Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “La luce accesa” di Marco Giampieri

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Mary aspettava ancora sulla sua veranda.
L’ombra del portico di legno chiaro si allungava sul prato verde segnato dal tramonto e tutto intorno era silenzioso. Solo si sentiva il vento estivo portare una dolce fragranza di eucalipto e le foglie della quercia accanto alla casa sembravano anime leggere scosse dall’alito di Dio. Quante volte Mary si era chiesta dove fosse finito Dio o almeno la sua giustizia, la sua trama di salvezza? La sera scendeva ancora una volta sul suo sguardo lanciato oltre i campi di mais, oltre la linea sottile che divideva l’oro del cielo da quello della terra, l’una quasi sottomessa all’altro. Quando tutti, nelle case intorno, rientravano per la cena, lei si metteva sotto la pergola a godersi lo spettacolo e ad aspettare. Come se quella fosse l’ora più propizia per parlare con Dio o almeno per interrogarlo. Dalla sua poltroncina imbottita vedeva la distesa infinita di pannocchie inghiottire e sbriciolare il disco perfetto del sole fino a quando un bagliore perlaceo invadeva pian piano la limpidezza del cielo. Le luci delle case intorno si accendevano e a Mary piaceva rimanere ancora lì a guardare il nero degli uccelli che rientravano e respirare il profumo spesso della siepe di ciclamino sotto la balaustra. Da mesi ripeteva quei gesti, tutte le sere usciva ad aspettare fino a quando il crepuscolo cedeva alla notte. Allora accendeva la luce della veranda e rientrava in casa per la cena.
Tutto quello che sapeva era scritto nella lettera di Lucy. Una mattina si era alzata, un piede dopo l’altro, con gli occhi semichiusi e l’aveva trovata sul tappeto accanto alle pantofole. “Mi dispiace, ma qui non posso vivere. Ho preso dei soldi dal tuo portafoglio. Se tornerò te li restituirò. Ma non lo so, se tornerò, intendo.”
E così dopo Gino anche Lucy se n’era andata. E Mary era rimasta sola nella sua bella casina con la veranda in legno chiaro e la sua poltroncina a guardare il tramonto sui campi di granturco. Erano passati già tre anni da quando Gino le aveva detto che c’era un’altra, si chiamava Stefania, ma lui la chiamava Stefy. Lei lo capiva, lo apprezzava e a letto era tutta un’altra cosa. Mary aveva provato a dirgli non fa niente, non m’importa se ti sei preso una libertà, rimani con me. Ma lui le aveva detto che Stefy era incinta e che non aveva nessuna intenzione di chiederle scusa per quanto era successo, e che era tutto inutile perché ormai aveva deciso. Quella sera stessa, Gino aveva preso la sua roba e si era portato via anche il cane che aveva regalato a Mary due anni prima. E Mary era rimasta a guardare in silenzio quel suo darsi da fare tra le stanze, mentre riempiva due valigie come se stesse scappando inseguito da qualcuno, neanche il tempo di parlare. Tutto quello che Gino, nella fretta, aveva lasciato, Mary, il giorno dopo, lo aveva bruciato nel prato davanti alla casa mentre Lucy piangeva perché Gino si era portato via il cane. Una settimana dopo Gino aveva telefonato per venire a prendere le cose che aveva dimenticato ma Mary gli aveva detto “Fottiti, se vieni ti sparo con il fucile di mio padre” e Gino così non si vide più.
Ma Lucy, no. Non ce la faceva a sopportarlo, anche se non poteva farci niente, era maggiorenne e aveva diritto alla sua vita. Ma perché andare via così, senza una parola, senza una possibilità? Dai carabinieri c’era andata per denunciare la scomparsa, ma le avevano detto che era maggiorenne, che era chiaro che si trattava di un allontanamento volontario e che quindi avrebbero diffuso la segnalazione ma che, insomma, nessuno poteva costringerla a tornare.
Così Mary aveva chiuso la stanza di Lucy, così come l’aveva lasciata, ordinata, come sempre, per cercare di far rimanere dentro il suo profumo, qualcosa che entrando la potesse illudere di trovarla ancora lì, ma dopo un mese anche l’odore di Lucy era scomparso.
Nelle serate d’inverno a volte nevicava e Mary allora rimaneva dietro la finestra ma lasciava sempre la luce accesa, anche se era convinta che Lucy non sarebbe tornata mentre nevicava. Lucy se n’era andata in un giorno d’aprile, il 7 per la precisione, era un giovedì e sugli alberi spiccavano dei grossi nidi. Quando Mary si era alzata, alle 8, c’era ancora la nebbia e, dopo aver letto la lettera di Lucy, si accorse che dai campi saliva un tenue vapore.
L’idea di non spegnere la luce della veranda le venne la sera stessa, anche perché quella notte non dormì, convinta che Lucy prima o poi sarebbe tornata. Alle undici passò Giovanni, il vedovo che abitava nella fattoria confinante. La salutò, le chiese se c’erano novità e se c’era qualcosa che poteva fare, Mary disse grazie, no, non credo, comunque grazie Giovanni. Lui si fermò sulla veranda per un po’, rimasero a lungo in silenzio e poi si scambiarono la buonanotte.
