semplici ed affrante, ma garbate e fiere nel gesto disinteressato di offrire il poco di cui disponevano, senza chiedere alcuna gratifica; villani che faticavano aspramente senza ostentazione, in una terra difficile ma mai avara di sentimenti nobili.

                Quell’ anno il raccolto del grano si preannunciava scarso; una lunga siccità non aveva riempito le spighe e i contadini avrebbero mietuto solo paglia; il prezzo del frumento rispetto all’ultima messe si era dimezzato, mentre il costo dei generi alimentari    di cui anche i contadini non potevano fare a meno per sopravvivere –  era salito alle stelle.  E nell’aria si percepiva, tangibilmente,  il sentore  gagliardo e nauseabondo di ulteriori gabelle. L’amministrazione comunale, infatti, maldestramente ispirata da qualche prode galantuomo, al fine esplicito di migliorare  il servizio di nettezza urbana con specifico riferimento alla rimozione delle sporcizie lasciate sulle pubbliche strade da alcuni animali domestici, stava programmando una nuova tassa locale su ogni bestia posseduta, fosse essa una mucca, una capra, una pecora, un asino, un cane, un’oca  o una gallina. Nella realtà s’intendeva risanare le dissestate finanze comunali; dissesti causati da dissennate politiche sprecone, volte alla realizzazione di inutili opere pubbliche, oppure al finanziamento di progetti che andavano a soddisfare le esclusive esigenze private di qualche notabile.

                La misura, a quel punto, ai più era parsa colma e non più tollerabile. I poveri contadini, da sempre arcigni, taciturni ed indulgenti, erano arrivati al limite della sopportazione; non vedevano più alcuna alternativa e l’orizzonte che si poneva dinanzi ai loro occhi era rappresentato da un vicolo buio, con un gorgo pecioso  e cieco al suo fondo. Le fredde mura in pietra grigia di quel vicolo erano costellate da egri bozzetti raffiguranti  rassegnate penurie di cibi,  stenti esasperanti,  pretestuosi balzelli,  farraginose e insidiose procedure burocratiche .

                In quella piazza per la prima volta si cominciò a fare considerazioni alternative, ad esprimere laconiche opinioni, a parlare di sommossa popolare. Fino ad allora nessuno si era mai sognato di manifestare idee, o dare giudizi, specie in pubblica piazza; ognuno si era espresso quasi sempre silenziosamente e nel proprio intimo, ma ora qualcosa stava per cambiare; anche quelle scelte che prima erano considerate giuste si componevano per essere definitivamente contrariate.

                Il nemico non era più una realtà astratta, lontana, irraggiungibile, ma i ‘galantuomini’, a volte vicini di casa, ben inseriti nel tessuto sociale ed istituzionale del paese, i quali si erano arricchiti, con spregiudicato ardore, alle spalle degli altri.

                Nel borgo di Erminio, come in altri piccoli paesi, c’erano i soliti personaggi di ‘rango eccelso’, i soliti esponenti dell’oligarchia locale che rappresentavano le istituzioni o il ‘potere indiscutibile ed inattaccabile’: Sindaco, medico condotto, farmacista, notaio, maresciallo dei carabinieri, parroco e qualche grosso proprietario terriero.

                Avevano i volti farisaici del potere e il colorito della ricchezza, quel colorito bianco che risaltava nel pallore delle porcellane, il lucido cangiante delle sete, la patina dei bei nobili, il colore che veniva conservato in buona salute da un discreto regime di cibi squisiti. Il loro collo girava comodamente in basse cravatte; i lunghi favoriti si adagiavano sui colletti rovesciati; si asciugavano le labbra a fazzoletti con orli ricamati, che mandavano un odore soave.

                Quelli che già cominciavano ad invecchiare avevano ancora l’aria giovanile, mentre una certa maturità era diffusa sul volto dei più giovani. Nei loro sguardi indifferenti e profanatori vagava la calma delle passioni quotidianamente soddisfatte; e dalle loro maniere gentili trapelava quella particolare brutalità che derivava dal dominio delle cose non troppo difficili, nelle quali si esercitava la forza e si compiaceva la vanità, come nel maneggio dei cavalli di razza e nella compagnia delle donne perdute.

                Tutti quegli uomini si assomigliavano. I loro scialbi visi diafani, un po’ bruciati dal sole avevano il colore del rosolio dolce, e le loro guance abbondanti venivano fuori da grandi colletti duri, sostenuti dalle cravatte bianche con le trine ben stirate.  Tutti i panciotti erano di velluto con larghi risvolti; tutti gli orologi portavano in capo a un lungo nastrino sigilli ovali di corniola; tutti, d’ordinario, quando sedevano ai tavoli del Bar Centrale, tenevano le mani posate sulle cosce, badando ad allargare l’inforcatura dei pantaloni, il cui panno lucido brillava più del cuoio delle grosse scarpe.

