Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Prima di evaporare completamente” di Sauro Venturini Degli Esposti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Credo sia stata paura. Il motivo per cui sono arrivato in questo posto troppo presto, quasi un’ora prima, è stato il timore che si ha di fare tardi quando ci si sente deboli, inferiori, ridotti a stare in basso, chissà poi per quale motivo.
Sono seduto ormai da più di mezz’ora, la schiena si è fatta dura e legnosa, nelle orecchie un ronzio monotono si sovrappone alle voci e ai rumori. Fuori sta piovendo, tra poco sarà buio, la gente che vedo in giro corre verso casa. Guardo l’orologio, poi la tazzina di caffè sul mio tavolo, è ancora presto, mi sposto sulla sedia, cerco di cambiare posizione per dare sollievo ai muscoli della schiena. Tolgo le mani dalle tasche, non sono sudate ma neppure asciutte, sembrano scivolose, avvolte in un vapore caldo.
E’ difficile risolvere in anticipo cose come questa, evitare quello che seguirà, cerco di pensare ad altro, Giuliano mi diceva di fare così in questi momenti.
Il dottor Giuliano Valsecchi è stato il mio terapeuta per quasi due anni, lo vedevo ogni due settimane, di giovedì, nel suo studio in una vecchia palazzina del centro, non lontano da qui. Aveva un viso pallido e i lineamenti solo accennati, il naso era esile, appuntito, i suoi occhi scuri erano gentili ma freddi, come fissi, il dottor Valsecchi non offriva mai niente a cui provare ad aggrapparsi, un sorriso, un gesto più marcato. Vestiva sempre con un girocollo scuro, i capelli biondi che ormai sbiadivano nel grigio pettinati indietro, più lunghi sul collo. Le sue frasi erano sempre così brevi, sembravano avare, calibrate per durare non più di trenta secondi. Del resto, l’argomento dei miei monologhi era sempre lo stesso, le ansie e i pensieri ricorrenti che non davano tregua. Lo scopo dei nostri incontri era trovare insieme una abitudine ragionata di comportamento per distogliere l’attenzione dall’ansia, per occupare la mente con pensieri diversi.
Ho ascoltato il dottor Giuliano Valsecchi per quasi due anni, mentre mi chiedeva di creare insieme un percorso per uscire dai momenti difficili e ho cercato di usare i metodi che mi suggeriva, anche se spesso pensavo che fossero tutte stupidaggini, un giro in cerchio che non portava da nessuna parte.
I momenti difficili. Erano praticamente continui e duravano giornate e nottate intere, il tempo restava fermo, il respiro diventava intermittente mentre grondavo sudore e il corpo rimaneva freddo. Un cubetto di ghiaccio sudato in preda al panico. La cosa più brutta erano i tremori alle mani, le dita sussultavano e sbattevano tra loro, le nascondevo in tasca aspettando che il fremito e il sudore passassero, quando cercavo di spostare i pensieri ansiosi su altro, come mi chiedeva di fare Giuliano, costruendo immagini impossibili, scale che non portano da nessuna parte, oppure cercando di risolvere problemi assurdi, non succedeva proprio niente. Nulla.
Pensavo che avrei visto il dottor Valsecchi in eterno, per tutto il resto della mia vita, ma sei mesi fa, alla fine della solita seduta del giovedì pomeriggio, mi ha detto che quella sarebbe stata l’ultima.
Non possiamo continuare questo percorso, non sarebbe più di alcuna utilità, deve rivolgersi ad una struttura più attrezzata per le sue necessità terapeutiche.
E’ stato come se qualcuno mi avesse appeso per il bavero della giacca a un gancio, senza alcuna possibilità di fuga. Giuliano mi fissava con le labbra tirate, il pallore del viso attenuato in un leggero rossore sulle guance, mi ha dato una busta e un biglietto da visita senza dire altro, lasciando che le sue parole si spiegassero da sole. Sulla porta mi ha salutato augurandomi qualcosa, non gli ho risposto e non ho chiesto niente, me ne sono andato stringendo in mano la lettera per il nuovo terapeuta e il biglietto con le indicazioni di una clinica. L’ultimo suggerimento di Giuliano.
Mentre ti aspetto, vedo entrare un signore di mezza età, il suo impermeabile bagnato gocciola sulle mattonelle di graniglia del pavimento, lui lo appende ad una testa di leone in metallo dorato che sporge dal muro e che non avevo notato. Bevo il caffè ormai tiepido dalla tazzina bianca, mi è sempre piaciuta la ceramica sotto le labbra.
Resto seduto e non mi muovo, voglio convincermi di essere calmo e in pace col mondo. La schiena fa male, tutto sta diventando un momento difficile, nelle orecchie il ronzo è più alto, vorrei costruire un’immagine contro questi fastidi, ma sono in bilico, sento i piedi sul bordo di una giostra che gira e traballa.
Ci siamo, lo so.
Ti vedo che arrivi, una folata di vento mi attraversa ed esce subito, l’aria del bar si fa meno fumosa e il chiacchericcio diminuisce, tutte le cose sembrano più piccole e si ritirano, per farti spazio.
Entri e sei la dimostrazione del divino in terra, una teofania che tramortisce.