Una sera di luglio Mary, dopo cena, mentre sedeva sulla sua poltrona con lo sguardo fisso ai campi di mais, vide una figura di donna che si avvicinava alla casa. Mano a mano che si faceva più vicino cominciava a distinguere meglio i tratti del suo profilo e il colore dei suoi vestiti. L’andatura era lenta e stanca, di chi ha camminato già molto, ma nel passo e nella postura del corpo trapelava una speranza o comunque una soddisfazione, come di qualcuno che arriva al traguardo e anziché alzare le mani si piega su sé stesso e subito dopo guarda avanti e ti fa capire che ha dato tutto anche se non poteva vincere. Mary aveva capito subito che non poteva essere Lucy e ora si era alzata per guardare meglio. Scese i tre gradini dalla veranda al prato e rimase immobile ad aspettare, con lo sguardo dritto ma non severo. La donna era ormai a pochi metri da lei, non la conosceva, non l’aveva mai vista prima e si domandava cosa l’avesse condotta nella sua casa.
–   Buonasera, le chiedo scusa, ma ho visto la luce da lontano ed era l’unica accesa qui intorno. Mi chiamo Ester, Dio, ho camminato tutto il giorno, sono sfinita.
–   E’ un po’ tardi per andarsene in giro, tra poco sarà buio e qui intorno ci sono solo campi di mais. Io sono Mary, venga, si sieda, vuole un po’ d’acqua?
–   Si, grazie, ne ho proprio bisogno.
Mary sentiva il suo cuore battere più forte e non capiva perché. Prima di rientrare in cucina a prendere l’acqua, la guardò attentamente. Doveva avere poco più di quarant’anni, anche se il suo viso ora era un po’ segnato dalla fatica. I suoi occhi scuri e dalle ciglia lunghissime erano profondi e sinceri, il suo aspetto non manifestava nessuna malizia, i capelli chiari, leggermente mossi, si adagiavano appena sulle spalle lasciate scoperte dagli abiti, e aveva una bocca molto bella, carnosa e di un colore rosato che sembrava innaturale. C’era qualcosa in lei che ispirava fiducia e familiarità. Anche la voce le ricordava qualcosa di intimo, di vissuto e Mary avvertiva tutte queste sensazioni traspirare dalla sua pelle ed impadronirsi del suo sguardo, orientando il suo corpo sempre più verso una domanda:
–   Da dove viene Ester?
–   Da Ostiglia, non è proprio qui dietro…
Sorrisero entrambe come se fossero amiche esauste dopo una giornata passata fuori, al lavoro in campagna.
–   Ecco l’acqua.
–   Grazie Mary, sei gentile
–   Beh non capita molta gente, da queste parti e … essere gentili non costa niente
Non si rese neanche conto che Ester le aveva dato del tu, non era sorpresa, la sua testa stava solo cercando di recuperare immagini, suoni, sguardi e movimenti per metterli a confronto con quelli di Ester. Ormai era sicura che Ester non le era del tutto estranea, pur essendo certa di non averla mai incontrata prima.
–   Ah .. freschissima, ne avevo proprio bisogno … posso usare il bagno?
–   Certo, venga .., le faccio vedere dov’è e poi ..vuole mangiare qualcosa?
–   Sei davvero molto gentile.. ma non vorrei …
Si alzò mentre pronunciava queste parole ed il suo gesto nel rimettersi a posto i capelli fu come un lampo per Mary, tutto le sembrò chiaro, l’inflessione nella voce, lo sguardo liquido, un po’ malinconico. Osservò la sua andatura mentre si dirigeva verso il bagno, osservò meticolosamente l’ondeggiare delle spalle, la tendenza ad appoggiarsi sull’interno del piede destro. Era sicura di non sbagliare. Comprendere chi era ed entrare in uno stato di ansia feroce fu tutt’uno. Tornò a sedersi sulla poltrona in veranda. Sentiva l’adrenalina salirle dai reni come le capitava spesso nelle situazioni di grande tensione e vide che le mani le tremavano più del necessario. Quando Ester tornò non si girò verso di lei, attese che si fosse seduta e dalle sue labbra scivolò un fremito. Le parole le uscivano a fatica.
–   Come hai fatto a trovarmi?
–   E’ importante?
–   Sei la madre di Lucy.
Era passata al tu anche lei e la sua non era una domanda.
–   Si. Mi dispiace, ma non ho trovato un altro modo.
Mary a quel punto abbassò la testa, se la prese tra le mani e cominciò a ridere, ma sembrava un singulto e presto si trasformò in singhiozzi che tentava inutilmente di frenare. Poi, senza togliere le mani dal viso, riuscì a dire, strozzando le parole:
–   Mary non c’è più, non c’è più, se n’è andata da più di un anno! Prima se n’è andato Gino, sono tre anni, mi ha piantata come se fossi un mobile, un tappeto, poi anche Lucy, mi ha lasciato con un pezzo di carta, solo uno stupido pezzo di carta con poche parole “Mi dispiace, ma qui non posso vivere”, a lei dispiace, a te dispiace, a tutti dispiace. E a me? Anche a me dispiace, Dio, “qui non posso vivere”, e io? Io posso? Pago anche le colpe di Gino, pago tutte le mie illusioni, le mie povere pretese senza senso, oh, si, senza senso, cazzo…
–   Calmati Mary, ti prego, io, accidenti… sono sconvolta,
Mary continuava a tenere il suo sguardo fisso ai campi o al cielo ormai scuro, non riusciva a guardarla. Faceva dondolare la poltrona che produceva un rumore secco e sgraziato a contatto con il pavimento di legno. Ester si alzò, si inginocchiò accanto alla poltrona e mise la sua mano su quella serrata di Mary.
–   Io volevo vedere come era, volevo vederla prima di partire, tutta la mia vita…. Per uno sbaglio… ora che era grande volevo.. non so cosa, Dio.., non è possibile, mi dispiace moltissimo per te…
Mary abbassò lo sguardo sulla mano di Ester, poi la guardò in viso.
–   Si, tutta la vita .. non si può dimenticare una figlia, non si può, a un certo punto lei ha cominciato a chiedere … soprattutto dopo che Gino se n’era andato, voleva sapere perché, se io sapevo qualcosa, forse l’abbandono di mio marito le aveva mostrato una realtà che non aveva mai capito fino in fondo, la vita è stupida a volte, è un gioco infantile e crudele, così anziché affezionarsi di più a me ho cominciato a farle rabbia… detestava la mia solitudine, la mia rassegnazione, detestava la mia vita… mi amava sicuramente e per questo era spaventata… almeno io la vedo così…