                Don Pasqualino Franceschini era al suo terzo mandato da Sindaco. Ricopriva oramai l’incarico pubblico da quattordici anni.  La gente, da sempre, affermava, con ripetere quotidiano, di essersi stancata delle malefatte, delle angherie e del malgoverno di quell’ uomo;  poi però,  puntualmente, dal segreto dell’urna, ad ogni votazione, risultava eletto don Pasqualino a larghissima maggioranza. Era un omaccione di mezza età, sulla cinquantina, alto, magro, vigoroso, con una testa rotonda dai capelli sempre tagliati corti, con un viso di falchetto, il naso aquilino, gli occhi mobili e furbi, una barbetta nera ben curata, la pelle scura come un siciliano o un nordafricano. Il viso picaresco di don Pasqualino si faceva grigio quando parlava e gli occhi sfuggenti gli si sbiancavano di un impotente furore, disperati e cattivi. Alternava, a volte, dosi di effimera allegria alla sua perenne iracondia. Scaltro, svelto, sempre in movimento, in faccende o in grida arroganti e superbe. Spesso vestiva di nero, e in testa portava un panama a larghe tese. D’oro non aveva soltanto i tre denti rimessi, ma la spilla della cravatta, i bottoni dei polsini, la catena dell’orologio, i ciondoli, i corni portafortuna, gli anelli, il portasigarette. Era abituato a comandare e guardava con distacco e disprezzo i suoi compaesani, anche se, qualche volta, poco prima delle elezioni, forzando la sua natura, si dimostrava magnanimo, cerimonioso e cordiale con tutti. Solo con le donne aveva un buon rapporto. Le riceveva, una alla volta, la sera tardi in Comune. Con una giovane ostetrica, in particolare, aveva passato anche qualche nottata ad esaminare importanti bozze di delibere in materia di limitazione delle nascite per combattere la fame in paese. Ma l’ostetrica, senza marito, aveva dato alla luce  due bei bambini e in molti mormoravano che non potevano che essere figli del Sindaco. E la somiglianza era tale che l’autorevole fautore delle due gravidanze non riusciva a trovare valide ed opportune argomentazioni  da contrapporre alle maldicenti dicerie del popolo e di sua moglie Concetta Tebiani.

                La moglie, infatti, gli rinfacciava ogni giorno, fra le pareti domestiche, le sue colpe; lo accusava di adulterio e gli vietava l’accesso al letto coniugale. L’autoritario e temuto Sindaco perdeva, entrando a casa, ogni baldanza: sotto gli occhi neri e fiammanti della consorte egli era l’ultimo dei reprobi, un peccatore senza possibilità di perdono; e doveva acconciarsi a dormire solo, su un sofà nel salotto.

                Concetta era una donna quarantenne, piccola e grassoccia, ma ancora piacente. Sovente atteggiava il viso come l’aquila quando scende in picchiata sulla preda, ma con un aspetto più volontario e appassionato. Gli occhi queruli erano nerissimi, come i capelli; la pelle lucida e giallastra e i denti sottili ed aguzzi le davano un aspetto felino. Pareva una matrona antichissima, come se avesse avuto centinaia d’anni, e nulla perciò le potesse esser celato; la sua sapienza non era quella bonaria e proverbiale delle vecchie, legata a una tradizione impersonale, né quella pettegola di una faccendiera; ma una specie di fredda consapevolezza passiva, dove la vita si specchiava senza pietà e senza giudizio morale: né compatimento né biasimo apparivano mai nel suo ambiguo sorriso.

                Era, come le bestie, uno spirito della terra; non aveva paura del tempo, né della fatica, né degli uomini. Anche lei, come tutte le donne del paese, sapeva portare senza sforzo i più gravi pesi. Andava spesso pure lei, insieme alla serva Enrichetta Sacchetta, alla fontana con la tina da venti litri, e la riportava piena sul capo, senza reggerla con le mani, occupate a tenere Santino il suo bambino di tre anni, inerpicandosi per la ripida scalinata in pietra con l’equilibrio diabolico di una capra.

                Faceva il fuoco alla maniera paesana, adoperando poca legna, con i ceppi accesi da un capo, e avvicinati a mano a mano che si consumavano. Su quel fuoco cuoceva, con consumata e consapevole esperienza, dei piatti saporiti. Le teste dei capretti le preparava ‘a reganate’, in una pentola di coccio, con le braci sotto e sopra il coperchio, dopo aver intriso il cervello di prezzemolo, rosmarino ed aglio. Con le budella faceva i ‘torcinelli’, arrotolandole come gomitoli di filo attorno a gambi di origano, contornati di uova sode e salsiccia spezzettata, e mettendole ad abbrustolire sulla fiamma, infilate a uno spiedo: l’odore di carne bruciata e il fumo grigio, annunciatori di una barbara delizia, la domenica mattina, si spandevano per la casa, nei vicoli retrostanti, nella piazza grande, e nelle narici dei fedeli che all’uscita dalla messa cantata si dedicavano all’usuale ‘struscio’.

                Quel giorno Concetta era vestita da donna di casa in faccende, con gli abiti in disordine per il lavoro e per il caldo. Parlava con voce alta, stridula, tesa ed esagerata, mentre sul fuoco della cucina preparava le appetitose ‘scarpelle’ da offrire  ai tre ospiti che discorrevano pigramente con don Pasqualino, stravaccati sulle poltrone dell’aristocratico salone, posto al primo piano di quella sontuosa abitazione.

                I quattro uomini, tra una scarpella e un pasticcino, tra una battuta sconcia e un sorriso ipocrita, mandavano giù, con libidinosa avidità, copiose dosi di un aromatico liquore francese al gusto di agrumi, cercando di dissimulare con ingannevole  disinvoltura la malcelata apprensione che iniziava ad attanagliare i loro animi, alla vista soffusa, dietro le tende del balcone, della moltitudine di persone rancorose che gremivano ormai da ore, cupe e minacciose, la grande piazza.

                Quel mattino erano ospiti del Sindaco, don Peppe Tramontana, medico condotto del paese, don Arturo Trebisonda, il farmacista, e don Gigino Artegni, notaio del distretto notarile di Larino.