Il tuo ingresso rende dignità alla miseria di tutti noi, dopo un solo passo sei già la regina che governa i cuori miserabili che si trovano gettati in questo posto. Porti i capelli sciolti, più lunghi di come ricordavo, il soprabito blu è aperto sopra un vestito leggero, troppo fresco per questa stagione, ondeggi mentre ti muovi e i tuoi occhi chiari non guardano nessuno, ma tutti ora sanno che sei monumento sacro, fatta di musica, un sole di gennaio che rende luce al mattino, la penombra che chiama la sera, ogni imbecille che sta in questo bar adesso lo sa, questo è certo.
Sfiori appena i tavoli e ti fermi davanti a me, ti saluto senza espressione, con la faccia ferma di un aborigeno di fronte a un’equazione di secondo grado.
Trovo il tuo sorriso tirato, inopportuno.
Sotto l’impermeabile appeso al muro vedo una piccola pozza d’acqua che si allarga e per un attimo mi immagino chino mentre asciugo quella chiazza di umido con uno straccio, un ginocchio poggiato a terra.
Ti siedi come se non toccassi davvero niente di quello che ti circonda e dici qualcosa su questo posto, definirei le tue parole sprezzanti e ingenerose, ma resto in silenzio e faccio caso al fatto che non mi hai neppure salutato.
Stai già parlando del tempo speso male, del dovere di entrambi di fare qualcosa per rimediare.
Dalla cresta del loro significato le tue parole schiumano come onde e spargono intorno spruzzi di veleno.
Con gli occhi aperti sogno di chiuderti la bocca con del nastro adesivo, lo giro un paio di volte intorno alla tua testa, con un gesto risoluto, elegante, anche se il momento non lo richiede.
Queste immagini finiranno per distrarmi, decido che devo starti a sentire e ti ascolto, cercando di non pensare al ronzio cupo che ho in testa. Adesso che lo faccio mi accorgo che le tue parole hanno lo stesso passo di sempre, la solita cantilena storta che ci ha rinchiuso insieme per anni, che avevo dimenticato, frenetica, cattiva, piena di un buon senso apparente, del tutto inutile.
Arrivi al punto e mi dici che dovrai passare da casa, domani, per prendere non ho capito cosa. Scopro il motivo rancido e pulsante che ti ha portata qui, il motore che ha spinto le tue parole, sillabate senza preamboli, pronunciate per ricordarmi che non vale la pena cercare un modo o una misura per uno come me.
Ho un desiderio preciso, motivato e del tutto logico, penso che sarebbe giusto mettersi a urlare, ma riesco a trattenermi. La nausea mi sale dallo stomaco e si ferma a metà del petto, sto per vomitare il pranzo e gli ultimi anni su questo tavolo, mi dico di non farlo, sarebbe un altro dei motivi che mi rendono – come dicevi sempre? – una persona contorta e sgradevole. Voglio arrivare presto alla fine e dico in fretta che va bene e che puoi passare domani a prendere tutto quello che ti serve. Lo hai già chiesto e richiesto mille volte, lo so, sarebbe più facile se tu avessi ancora la chiave, lo so, di cosa dovrei aver paura, ma ormai è andata così, e cosa puoi farci tu. Lo so. Quanto sarebbe stato diverso se anch’io avessi avuto un lavoro stabile, se avessi voluto un figlio. So già anche questo. Se ti avessi davvero amata, se mi fossi curato dalle mie dipendenze.
Una vita passata a fare centinaia, migliaia di cose e quello che conta alla fine sono soltanto quel paio che non hai fatto, quello che non sei stato. Una vera ingiustizia senza rimedio, questo è certo.
Mi sento spento come una candela in mezzo a una chiesa buia, ho ancora dolore alla schiena e un rumore cupo e meccanico in testa. Mi immagino in piedi mentre ti carezzo gli occhi e poi spingo dentro le dita nel molle delle orbite, tu resti in silenzio e il sangue gocciola caldo dalle tue guance sul pavimento di graniglia, scuro come le cose che non ho mai fatto.
Fuori la pioggia è diventata un vapore stento e nero, la cameriera porta un altro caffè, il tuo lato del tavolo è vuoto. Deve aver capito qualcosa, anche se io non ho detto niente, mi spiega che l’ho ordinato poco fa e poggia lo scontrino sul tavolo. Avrà forse vent’anni, è bionda e molto magra, le braccia scoperte e un grembiule nero con la scritta del locale ricamata in giallo, su una targhetta appuntata sul petto leggo il suo nome scritto col pennarello, Elsa o forse Elisa, non vedo bene. I suoi occhi grigi sembrano allargarsi mentre mi guardano, sta aspettando, prendo il portafoglio dal cappotto ma non riesco a pagare la cifra giusta. Elsa, forse Elisa, si offre di aiutarmi e prende lentamente i soldi, con un sorriso che imbarazza tutti e due, li conta davanti a me, come farebbe con un vecchio spaesato e malato.
Le dico con una voce che esce come un filo che ho trentadue anni e la ringrazio.
La pioggia mi batte sulle spalle, mi accorgo di essere uscito in camicia, devo aver dimenticato il cappotto nel bar. Salgo le scale di casa tenendomi sulla destra, aggrappato al corrimano di legno, non accendo la luce, mi tolgo le scarpe e le poggio a tentoni sul ripiano più alto del ripostiglio. Trovo il divano col chiarore delle luci di fuori, mi distendo e chiudo gli occhi, inizia un’immagine, la luna esce dalle nuvole e cade di schianto sulla terra.
Prima di evaporare completamente, penso al cappotto. Domani tornerò a riprenderlo, si deve sempre rimediare, in qualche modo.

