Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Latte” di Elena Dragoni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Era la nonna. Era mia nonna.

Era suo il sorriso radioso che piroettava tra i fornelli di una vecchia cucina economica.

Erano sue le mani buone che accarezzavano la mia testa di bimba capricciosa e testarda. Le mani sapienti capaci di aggiustare vestiti logori e musi lunghi.

Era sua la dolcezza disarmante contro cui si arrendeva ogni pianto.

Era lei porto sicuro di piccole angosce, faro di luce della mia infanzia.

Ma questo era prima. Prima della caduta, che ha spezzato le sue ossa, irrimediabilmente. Che ha spezzato qualcosa dentro di lei, per sempre.

Adesso vive in un istituto. Le chiamano residenze come si trattasse di villeggiatura.

Mia mamma va a farle visita a giorni alterni. Credo si senta in colpa. Per non essere riuscita a prendersi cura di lei. A proteggerla. Come se da quell’offesa che è la vecchiaia si potesse proteggere qualcuno.

 

Oggi andiamo da lei insieme. Sono mesi che non la rivedo.

La splendida villa in cui ha sede l’istituto sta su un morbido declivio collinare, a cui si arriva per tornanti dalle viste mozzafiato: l’armonia della campagna toscana è il contrappasso destinato a questi spiriti oltraggiati. Come nel limbo, anche queste anime sospese hanno il loro castello.

È luogo incantevole. Lo è abbastanza per poter dimenticare cosa vi si consuma.

Mentre percorriamo la strada, ho la nausea. Non sono le curve.

Vorrei scendere. Vorrei poter dire a mia madre che io mi fermo qui. Vorrei saperle dire la verità; che non ce la faccio.

Ma nel copione comandato da Dio, mia madre è la figlia prodiga, e io la nipote devota; l’omaggio che dobbiamo alla nonna non si può rinnegare. È la nostra genitrice, la linea matriarcale del nostro sangue, che di cordone in cordone dalla sua pancia è arrivato a me.

Questo sangue che adesso, da qualche parte, si è ammalato.

E io lo sento, che torna indietro e mi avvelena l’anima di rabbia. Non so ostinare gesti e parole alla desolazione di un amore interrotto.

Siamo arrivate. Varchiamo l’ampia soglia in pietra e un odore di rancido, un misto di urina e candeggina, ci prende la gola.

L’odore non mente. Non si può contenerla, anche se inamidata la morte serpeggia per queste stanze. Questi segnali sono la sua anticamera.

Penso alla nonna e sento le gambe deboli; ho voglia di scappare lontano come quando ero bambina.

Ma mamma prosegue, giusta, e sorride a tutti quelli che incrociamo. La seguo rapida, faccio in modo che il suo corpo pur minuto mi schermi. Tengo gli occhi bassi.

 

La nonna è sistemata nella grande sala comune. Raggi di sole filtrano tra i raggi delle ruote della sua sedia.

Guarda verso di noi, ma non noi. Guarda ma non vede nulla, così si guarda dal paese del non ritorno.

Rivederla mi dà ogni volta un dolore sconfinato. Un fitta mi prende il ventre. Mi si annebbiano gli occhi. Ogni mio sforzo si concentra nel pensiero: non piangere.

Mamma le fa una carezza, due, tre. Le sistema un ciuffo ribelle sulla testa canuta. Si siede accanto a lei e le fa domande che non attendono risposta, le sorride.

Nonna è un muro di carne. Stretta nelle spalle, in una posa innaturale completamente ritorta su di un fianco. Guarda ostinatamente altrove.

Una voce rotta che non riconosco come mia dice ciao, nonna. Me ne vergogno come se l’avessi offesa.

Intorno a noi brulicano residui di uomini e donne. Mettono in scena a caso pezzi delle loro vite vissute o immaginate: in questo teatro infinito tutto si può. Qualcuno urla, qualcuno piange, qualcuno tace, qualcuno dorme accasciato sul relitto di se stesso.

Mi sento le spalle pesanti. Questa umanità pesa come il nostro destino. Capisco perché la confiniamo dove non possiamo vederla. Mi sembra sensato e vile insieme.

Mia mamma si alza, segue una giovane donna dal camice bianco per i rituali aggiornamenti su appetito, sonno, funzioni corporali. La fine della vita è un’involuzione neonatale, pannoloni compresi.

 

Restiamo io e lei.

Come se farlo avesse un qualche valore per lei, le sorrido. Sorrido alla mia nonna che era, all’unico involucro di lei a cui posso ancora farlo.