                Don Arturo Trebisonda, farmacista, aveva poco meno di cinquant’anni ed un fisico atletico. Nel suo viso di gaudente cicisbeo si stagliavano gli occhi chiari, lontani, quasi sulle tempie, come negli uccelli. Era una persona mite e simpatica. Aveva un’arte particolare nel raccontare storie stravagantissime, accompagnandole con la mimica più espressiva. Le sue novelle erano salaci, pornografiche e fratesche.

                Don Gigino Artegni, il notaio, era un uomo anziano, grosso, panciuto, impettito, con una barba grigia a punta e dei baffi che piovevano su una bocca larghissima, piena zeppa di denti gialli e irregolari. Pesante e un po’ sordo, goloso e avidissimo come un enorme baco da seta, passeggiava nel salone del Sindaco con passi cortissimi, lenti e impacciati, avvolto in una leggera palandrana antica, la pipa fumante tra le labbra carnose. Timorosamente riverito da molti, dopo il suo pensionamento, stava in casa gran parte del giorno mangiando o dormendo, o si sedeva sul muretto della piazza a fumare. L’espressione del suo viso era quella di una diffidenza astiosa, e di un’ira continua e mal repressa. Portava gli occhiali, una specie di cilindro nero in capo, una redingote nera spelacchiata, e dei vecchi pantaloni neri, lisi e consumati.

                Era l’uomo più ricco del paese: oltre che notaio era anche un influente proprietario terriero. Gli si vedeva spesso un viso triste, pieno di sfiducia e di disprezzo per il mondo dove gli toccava vivere. Da tutto il suo aspetto spirava un’aria stanca e circospetta, di scoramento mal sopportato; come le rovine di una catapecchia incendiata, nera e piena di erbacce.

                Era malato. Aveva un restringimento uretrale e un po’ di diabete. Questo non gli impedì di buttarsi, appena arrivato, a divorare con straordinaria voracità le frittelle di Concetta. Si stravaccò poi, con dei grugniti di soddisfazione su una poltrona, fece mostra di conversazione, di cui non sentiva quasi nulla per la sordità; con qualche borbottio,  bofonchiando e soffiando a tratti, non tardò ad assopirsi in un soave dormiveglia, straziato di tanto in tanto, dalle urla indemoniate ed insolenti che giungevano dalla piazza.

                Don Peppe Tramontana era il medico condotto del paese. Un uomo enorme, grassissimo e grossissimo, con una faccia da orco, con un gran naso, grandi occhi, grandi orecchie, grandi labbra, e grandi guance che muoveva con molto fracasso mentre divorava le scarpelle preparate dalla moglie del Sindaco. Mangiava almeno come quattro cristiani messi insieme, anche perché si limitava al solo pasto serale, dopo aver passato tutto il giorno a visitare pazienti, nelle masserie dislocate nelle campagne più remote. Malgrado le sue terribili ganasce da orso bruno  e il sudore che gli rigava il volto, e quel suo orrendo aspetto di gigante difforme, era un uomo gentile e spiritoso.

                Portava degli occhiali di ferro a stanghetta su un naso affilato, all’ombra di un pendaglio rosso che gli scendeva dal cappello;  dietro agli occhiali degli occhietti pungenti, che passavano rapidamente da una fissità ossessionata ad un brillare brusco di arguzia. La bocca cavernosa gli cascava in una piega di ordinaria amarezza. Sotto all’abito sporco e sdrucito, che usava per le visite domiciliari in campagna, spuntavano gli stivali scalcagnati e pieni di polvere.  Era curiosissimo, ma, nelle parole, riservato: le sue frasi si fermavano a mezzo, a lasciare intendere che egli sapeva molto più che non dicesse;  sempre con un che di solenne e dignitoso e terribilmente serio.

                Esercitava la professione di medico con impegno ed umanità, facendo appello alla sua lunga esperienza e al senso pratico di cui non difettava, ma i gloriosi insegnamenti scientifici si erano oramai dileguati dalla sua mente e si confondevano nella monotonia di una lunga, quotidiana indifferenza. I rottami delle perdute conoscenze galleggiavano senza più senso, in un naufragio di noia, su un mare di cultura obliata.

                Don Carlo Laudisio, detto ‘u patanaru’, invece, altro personaggio di ‘notevole spessore’, era il parroco del paese da circa dieci lustri. Anch’egli  era un frequentatore abituale del salotto del Sindaco, ma quel mattino stava disertando  la colazione  semplicemente perché, essendo  domenica, non poteva trascurare l’esercizio del suo ministero sacerdotale che, come d’ordinario, svolgeva con prodigiosa passione. Era un uomo alto e un po’ curvo, grosso e grasso, con un ciuffo  di capelli grigi ed unti che gli piovevano in disordine sulla fronte, un viso giallo e imberbe da luna piena e degli occhietti maligni pieni di falsità, a volte anche di soddisfazione. L’anziano prete aveva oramai più di settant’anni. Nel suo viso da galletto decrepito risaltavano le guance cascanti e gli occhi luminosi e bonari di un vecchio cane da caccia. Era imbarazzato e lento nei movimenti, più per natura che per l’età. Le mani gli tremavano, le parole gli uscivano balbettanti, tra un labbro superiore enormemente lungo, e uno inferiore cadente. La prima impressione che dava era di un buon uomo; completamente rimbecillito, però, negli ultimi tempi.

                Parlava attraverso le sue gengive sdentate. Aveva delle lunghissime braccia magre, come le ali di un mulino. Il suo viso era fuori del tempo, rugoso e sformato come una mela vizza: tra le pieghe della carne rinsecchita e le sopracciglia folte brillavano le sue pupille scure e magnetiche. Non un pelo di barba né di baffi gli cresceva, né gli era mai cresciuto, sul mento, e questo dava alla sua vecchia pelle un carattere bizzarro.

