Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Tra le pieghe dell’acqua” di Girolamo Titone

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

 

«Papà?»
«Sì?»
«Domani morirò?»
«Sì, piccolo mio.»
«E tu, soffrirai?»
«Certo. Tutti i papà soffrono quando perdono il loro bambino.»
«E anche le mamme?»
«Certo. Anche le mamme.»
«Allora tu non lo dire alla mamma. Così, se non lo saprà, non soffrirà…»
«Lo saprà, bambino mio. Un giorno lo saprà. E non potrà fare a meno di piangere.»
«Ma quando tutto sarà finito, io rinascerò, lo sai!»
«Lo so. Ma fino a quel giorno ci mancherai, bambino mio. Non puoi immaginare quanto…»

   L’uomo chinò leggermente la testa, e fissò quel viso tenero per un tempo che gli parve eterno. Fu così che volle ricordarsi per sempre del suo piccolo: con quelle spalle minute, che ora avvolgeva con le sue braccia calde; il piccolo petto irrequieto che sentiva agitarsi sotto le sue mani grandi; e quel suo sguardo instancabile, perso nell’aria tremula dell’orizzonte lontano.
La prateria, che si stendeva placida davanti a loro, lastricava quelle terre selvagge con il velluto dei suoi fili d’erba appena nati, e il silenzio che si riversava dalle colline si infrangeva come una mareggiata su quelle due esistenze solitarie, squassandone impietosamente i muscoli ormai stremati.
Era stato un lungo viaggio a condurli fin lì, durante il quale avevano incrociato molte vite di passaggio che avevano brillato solo per pochi miserevoli istanti. Ma ora tutto era come doveva essere. E il destino, che aveva guidato i loro passi fino a quel punto, stava ormai per compiersi.
L’uomo batté delicatamente due colpi contro il petto del bambino, come per ridestarlo da un sonno millenario.   «Andiamo» aggiunse malinconicamente, «Si sta facendo tardi.»
Il bambino non lo guardò neanche. Diede un ultimo saluto al sole, conservando per sé il calore di quella luce accecante. Lo vide spegnersi mollemente nell’abbraccio familiare dell’orizzonte, poi afferrò qualcosa che aveva raggomitolato sotto di sé, si alzò, si voltò verso quella lunga figura che si era già allontanata con passi lenti e severi, e la seguì, come un cucciolo, trascinando per la manica il triste relitto di un giubbotto senza vita. Quello fu l’ultimo tramonto che il bambino vide, e non ce ne furono mai più di così belli.
Passò la notte, col suo manto scuro di presagi. E poi venne il giorno, lieve, che si adagiò sui sogni del mondo sbiadendone il ricordo, e concedendo agli uomini solo la sensazione di un miraggio perduto nel tempo.
La prateria, quella mattina, era ancora più bella. Soffiava una leggera brezza da nord, e il chiarore del sole inondava le mille stille di rugiada che fiaccavano l’erba esile.
«Perché soffriamo, papà? Tu lo sai?»
«No, piccolo mio. Me lo chiedo ogni giorno.»
«Ma i grandi dovrebbero sapere tutto! Se no, che senso ha diventare grandi?» osservò il piccolo. «Io non lo so perché soffriamo, e non avrò il tempo di scoprirlo. Mi sarebbe piaciuto, sai papà? L’avrei spiegato alla mamma, così almeno avrebbe capito perché le scendono le lacrime… e perché sono così amare.»
Il padre guardava il suo bambino quasi fosse la prima volta che lo vedeva… e forse era davvero così. Il distacco rende tutto così limpido, a volte. Si capisce a chi si tiene davvero, e quali cose possono anche essere gettate via senza rimpianto.
«Vedi, piccolo mio, i grandi non sanno tutto. A volte pensano di saperlo, ma in realtà mentono a se stessi. Succede spesso, sai?»
«Io a volte non vi capisco. Perché, quando volete bene a una persona, è come se vi capitasse la cosa più brutta del mondo? State fermi lì, a soffrire, a sperare che vi chiami o che vi pensi, a piangere… e invece dovreste correre, abbracciarla, chiederle come sta, cosa fa di bello, se è felice…»
Il bimbo si fermò per un momento, poi continuò.
«Bisognerebbe far sapere, alle persone, che gli vogliamo bene. E non tenerlo solo per noi…»
Poi, senza distogliere lo sguardo dal tenero filo d’erba che rigirava con cura tra le mani, chiese improvvisamente:
«Tu mi vuoi bene, papa?»
«Un bene più grande dell’universo, piccolo mio!»