Appoggio una mano sulla sua, quasi col timore di farle male. Sospiro. Provo pietà per me, che non so ancora come vivere; per lei, che non sa più  come morire.

Lentamente, senza dare alcun preavviso, lei gira la testa verso di me. Sussulto. Annego all’istante nell’illusione che possa vedermi e riconoscermi.

Accenna una smorfia dolce corrugando le labbra. La mia mano adesso stringe la sua, che è ancora morbida come la ricordo.

Socchiude piano le palpebre, in una concentrazione per lei impossibile. Quando li riapre, mi fissano grandi occhi antichi, pieni di latte.

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9 commenti »

  1. Molto triste e intenso questo racconto, una riflessione dall’andamento poetico sulla fase finale della vita. Bellissimo lo stile, limpido ma ricco di suggestioni. Un bell’esempio di unione tra forma e contenuto.

  2. Torno ora a casa dopo una giornata ‘topica’ e non chiedermi perché.Sono accasciata sul mio letto pensierosa e deciso di scartabellare le storie di Racconti nella rete.Leggo il tuo racconto …poco fa ho fatto una corsa al super per prendere Latte , perché senza la mattina non è possibile, e tutto ha un senso, perché il tuo racconto, (tu non lopuoi sapere) si va ad incastrare perfettamente nei ricordi e tristezze riguardanti un’altra persona che non c’è più , e alla quale giocoforza oggi Ho Dovuto pensare.E capisco perfettamente ogni tuo sentimento e il significato che dai, tu, al latte. Sembra strano , ma non ho più voglia di piangere.Delle volte serve poco, o magari un racconto, per capire se stessi.ciao.

  3. Anche a me Elena il tuo racconto ha ricordato tante immagini e sentimenti. Se è così triste per un adulto vedere una nonna così al “residence” ti lascio immaginare cosa può essere andare trovarci a 14 anni il proprio padre di soli 43 anni in seguito ad un incidente sul lavoro. Accompagnata da un obiettore di coscienza e da un fratello di 8.crescere fra l’odore di urina e candeggina, fra urla pianti lamenti e occhi assenti. Gli anziani non mi facevano pena, anzi, per quanto brutto fosse il posto, se erano lì alla loro età vuol dire che avevano avuto la fortuna o il privilegio di vivere una vita intera prima.

  4. Elena, la parola latte del titolo che ritorna sul finale racchiude la potenza suggestiva del tuo racconto. Morbidezza, ineluttabilità, dolore, vecchiaia, generazioni, cuore, scorrere veloce del tempo, bianco. Latte materno che dà la vita, il colore bianco latte suggestivo di quello che ci aspetta dopo. Brava.

  5. Bellissimo e suggestivo. Un uso sapiente e consapevole dei termini, che riproducono sensazioni conosciute solo da chi è entrato in questi luoghi e in queste vite. Non saprei che aggiungere, visto ciò che mi ha lasciato addosso, se non di nuovo… bellissimo.

  6. Grazie a tutte. Ho cercato di raccontare un incontro impossibile. Attorno ruotano tanti di quei temi…ed emozioni.
    Quello che più mi premeva emergesse è l’aspetto della dignità, che dovrebbe essere l’ultima cosa che lasciamo sulla terra.
    Anna, hai ragione; concludere una lunga vita è comunque un privilegio. Grazie ancora.

  7. Cara Elena
    La “tua nonna” mi ha fatto commuovere. Quindi brava! Piangere in fondo è un po’ come ridere. Purtroppo certi argomenti non possono divertire, purtroppo nella vita si danno circostanze che ci fanno compiere azioni per le quali poi ci detestiamo! Complimenti per avere dato così bene voce ad un dolore che secondo me è molto diffuso!

  8. Racconto ben scritto, che rende perfettamente l’infinita tristezza di queste situazioni. Per quanto mi riguarda, non è il “latte” riportato anche nel titolo, ma quel drammatico e inquietante imperfetto “Era” ripetuto tante volte nella prima parte, che racchiude tutto il senso della storia. Siamo fatti così, conserviamo dentro di noi il ricordo di come erano prima, i nostri cari. Ci si spezza il cuore e fatichiamo a riconoscerli quando non sono più presenti a noi e a loro stessi. Brava Elena, molto bello.

  9. Bello e intenso. Un tema difficile affrontato senza retorica con parole piene di domande sul presente e di certezze sul passato. I sentimenti che vorrebbero trovare attraverso una comunicazione sempre più semplificata di frasi, gesti e infine contatti una destinazione per restituire quanto ricevuto, e forse, per un attimo, ci riescono.

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