                A casa, nell’ambiente familiare, don Carlo girava sovente con la sottana sbottonata, ondeggiante sul ventre grasso, che traboccava dalla cintura. Nei pochi colloqui che aveva con le persone modulava la sua voce grave, lenta, leggermente ansimando e socchiudendo i grandi occhi inquieti che nuotavano in una specie di umore gialliccio. Si raccontava che mangiasse placidamente quantità enormi di cibo e che molti anni prima, quando quella sua carne flaccida era ancora lustra e compatta, inseguisse di stanza in stanza, dopo il pasto troppo abbondante, la serva-perpetua Gemma Gaudenzi. Sbuffava come un toro infuriato e gridava: «Non scappare, Gemma; toglimi questa angustia del demonio». Qualcuno affermava che la serva lo aiutasse validamente a scacciare Satana.

                Per il prete, comunque, la donna, in quanto tale, non era un mezzo della seduzione diabolica, ma era lo stesso demonio. Il demoniaco in lei risiedeva nella sua angustia, nel legame troppo stretto con la carne, nella sua grande difficoltà a fare omaggio alla ragione. Derivavano da questo fatto i suoi terrori, le sue superstizioni, le sue debolezze. Derivava anche da ciò la sua maggiore pietà religiosa.

                La domenica mattina, alla messa cantata, nella chiesa del monastero, il prete incominciava lentamente a litaniare con una vocetta acuta di testa a cui rispondeva il mareggiare folto delle voci che veniva dalla folla sprofondata nell’ombra delle piccole navate. Una lunga lama di sole filtrava dalla grande finestra posta sull’ingresso e attraversava la parte centrale della chiesa, rendendo ancora più cupi i passaggi laterali e gli angoli.  La luce mattutina, battendo in pieno sulla faccia del prete e sulla sua figura, delineava la stoffa scolorita della sottana, lucida ai gomiti e sfilacciata in fondo. Macchie di grasso e di tabacco seguivano sul suo largo petto la riga dei bottoncini, diventando più fitte a mano a mano che si allontanavano dal collarino, su cui poggiavano le pieghe abbondanti della pelle rosa. L’altare, in fondo al transetto, sorgeva a tratti dalle tenebre, illuminato da una lampada di rame piena di olio  d’oliva su cui navigava un lumino che naufragava di tanto in tanto e riaffiorava, come per sortilegio, con appena un sospiro di luce.

                A detta di don Carlo, durante il cerimoniale liturgico, Satana passeggiava per le vie del mondo, abitava in tutte le case, si era annidato come un predace avvoltoio in tutti i cuori. Il mondo si ricaricava di peccati lussuriosi, di pensieri lubrichi, di immagini spudorate, di desideri sfrenati ed inverecondi. Il demonio soffiava nelle menti i suoi perversi disegni e le donne, le fanciulle, le spose, le vedove avevano le carni infuocate dalle fiamme fervide dell’inferno.

                Al termine del rito religioso la voce del prete diventava via via accasciata, cavernosa, si spegneva, tra nuvole d’incenso, in una specie di borbottio doloroso. I corpi dei fedeli, stretti l’uno all’altro, fermentavano nel calore dei fiati roventi; le donne si sentivano tutte invase da un feculento turgore demoniaco. Le mani di don Carlo, che prima si agitavano violentemente e indicavano il cielo tenebroso dell’abside, al postutto, si stendevano affrante sui fianchi. Quell’atteggiamento comportamentale preannunciava, con sintomatologia consolidata, la frase rituale: «La messa è finita»; i fedeli e le ‘vizzoche’ potevano andare in pace.

                In posizione intermedia,  tra i pochi galantuomini e i tanti contadini del borgo, si collocava una specie di classe mezzana, fatta di artigiani, soprattutto falegnami.  Erminio si chiedeva spesso per chi mai lavorassero tutte le botteghe di falegname che c’erano in paese; e, in verità, avevano tutte poco lavoro e stentavano, pure loro, a tirare avanti. L’esistenza di quella classe media dava un colore particolare alla vita paesana: gli artigiani stavano tutto il giorno sull’uscio delle botteghe, quasi tutte inoperose, ma ben fornite di splendidi attrezzi da lavoro. I contadini, invece, non si vedevano  che all’alba e al tramonto, e parevano così ancora più lontani, e relegati nel loro mondo remoto.

                C’era poi un’altra categoria di individui appartenenti, solo in apparenza, al ‘genere umano’: in tutto il paese circa una dozzina. Avevano anch’essi l’aspetto dei cafoni, ma di quelli senza terra, che andavano a servizio dei padroni, guadagnavano poco e vivevano per lo più di furto e di galera. C’erano tra essi pure sensali, di quelli che si vedevano sui mercati, e anche lavapiatti di taverne, cocchieri, suonatori ambulanti ed avvezzi  ‘scarcatagliole’, refrattari ad ogni lavoro. Gente fiacca e, d’ordinario, vile. Gente servizievole verso i proprietari, ma a patto di avere l’immunità nelle cattiverie contro i poveri. Gente senza scrupoli. Gente senza famiglia, senza onore, senza fede; gente infida, poveri ma nemici dei poveri. Per farsi coraggio essi avevano bisogno di stare tutti insieme e fare gruppo, branco, come un gregge. La maggior parte puzzavano di vino, già al mattino, eppure a guardarli da vicino, negli occhi, non osavano sostenere lo sguardo. Anche loro erano povera gente, senza terra, senza mestieri, o con molti mestieri, che è lo stesso, ribelli alle attività pesanti; troppo deboli e meschini per ribellarsi ai ricchi e alle autorità; essi preferivano servirli per ottenere il permesso di rubare e opprimere gli altri poveri, i cafoni ‘veri’, i villani, i fittavoli, i braccianti, i piccoli proprietari. Incontrandoli per strada essi erano, abitualmente, umili e ossequiosi; a stuolo o in piccoli crocchi, cattivi, malvagi, traditori e bastardi. Sempre essi erano stati al servizio di chi comandava e sempre lo sarebbero stati.