Il bambino sospirò impercettibilmente.
«Dovevi dirmelo, papà… dovevi dirmelo che mi volevi bene… quando non era ancora tutto perduto…»
«Lo so, bambino mio.»
«Io proprio non vi capisco. Quand’è che si comincia a essere adulti, papà? Quando si diventa così egoisti, così distratti? Anche tu a volte lo sembravi, papà…»
«È davvero così che mi vedi, piccolo mio? Sono davvero così?»
«Lo eri, papà. Lo eri certamente. Ma questo non è importante. Quello che conta è la tua risposta: lo sarai, papà? Lo sarai ancora?»
L’uomo ristette un momento prima di rispondere. Non era pronto a tanta verità, e gli anni sui quali si era costruita la sua esistenza lo avevano plasmato diversamente da quello che avrebbe voluto essere. Se ne rendeva conto solo adesso che si ritrovava, ferito e dolorante, davanti a quella domanda.
«Proverò a non esserlo più, piccolo mio, ci proverò. Posso solo prometterti questo.»
«Oh, è già tanto, papà, credimi… è già tanto. Avrei voluto che la mamma fosse qui, oggi. Mi piaceva quando mi accarezzava i capelli, prima. Peccato che abbia smesso di farlo. È perché, così, sarà più facile per lei lasciarmi andare, vero papà? Così, il ricordo dei miei capelli, lo dimenticherà più facilmente. Non è così?»
L’uomo non riuscì a trattenere le lacrime, ora. Per tutto il viaggio aveva fronteggiato quell’impeto ricacciandolo dentro di sé, e aveva sperato di essere riuscito a sopprimerlo per sempre. Ma come si poteva non piangere… come si poteva non disperarsi.
«Ti dimenticherai di me, papà?»
«Cosa, piccolo mio?» chiese l’uomo.
«Quando non ci sarò più, ti dimenticherai di me?»
«E come potrei?» rispose commosso l’uomo.
«Dovresti, sai? Dovresti proprio farlo. O almeno dovresti dimenticarti di come sono adesso. Dovresti ricordare il tempo in cui ero il tuo bambino, solo il tuo bambino… e non questo fastidio.»
«Ma tu non sei mai stato un fastidio per me, bambino mio! Mai!»
«Di certo lo sarei diventato presto… e io non voglio essere un fastidio per nessuno. Per questo ora devo morire.
Sai, papà? A volte non mi vedo. Mi guardo le mani, e le gambe, e questa faccia stanca… e non riesco più a vedermi. È una brutta cosa, papà? È brutto se non riesco a vedermi? Forse no, vero? In fondo penso che non sia più così importante. Tanto non sono più io, e tu lo sai. Per questo dovresti dimenticarti di me… io sono andato via molto tempo fa. È rimasto solo uno strano bambino rannicchiato, come fossi ritornato nella pancia della mia mamma. È solo che ora qui è freddo, non è come nella pancia della mamma. Qui non c’è più luce ormai…»
L’uomo guardava lontano, adesso. Scrutava i segreti di quella distesa che sembrava quasi irreale; così, immersa in quella luce rarefatta che il sole distribuiva con munificenza. Sembrò rincuorato per un momento… un solo, impercettibile momento… poi si rivolse al bambino.
«È giunto il tempo, piccolo mio. Dobbiamo andare.»
«Lo so, papà. Abbraccia la mamma per me. Abbracciala forte, non come fate voi grandi… Addio papà, ti penserò…»
L’uomo strinse tra le braccia il suo piccolo bambino, come se volesse fermare quell’attimo per sempre. Poi gli pose la mano destra dietro la testa, e con l’altra sorresse la misera schiena ossuta. Il piccolo si lasciò andare senza opporsi. Socchiuse gli occhi, accecati dal riverbero chiaro del sole, e sorrise mentre sprofondava nelle viscere umide della pozza.
Ora le mani del padre non cingevano più la sua schiena, né sostenevano la testa, ormai sommersa. Ora entrambe spingevano contro le spalle del bimbo, costringendolo in quel letto madido in cui si sarebbe addormentato per l’ultima volta.
Il suo viso delicato, che un tempo era stato felice, ora si intravedeva tra le pieghe dell’acqua, mentre le lacrime dell’uomo coloravano d’amaro la superficie della misera pozza. L’uomo lo osservò per l’ultima volta, e vi scorse quella serenità che lui avrebbe perduto per sempre.
Poi venne il silenzio… e, con esso, il dolore.
L’uomo lasciò andare le spalle del bambino, che rimasero a fondo, mentre le gambe, fuori dal piccolo guado, tacevano immobili.
«Ecco, piccolo mio. Ora vai, e non essere più triste. Ci vedremo un giorno, aspettaci…»