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9 commenti »

  1. Potente, doloroso, soffocante, costrittivo. Una prosa spietata ed incredibilmente efficace. Non so se esiste la parola psicoclaustrofobico, ma è così che mi sono sentito, non vedevo l’ora di uscire da quella mente. Bravissimo.

  2. Concordo con Marco, è un racconto potente, che non lascia scampo. Complimenti!

  3. Veramente straordinario, complimenti Sauro! Si riconosce nel tuo stile la potenza narrativa di un vero scrittore. Concordo pienamente con quanto scritto da Marco, un insieme di pensieri dolorosi ma nello stesso tempo vissuti con quotidiana abitudine, carichi di consapevolezza e accettazione. Il racconto ti lascia lentamente senza ossigeno e lo fa con misurata maestria, non ti soffoca ma ti costringe ad arrivare stremato alla fine. Veramente tanti tanti complimenti.

  4. Bellissimo viaggio interiore, fatto tutto d’un fiato con il desiderio di tornare a casa presto, al sicuro. Complimenti.

  5. Un racconto notevole, che rivela una grande capacità narrativa. La cura che hai messo nei dettagli e il crescendo emotivo a cui si assiste portano il lettore lì, accanto al protagonista. Molto forti le immagini e incisiva l’irruzione del personaggio femminile. Non so se era nelle tue intenzioni, ma mi è sembrata un’allegoria della morte. Complimenti.

  6. Ritmo assordante e scrittura coerente con la paranoia del personaggio, fatta di frasi brevi e taglienti. Una sorta di danza macabra e ossessiva. Bravo Sauro.

  7. Mi associo agli altri complimenti: trasmette con forza tutte le sensazioni provate dal protagonista.

  8. Cito a memoria: “Una vita passata a fare centinaia, migliaia di cose e alla fine contano solo quelle due a o tre che non hai fatto”. Bellissimo e profondamente vero. E la cameriera… Carina, ma forse a volte è meglio astenersi dalle buone azioni. Bravissimo, complimenti.

  9. Grazie davvero a tutti per il tempo che avete dedicato alla lettura del mio pezzo e soprattutto per le vostre parole, così generose.

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