                Quella domenica di maggio, dopo la consueta messa cantata, i fedeli e altra gente, tutti attratti dal  fragoroso ed inquietante cicalio, discesero rapidamente la maestosa scalinata in pietra, alternata a  mattoncini rossicci, e si riversarono a vivere direttamente gli eventi storici che stavano maturando nella piazza grande. Sembrava un’alluvione di gente insofferente, una torma di randagi, uno stormo di cavallette.

                Dopo anni di pacata rassegnazione, i cafoni ‘veri’, i contadini, quel popolo, taciturno e lapidario, che era vissuto sempre immerso nella miseria, eternamente prevaricato e sopraffatto, lontanissimo dal Paradiso, emarginato anche dalle anticamere del Purgatorio, finalmente pareva aver acquistato la consapevolezza delle proprie azioni e del proprio destino, con l’identificazione del nemico da combattere ed annichilire. Il nemico era stato individuato nella borghesia locale, nei galantuomini, ‘ingordi e rapaci’, del paese; nei loro tremendi soprusi, nei loro atteggiamenti umilianti, nelle loro quotidiane angherie.

                Era questa una considerazione, assolutamente nuova, che cominciava a far bollire la piazza, ormai affollatissima anche di donne e di bambini. I volti più scuri e le braccia più robuste iniziarono ad agitarsi e tra un nome e l’altro la folla diventò incontrollabile. La piazza si colorò di bandiere, qualcuno della folla si armò di mazze, e qualche altro si apprestò a lanciare i primi sassi contro il portone dell’abitazione del Sindaco.

                Poi, d’improvviso, tutta quella moltitudine di gente, nel tiepido crogiolo meridiano, si trasferì sotto il palazzo marchesale, sede del municipio. Il ‘quarto stato’ del borgo, intarsiato di autentico dolore  e di rosolanti ipocondrie, incedeva sicuro come i cirri nel cielo alto e terso, quasi a voler assecondare il tratteggio delle chimere   immaginate dal mitico Pellizza da Volpedo.  Chimere che si stagliavano nei volti icastici dei contadini, intrisi di sfuggente e ruvida elegia. Anche le donne avevano slegato il fazzoletto dal loro capo e principiavano ad esporre boriose i lunghi segni della sopportazione.

 

                Verso le quattro del pomeriggio, quando le abitazioni si erano quasi tutte svuotate, cominciarono a suonare le campane a distesa e il tumulto si trasformò subito in rivolta.  Al suono delle campane, anche quelli che abitavano in campagna, nelle masserie, iniziarono a correre verso il paese.  Tutti avevano intuito che qualcosa di grave ed importante stava per accadere. Infatti la folla, trasportata dalla rabbia, continuò a riversarsi verso il municipio.

                Il Sindaco, le guardie municipali e gli impiegati, già da alcune ore, si erano rintanati in casa.  Quella volta non avrebbero potuto far cambiare idea a nessuno, anzi era meglio per loro  non presentarsi affatto davanti a chi li aveva proprio come bersaglio.

                I rivoltosi si avventarono contro il municipio, spaccarono la porta e salirono negli uffici per mettere a soqquadro ogni cosa.  Cominciarono a rompere tutto, aprirono le finestre e buttarono via sedie, scaffali, faldoni; tutto ciò che vi era tra quelle pareti.

                «Bruciate tutto! bruciate tutto!»                                                     

                Queste erano le parole che la folla adoperava, come incitazione alla rivolta, tra imprecazioni e frasi irriverenti.  Infatti si diede fuoco a tutto, proprio a tutto.  Alle diciotto ogni cosa si era trasformata in cenere.  I fumi di quella rivolta non accennavano a placarsi, anzi la frotta non si sparpagliò  ma iniziò ad organizzare un nuovo assalto, e come accade spesso in simili circostanze l’annunzio di una cosa la fa subito essere.

                Poi il nugolo sempre più fitto scivolò come un torrente in piena verso l’esattoria comunale, la farmacia e la Sezione della Coldiretti. All’estremità c’era un gruppetto che, preso dal gusto del soqquadro,  cominciò a spingere le cose al peggio. I sobillatori, quelli più appassionati, incitavano a gridare sempre più violentemente:  «A morte i padroni! a morte i galantuomini!»

                Giunti all’esattoria comunale, qualcuno, preso dall’ira, sparò in aria con il fucile da caccia.  Tra la folla che avanzava concitata un contadino inciampò nel cordolo del marciapiede, cadde in malo modo e fu travolto.  Sul suo corpo inciamparono altri e furono calpestati anche loro dalla moltitudine di gente che correva e spingeva, invasata, come se avesse il diavolo in corpo.

                Ad un certo punto comparvero in piazza il farmacista don Arturo Trebisonda ed il proprietario terriero don Salvatore Tatò, Presidente della Coldiretti locale. Credendo di poter fermare, con le solite chiacchiere dilatorie ed illusorie, l’onda anomala e bestiale dei rivoltosi, si pararono, incautamente, davanti alla congerie tumultuosa.