Quando tutto fu compiuto, il sole aveva già reclinato il suo capo altero, riprendendosi quel fulgore che aveva così generosamente elargito. I medici aprirono le tende con cura, scoprendo, dietro i vetri chiari della stanza, i corpi immobili delle montagne ormai innevate. Tolsero con cura l’ago dal braccio del paziente che ora sembrava dormire un sonno profondo, mentre l’uomo, chino su di lui, gli stringeva dolcemente la mano.
«Sono morto, papà?»
«Oh, non più piccolo mio… non oggi…» fece l’uomo. «Sei morto undici anni fa, in quell’incidente che ci ha portato via la promessa di ciò che avresti potuto essere. Ma ti ritroverò, un giorno, ne sono sicuro… Forse tra le lande sterminate di una prateria inondata dal sole… Ti ritroverò, bambino mio… perché so che mi aspetterai…»

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5 commenti »

  1. Questo racconto mi ha colpito. Certo non è facile fermarsi e neanche commentare, perchè non fa nessuno sconto nelle parole e non volta la testa nell’affrontare una tematica così dura, dolorosa e difficile. Si vorrebbe passare oltre, perchè descrive quello a cui di solito non vogliamo pensare. Ma riesce a trovare un equilibrio prezioso nello stile e nella narrazione, che non attenua la forza e il peso dei temi ma li solleva e li filtra, attraverso l’ambientazione fra sogno e inconscio, fino al finale in cui si aprono le tende sulla realtà. C’è tanto dolore ma c’è un messaggio che passa attraverso di esso, e ne nasce una nuova consapevolezza e probabilmente un modo migliore di affrontare la vita, anche se non sarà più la stessa. Complimenti all’autore.

  2. Ci sono parole davanti alle quali ci ritroviamo nudi, come davanti ad uno specchio. Ci guardano negli occhi, ci scrutano e, a volte, sembrano quasi poterci dire chi siamo… cosa siamo diventati. Le tue, di parole, così lucide e mai banali, mi stanno accompagnando segretamente da qualche giorno, rendendo il cammino un po’ meno scosceso. Per questo, per la gentilezza e per la pazienza, ti ringrazio.

  3. Grazie per la tua bella risposta. Volevo anche aggiungere che penso che molti altri, magari più in silenzio, abbiano risposto con le stesse sensazioni ed emozioni a quanto hai scritto.

  4. Tematica difficile, dura e dolorosa, affrontata con una narrativa lieve ed efficace che coinvolge profondamente. Straziante il dialogo immaginario, che ci porta per mano verso la consapevolezza di una amara realtà difficile da accettare. Davvero bello, complimenti.

  5. Devo ringraziare Marco e Pasqualina per avermi accompagnata, con la loro sensibilità e delicatezza, fino a questo tuo racconto, Girolamo.
    Ma ora sono sola, e le emozioni per questa lettura si affollano e premono, e l’unico canale che trovano è l’acqua che scorre, pulisce e purifica.
    C’è acqua nel tuo racconto, fluido materno che culla, che nutre, che dona la vita e qui se la porta via. L’acqua che torna elemento paterno, in una gestazione al rovescio, come innaturale è tutto questo strazio. Troppo dolore per essere lavato, ma forse si può trasformare, nell’attesa e nella speranza che il ricordo passato lasci posto a un nuovo presente.
    Ammiro la forza che hai trovato nel narrare questa storia, e grazie per la forza che forse non sai di dare a chi ti legge.

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