Ester si sedette in terra accanto alla poltrona e non smise di tenere la mano di Mary. I suoi occhi ora vagavano dai campi lontani ai piedi nudi di Mary, piedi con le dita contratte quasi a voler trattenere qualcosa che non poteva essere mostrato. Mary smise di dondolare.
–   Da quel giorno, da quando se n’è andata, la luce è rimasta accesa tutte le notti, perché Lucy, tornando, doveva vedere da lontano che qui non c’era indifferenza, che la rassegnazione non è oblio, doveva capire che l’attesa era un dolore che mi potevo permettere, tutti i giorni, tutte le notti… io ho sempre pensato che tornando e vedendo la luce da lontano avrebbe potuto decidere.. conoscere meglio la vita di chi era rimasto….
Non riusciva neanche a piangere. Provava una grande pena per Ester. Una madre che decide di abbandonare sua figlia che poi scopre che la figlia è in grado di compiere un gesto per certi versi simile non può essere oggetto di disprezzo o preoccupazione.
–   Io non volevo ingannarti, non volevo complicarti la vita…
Mary aveva ancora la forza per l’ironia
–   Sei arrivata tardi e poi .. più complicata di così!
Ester sorrise in modo complice.
–   Non siamo messe bene, eh?
Ambedue rimasero in silenzio, quasi a superare il lieve senso di colpa che quel piccolo sorriso aveva loro procurato.
–  Dopo venti anni lascio questo paese, torno in Polonia e mi sarebbe piaciuto tanto affrontare questo viaggio con lo sguardo di mia figlia, lo so, lo so, sarebbe stato un errore, ma a volte il rimpianto è meglio della speranza.
– Sai, Lucy non mi era mai sembrata polacca, cioè .. lo so è una cosa stupida, non mi sembrava avesse i tratti di una bambina polacca..
– Ma il padre era italiano ….
– Come l’avresti chiamata se … si.. insomma?
– Penso Maria, si Maria
– Due Marie in casa …
– Beh, lei non sarebbe stata Mary…
– Vieni, ti faccio vedere una cosa.
Ester ci sperava da quando era arrivata. Mary entrò in casa e si diresse verso la camera di Lucy. Quando aprì la porta Ester le prese il braccio. Dalla stanza proveniva un piacevole fresco; era nella parte meno esposta della casa e l’ombra di un grande ciliegio la proteggeva dal sole. C’era un letto singolo con una testata in legno ricavata da una vecchia porta, una scala di quelle che si usavano in campagna per salire sugli alberi ora adibita a portaabiti, il manifesto di un concerto dei RHCP, la sciarpa del CUS Rovigo, e tantissime foto attaccate ad un foglio di plastica trasparente usata come lavagna. In terra, accanto al letto due pantofole crocks viola, sul letto una maglia gialla con una foto di Lucy al Carnevale di Venezia. Ester andò subito a guardare le foto e portandosi la mano davanti alla bocca non riuscì a trattenere stupore e commozione. Sul comodino Fight Club e sulle mensole spiccavano American Pastoral, i fumetti di Zerocalcare e le poesie di Catullo. Quello che per Mary era un altare per Ester era un’epifania, una suite di suggestioni e rivelazioni, un piccolo sogno mai sognato davvero. Gli oggetti restituivano in pochi secondi una parte di vita che non avrebbe mai più condiviso con sua figlia.
–   Ti somiglia vero?
–   Si, …, è banale lo so, ma a me sembra bellissima
–   Lo è, lo è, … è bellissima
–   Dio, che dolore deve essere per te….
–   Vieni, ho una bottiglia di vino che mi aveva portato Giovanni, un vedovo che abita qui vicino, ma non l’abbiamo mai aperta, ti va?
– Magari bere ci farà bene… mi piacerebbe tanto fare una doccia, mi sento sudata e sporca
– Certo, ti do un accappatoio, vieni.
Un senso di tenerezza stava avvolgendo Mary, quasi che stesse attendendo da tanto tempo di fare quei gesti, accogliere qualcuno che tornava stanco alla sua casa e bisognoso di attenzioni premurose. Quella donna era la madre di Lucy, questa era la casa dove Lucy aveva vissuto, dove era cresciuta, da dove era fuggita. Sembrava quasi che questa sospensione, questa incompiutezza, questo vuoto che Lucy aveva aperto con la sua fuga potesse essere almeno parzialmente ricucito. La calda premura di Mary era il filo con cui lavorare su quella ferita e Mary per la prima volta pensò che la luce non era rimasta accesa invano.
Era mezzanotte passata. Ester era tornata dalla doccia, e ora, con i capelli bagnati ed il viso più disteso, la somiglianza con Lucy sembrava accentuata. Presero due bicchieri e Mary versò il vino. Bevvero in silenzio, un po’ perché non avevano voglia di parlare, un po’ per la stanchezza. Mary disse:
–   Ti preparo il letto
–   Grazie, ma domani mattina vado via
–   Puoi rimanere quanto vuoi
–   Lo so, grazie. Ma domani devo partire. Ho appuntamento per prendere un pulmino con cui viaggeremo fino a Cracovia.
–   Non sono mai stata a Cracovia
–   È molto bella e poi … è la mia città
–   Non sono mai stata in molti posti in realtà…
–   Hai avuto una figlia da crescere…
–   Si, e un marito da prendere a calci…
–   Io sono stanchissima, non ce la faccio più …
–   Vai, vai. Io rimango ancora un momento qui. Buonanotte Ester.
–   Mary volevo dirti…
–   Non c’è bisogno…. Sono rimasta sola ma non sono stupida… la vita prima o poi si riprende il suo pegno, sempre… buonanotte.
–   Buonanotte Mary e… grazie, davvero. Sei una brava donna.