                Don Arturo, pentitosi quasi subito, di quel tentativo di pacificazione degli animi, dirigeva inquieto gli occhi a destra e a sinistra, come se cercasse una via di scampo. Ma quando si accorse che erano circondati da una turba di giovani urlanti e assatanati,  seguiti da alcuni contadini facinorosi, i quali brandivano minacciosamente spranghe di ferro, bastoni e forconi di legno, si fermò di scatto e si volse a guardare l’amico.

                Don Salvatore aveva le pupille brillanti e i pomelli accesi; le vene del collo gli erano diventate turgide come se stessero per esplodere.  Chiuse i pugni e li tese, con atto furente, sulla schiera che gli stava dintorno.  «Via di qui, farabutti»  disse.  Ma un colpo di bastone gli cadde sulla testa, violentissimo. Don Salvatore diede un urlo e si portò le mani alla nuca.  Poi ruzzolò, di schianto, a terra.

                Don Arturo, udendo il grido dell’amico, fece un balzo fulmineo, abbrancò stretto l’uomo che gli era più vicino e gli affondò crudelmente i denti nella mano che reggeva il bastone.  Se ne impadronì, resistette ai primi colpi che gli caddero sulle spalle, si volse di slancio e avventò botte all’impazzata a destra e a manca. Nel trambusto gli erano scivolati gli occhiali, aveva perduto il cappello, la folta zazzera grigia gli velava gli occhi miopi. Vedeva agitarsi intorno a lui corpi di uomini frenetici che tentavano di raggiungerlo con le loro percosse.  Don Arturo, facendo cieca assegnazione sul suo fisico atletico, schivava i colpi con un’agilità di gatto impermalito. Urlava, bestemmiava, insultava.  Poi una gragnuola di pugni, di colpi di forcone, lo raggiunse sulla testa, sulle spalle e lo fece cadere tramortito accanto a don Salvatore.

                Sui due caduti ci fu un groviglio di teste, di braccia. Ai margini dell’assembramento la gente spingeva urlando furibonda, impaziente di partecipare alla mischia.  Frasi ingiuriose navigavano e si perdevano in un rumorìo  confuso; facevano il cammino a ritroso e s’incrociavano con altre parole. Ogni tanto una voce dal fondo della piazza raccoglieva il mormorio delle donne che erano rimaste sul marciapiede, e il pensiero comune diventava una frase chiara che arrivava alle prime file degli uomini.

                Le ore passavano, il sole calava, tutte le cose prendevano l’incanto del vespro; fasci di chiarore evanescente si avvicinavano alla terra, la carezzavano, e la terra sembrava gioire di quella benevolenza, porporina, come un finimento prezioso; i comignoli e le pietre risplendevano di luce propria, interna, non comunicata. Una grande luna esile, trasparente, irreale, s’affacciava dai colli dauni, sopra gli ulivi grigi e le case, nell’aria rosata, come un osso di seppia corroso dal sale sulla riva del mare.

                Era il crepuscolo, nel cielo volavano i corvi e nella piazza il tumulto stava sfociando in guerriglia.  La Capitanata era piena d’ombre, e le ombre  avvolgevano  i monti viola e neri che serravano  intorno l’orizzonte.  Brillavano, oltre le colline, le prime stelle; scintillavano di là dal Fortore le luci di Serracapriola, e più lontano, appena visibili, quelle di San Paolo Civitate e San Severo.   Il corso d’acqua, i monti e le colline avevano un’aria cupa e cattiva, che faceva stringere il cuore.

                Poi tra il parapiglia si elevarono delle grida più acute e si udirono sibili di fischietti metallici.  Una voce disse: «I carabinieri!»                                     

                Una mezza dozzina di giovani carabinieri, guidati dal maresciallo Giorgio De Pisis, erano improvvisamente arrivati nella piazza, decisi a ristabilire l’ordine.

                Il maresciallo era un bel giovane bruno, un pugliese, dai capelli impomatati, con un viso cattivo; stretto in un elegante uniforme attillata, dalla vita sottile, con stivali lucenti, profumato, frettoloso e sprezzante.

                Un brigadiere  fece un passo avanti e tentò di mettere le mani addosso ad Erminio. Ma qualcuno doveva avergli dato un colpo nella piegatura delle ginocchia perché il milite traballò; una mano a tenaglia gli abbrancò la caviglia e il brigadiere cadde con la faccia a terra.  Gli altri carabinieri fecero per imbracciare le armi, ma furono avvinghiati alle spalle.

                Nella penombra della sera, che scendeva a passi lesti dalla collina, i corpi dei carabinieri furono come succhiati dalla folla. Si udì un respirare roco, affannato, qualche grido soffocato, e dopo alcuni minuti, i sei uomini dell’arma furono scaraventati da molte braccia, in un angolo del marciapiede. Erano disarmati, con le divise a brani, scarruffati e pesti.

                D’un tratto la gente, come in preda a un panico repentino per la piega eccessiva che stava assumendo la protesta, cercò di uscire dalla piazza gremitissima, gridando, sospingendosi, accavallandosi, componendosi in gruppi frenetici e poi spargendosi ancora.

                Le donne si erano mescolate agli uomini nel tentativo di sgattaiolare presto.  Accanto ad Erminio c’erano  Giovanni, Peppino e una decina di contadini anziani pronti a sbarrare la strada  ad altri carabinieri che erano appena giunti da Larino, per rinforzare la guarnigione del paese.

                Dall’altro lato del piazzale si vedevano gruppetti sparsi di carabinieri e di donne e di contadini che si azzuffavano.  Le donne indietreggiavano, lentamente, difendendosi, come iene, a colpi di zappa. Un crocchio di uomini, a destra, e un altro a sinistra, si erano appiattati dietro un muretto e facevano piovere una grandinata di sassi sui carabinieri.

                Nella piazza ancora stracolma  la parola d’ordine veniva rimormorata da mille voci, sostava per qualche attimo nelle schiere di uomini e donne, e ritornava, da dove era partita, gravida di tutti i consensi. Erminio si chinò, raccolse un sasso e lo lanciò. Si sentì un urlo di dolore. Un plotoncino di carabinieri spuntò a destra ma fu costretto a ritirarsi da una gragnuola di pietre  che partiva da dietro uno spigolo di case, oltre il quale si erano appostati alcuni contadini, accorsi dagli angusti vicoletti adiacenti il centro storico di ‘Campo dei fiori’.

                Erminio si chinava rapido, raccoglieva le sue pietre, mirava calmo, le scagliava sottomano e le mandava sibilando contro il bersaglio. A destra, ad un tratto, carponi, con il respiro corto, si vide arrivare Riccardo; aveva una ferita sulla testa e il viso imbrattato di sangue. Giunto dietro il muretto si rialzò sulle ginocchia malferme.  «Volevano picchiare le donne»  disse ad Erminio  «e mi sono difeso con una spranga».  «Hai sangue sulla faccia» osservò Erminio.  «Credevano di avermi ammazzato, ma è duro Riccardo»   rispose il giovane con voce flebile.

                All’improvviso si aprì un varco nella frotta e un piccolo crocchio di carabinieri scomparve ancora una volta nel gorgo, sospinto da cento mani.  Da tutte le parti dello spiazzo venivano le donne e alcuni ragazzi, con in testa Oreste, figlio di Duruc, e si raccoglievano intorno al muretto.

                Poi la parola circolò nuovamente sulle teste degli uomini, delle donne e dei ragazzi.  I nugoli che prima premevano, adesso indietreggiavano, le grida delle donne si spensero e i contadini, piano piano, si  sparsero nelle case, nelle campagne e nelle masserie.

                Il groviglio si sciolse, la folla diradò ai margini.  Alcuni giovani che erano ancora al centro della piazza scantonarono a passo veloce nei vicoli e si affrettarono a dileguarsi.  Qualcuno lo fece con disinvoltura, come se niente fosse accaduto, e tornò nella propria abitazione; qualche altro, più furbo o più responsabile, si avventurò nella campagna.  In qualche attimo il teatro degli scontri fu deserto.

                In paese era già calata da un pezzo la sera, e con essa tutto era diventato silenzio. I carabinieri si avvicinarono ai feriti per sollevarli.  Alcune donne, dalle finestre che davano sul piazzale, videro la scena ed accorsero affannate, lacrimanti.

                Tra i feriti c’erano don Salvatore Tatò, don Arturo Trebisonda, il giovane Riccardo Molteni,  due carabinieri, tre contadini, di cui uno molto anziano, ed Oreste Iacovone, il figlio minorenne di Duruc.

                Dopo qualche istante arrivò il medico, don Peppe Tramontana, il quale disse:  «Con cautela, mi raccomando. Portateli nel mio ambulatorio».  Nel suo studio don Peppe si chinò prima sul petto di don Salvatore, poi su quello di don Arturo ed infine esaminò le ferite degli altri contusi.  Si rivolse, quindi, alla domestica che, in alcune circostanze, gli faceva anche da infermiera, e chiese bende, canfora, forbici, ago e punti di sutura.

                Nel frattempo in paese erano arrivati altri carabinieri del comando provinciale di Campobasso ed anche Sua Eccellenza il Prefetto.  Nell’apprendere quest’ultima notizia la popolazione che quasi tutta aveva partecipato alla rivolta    tranne quella dozzina di cafoni che ‘appartenevano solo in apparenza al genere umano’ e che ora s’inchinavano e si scappellavano, da consumati ‘gattopardi’, innanzi alla prestigiosa autorità governativa    fu percorsa da un fremito convulsivo irrefrenabile e, come morsa dalla tarantola, invase nuovamente le strade, saltando dalle finestre, per il panico, e correndo indiavolata;  e mentre correva gridava, piangeva, si sfregiava per la disperazione e cercava di nascondersi nei vicoli bui; insomma tutti sembravano impazziti, terrorizzati dalla paura di essere arrestati.

                Verso mezzanotte, infatti, furono fermate e, successivamente condotte nel carcere di Larino,  otto persone, tra cui Duruc, Erminio e Riccardo, al quale don Peppe aveva fasciato la testa, due contadini e tre donne;  queste ultime con l’accusa di ‘eccesso di difesa’ mediante ‘uso improprio di zappa’.

                Arrestare delle donne in un piccolo paese, dove la reputazione e il ritegno valevano senza dubbio più di ogni altra cosa, significava per quelle malcapitate avere seri problemi in futuro; infatti ne ebbero e di ogni genere.

                Tra il gruppo dei detenuti alcuni passarono solo qualche settimana in galera, qualche altro più sfortunato fu condannato a tre mesi, e Duruc, che veniva accusato, non solo di partecipazione armata alla rivolta, ma anche di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, fu punito con un anno di reclusione.

                Dopo quelle condanne in paese, lentamente, sembrò tornare la normalità; ognuno riprese il suo ruolo e il ritmo di vita di sempre.

                A distanza di qualche settimana, dopo le prime scarcerazioni, tra cui quelle di Erminio e Riccardo, ci si domandava ancora a cosa fosse servita la sommossa e se aveva, in concreto, cambiato qualcosa: si valutarono gli effetti e qualcuno stupidamente ne cercava le cause.