Mary si versò ancora un bicchiere. Non voleva dormire. In una notte così non voleva. Non è che il dolore non ci fosse più, ma si rendeva conto che le distanze a volte sono solo un battito di ciglia. Da mesi pensava che, in fondo, oltre quei campi di mais, oltre quel confine di luce, non ci fosse più niente o perlomeno niente che potesse toccarla. La luce accesa era solo un’abitudine in fondo, come lavarsi, mangiare, sedersi in poltrona, imprecare contro il destino, chiedere a Dio di occuparsi di lei. Non viveva di speranza e la sua attesa era solo l’ombra di un’illusione. Ma quello che le era concesso ora invece era una commozione nuova, un’intimità con il dolore altrui, una resa senza condizioni. E questo la convinceva di più che non la necessità dei gesti. La vita le stava confidando un piccolo segreto e lei era capace di accettarlo. Certo l’amore non si può sostituire, ma la sua pratica ci induce a provarne nostalgia e questo ci predispone a cambiare la geometria del tempo che passa.
Quando la mattina si svegliò, si trovò addosso una coperta che non ricordava di avere quando si era addormentata sulla poltrona. Solo vedere il rosso del vino nel bicchiere le dava la nausea e una nebbia leggera sfumava la vista sui campi di mais.
Ancora una volta doveva leggere parole d’addio. Ma già lo sapeva. Era così che doveva succedere.
“Cara Mary, la vita che separa è più reale di quella che unisce. Ma la vita che sorprende in fondo è quella che ci dice chi siamo. Nessuna di noi due la notte scorsa ha incontrato quello che voleva, ma questo, almeno per me, non è stata una delusione. Tutto ritorna nell’ombra, ma non spegnere la tua luce. Chiunque la vede si chiederà perché è accesa e tu saprai che strada fanno gli altri.
Addio.
Ester.”