                Per la prima volta qualcosa pareva proprio mutato; il popolo aveva espresso, sia pure violentemente, la propria disapprovazione per tutto ciò che gli accadeva intorno. Disapprovazione per i lunghi tempi di lavoro malpagato, per la miseria, per l’arretratezza sociale,  per una condizione di vita crescente di stanchezza  e di scontento.

                Il peso delle tasse e l’approfittarsi dei proprietari terrieri, insieme ai loro comportamenti infingardi ed all’arguzia malvagia, avevano contribuito all’eterno malessere quotidiano, quel malessere che rendeva scarni e sparuti i volti inconfondibili della gente di quel borgo profanato.

                Sulla ‘nuova’ scrivania del Sindaco, nella residenza municipale appena riattata, faceva bella mostra ‘Il Gattopardo’, noto romanzo di Tomasi di Lampedusa, sempre aperto nella stessa pagina, – affinchè tutti potessero prenderne adeguata ed opportuna conoscenza –  con la sottolineatura in rosso del seguente panegirico: «Se vogliamo che tutto resti com’è, bisogna che tutto cambi».

                Quel libro, garbatamente ironico verso l’aristocrazia meridionale e la conservazione stantia dei suoi principi liberistici, era stato regalato a don Pasqualino Franceschini,  venti giorni dopo la rivolta, dal Prefetto, in occasione della riapertura  ufficiale e pomposa della casa comunale, subito dopo il completamento del suo necessario restauro.

                I dodici cafoni che ‘appartenevano solo in apparenza al genere umano’ si precipitarono a leggere quella sintomatica frase  enfatizzata, complimentandosi devotamente con don Pasqualino, e provvedendo subito a diffondere, capillarmente, l’impavido inno  della ‘nuova ideologia’.

                Nei giorni che seguirono il tempo divenne ferrigno ed uggioso, e soffiava il vento che alzava la polvere.  Nella luce diffusa e fredda dei cirri, le case apparivano più rilevate e forse meno tristi nella loro selvaggia e grezza uniformità, che sotto la vampa rovente dell’imminente sole estivo.  In quell’ozio del sentimento, carico di parole senza risposte, in quella solitaria noia zodiacale, il paese riprese, stancamente, il suo ‘naturale’ ritmo assonnato.

                Tutti tornarono a svolgere i lavori che avevano sempre fatto, agli stessi patti, alle stesse condizioni, e i giorni continuarono a passare nella più squallida monotonia, in quel mondo disagiato, senza tempo, né amore, né libertà.

                Il lavoro dei campi riprese alacremente ed avvolse i contadini, come l’acqua verde di un pantano raccoglieva le rane, indugiatesi sulla proda ad asciugarsi al sole. E ricominciò, come prima, la serie dei giorni uguali, grigi e tediosi, cupi per l’aspra fatica, avari di soddisfazioni, di felicità e di libertà tangibili.

                Al crepuscolo, nel cielo volavano le rondini, e nella piazza arrivavano per la conversazione serale, come d’abitudine, i signori, i professionisti e le autorità istituzionali del borgo.  Essi passeggiavano lì ogni sera; al primo brunire  si fermavano a sedere sul muretto o ai tavoli del Bar Centrale, e, voltando la schiena all’ultimo sole, aspettavano il fresco, accendendo le loro griffate sigarette allogene.

                Dall’altra parte, addossati alle case, stavano i contadini, tornati dai campi, e non si sentivano le loro voci.

                Al centro della piazza, in posizione equidistante, la solita dozzina di ‘cafoni inumani’, indolenti ‘scarcatagliole’, propagandava con enfasi il  ‘nuovo  credo politico’,  mentre nei vicoli adiacenti, gli artigiani riponevano gli usuali attrezzi, prima di chiudere, con la consueta flemma, le loro polverose botteghe.

                Su tutti loro e sui tetti delle case, scendeva dalla cima del colle ‘Crocella’, l’ultima luce vespertina, prima che l’ombra della sera soffocasse ogni lusinga e qualche residuo ardore. Sullo sfondo la mole imponente e grigiastra della torre angioina navigava nella profondità del cielo; vene d’aria fresca nello scirocco caldo punzecchiavano le schiene dei villani con brividi improvvisi. Il campanile era una spada che trafiggeva il firmamento; un pugnale infisso nel tramonto che sanguinava nembi accesi; il mastio di una nave di pietra che navigava nel tempo.

                Poi arrivava la notte buia e anche l’estremo anelito si spegneva negli angoli tenebrosi del piazzale desolato, oltre il circolo di luce che faceva la luna piena, alta e gagliarda nel cielo.

                Laddove, pochi giorni prima, si apriva una primaverile foresta sotto un sole chiaro e meridiano, ora in un’oscurità fosca, il mare scatenato nella tempesta non consentiva di pensare che la vita, la felicità, la speranza, la luce, potessero mai splendere nuovamente sulla sinistra devastazione di quella piazza.

                Erminio, nella solitudine della sua stanza, assaporava l’aria ilare della libertà, respirava con voracità il profumo intenso del glicine, sperimentava  la quieta  malinconia della notte agiata;  e l’agrezza nottivaga dell’impeto percettivo entrava nel nido iridescente del suo cuore, attraverso un’indefinibile breccia dell’anima.  Era lui stesso la notte.

                I mutamenti accaduti a seguito della sommossa popolare portarono anche  in quel remoto paese sorprese ed illusioni; ma, per finire, pure quell’anno arrivò il caldo estivo, mutarono ciclicamente le stagioni, piovve e nevicò come tutti gli altri anni, e i poveri rimasero poveri.

 

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