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9 commenti »

  1. Bellissimo ! Veramente intenso e commuovente, un intreccio di storie, di amori, di partenze, tutto nei ricordi di una notte.
    hai una prosa straordinaria, ricca calda e avvolgente. Una storia fatta di speranze e delusioni e di una luce che è il simbolo delle relazioni uname che cercano una conclusione, una occasione per spiegarsi. traspaiono una sofferenza e una delicatezza profonde che stringono dolcemente il cuore del lettore.
    Ancora tanti complimenti, grazie per questa splendida lettura!

  2. Grazie Gianluca, ti sono davvero grato per le tue parole.

  3. Un bel racconto, commovente e ricco di sentimento. Cosa c’è di più triste, per una madre, abbandonare un proprio figlio o essere abbandonata dopo averlo allevato e amato per tanti anni. Due destini diversi per due donne diverse, ma unite nell’amore per Lucy e che incontrandosi si ritrovano in qualche modo complici. Un piccolo appunto perchè, se ho capito bene, hai un po’ confuso i nomi, ma questo non toglie nulla alla bellezza del racconto e alla prosa che mi piacciono molto.

  4. Grazie Pasqualina! Si, c’è un’inversione dei nomi tra Lucy e Mary! Ora cercherò di modificarlo. Grazie ancora delle belle parole e della segnalazione preziosa.

  5. Letto senza pausa, una storia che ti prende e ti fa sentire dentro il vissuto delle protagoniste. Complimenti davvero, stile da scrittore.

  6. Marco, una storia piena di senso di ricerca, di perdita, di luce e di paure. Bello.

  7. Mi è piaciuto Marco questo racconto. Arrivata alla fine avevo dato per scontato che l’avesse scritto una donna. Mi ha colpito vedere che invece era un uomo. Un uomo che ha descritto una donna come se il racconto fosse autobiografico. Non solo. Anche nell’incontro con la madre biologica di Lucy ho ritrovato quella sensazione di “sorellanza” e solidarietà femminile che credevo fossero impossibile da cogliere per un uomo. Questo per me è sorprendente. Complimenti davvero.

  8. Grazie a tutti, anzi a tutte direi, per i vostri commenti. Anna, il tuo mi ha fatto veramente piacere, è molto gratificante quello che hai scritto. Beh, gli uomini spesso non hanno voglia di capire, giocano a fare i grandi e si perdono nel clichè del loro genere. A me invece piace molto immaginare il mondo femminile e cercare di descriverlo. Se ti va di leggere gli altri racconti (Giovanna in particolare e La sagoma arancione), troverai altre “sorprese”. Un saluto.

  9. Marco! Giovanna l’avevo letto e commentato ancora tempo fa (Anna dm)… Racconto sorprendente è vero! La sagoma arancione mi manca… non posso certo perdermelo a questo punto!

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