Premio Racconti nella Rete 2018 “La ragazza che profumava di tiglio” di Colombo Cafarotti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Quando nacque, la levatrice la infuse ripetutamente in una bacinella di acqua tiepida, lavandole il viso, le braccine e il resto del corpo; la deterse ripetutamente e, sollevandola per deporla e involgerla nel candido asciugamano di spugna che l’infermiera teneva tra le mani, la tenne sospesa per un attimo, trattenendo il fiato nel naso: un profumo delicato e misterioso – aromi di bosco, si sarebbe detto – si diffuse impregnando così intensamente l’aria che era impossibile non respirarlo.
“Cosa avete messo nell’acqua?” chiese. “Ha una fragranza incredibile.”
“Nulla” rispose l’infermiera con espressione stupita.
“Le assistenti al parto, prendendo la bambina tra le braccia, assunsero la stessa espressione di trattenere il profumo nel naso, mostrando stupore. Solo la mamma restò inespressiva, in estasi, ma senza sorpresa. D’altronde il lungo travaglio e le sofferenze per l’espulsione della neonata forse l’avevano talmente svuotata di energia che non era in grado neanche di percepire quella sottile ma intensa ondata di fragranza che la sua bambina emanava.
Lo percepiva eccome, invece, e mentre continuava ad ammirare la sua bambina, incapace di staccare gli occhi da lei, la sua mente, su quell’onda di fragranza, cominciò a vagare per valli e colli, fino ai piedi del monte, e li si fermò…
Tutti, quando per la prima volta si trovavano di fronte a quel paesaggio, selvaggio, misterioso e dolce, pensavano che se il paradiso esistesse, dovrebbe avere angoli come quello. Cime di rocce al sole, nude, aguzze, che talvolta bucavano bianchi cumuli di nebbie; imponenti speroni sospesi in un baratro, piccole aree di bosco, erte isolate, con il fascino dei luoghi inesplorati; querce enormi le cui radici erano penetrate nelle viscere della pietra e consentivano all’albero di protendere dalla parete i suoi rami fronzuti nel vuoto, sfidando le leggi della natura. A mezza costa, e fino a qualche sommità meno elevata, lunghe pezzature di faggi che, all’arrivo dell’autunno mutavano il colore delle loro foglie in un giallo-arancio, come in un’apoteosi finale di bellezza e di struggente malinconia prima di abbandonarsi al grande sonno invernale.
Era così grande la suggestione di quel panorama che, visto dal basso, sembrava appartenere più al cielo che alla terra e aveva un mistico respiro di eternità.
In basso, lungo la linea degradante pedemontana, si estendeva una ininterrotta striscia di bosco di lecci, querce, abeti e alberi di altre specie. Da quella cornice boschiva, ormai in una pianura appena ondulata, la visione fresca e riposante di ricche superfici erbose per animali da pascolo.
La sua famiglia viveva ai piedi del monte, in una casa brutta e bella come tutte le case di campagna, scolorita e rappezzata, con tante storie da raccontare, di generazioni che si erano succedute, famiglie che avevano vissuto, lavorato, sofferto, sognato. Riso e pianto. Che poi si erano invecchiate, disgregate, estinte per lasciare il posto ad altre famiglie, che avrebbero lavorato, sofferto, riso e pianto, in altre vicende, altri amori. In una catena umana che è la nostra immortalità.
Una casa di campagna con stalle, ovili, abbeveratoi, pagliai e corte. Con pecore, mucche, galline, cani e gatti. Sì perché la sua era una famiglia di pastori: pastore il padre, pastora la madre, pastori i suoi fratelli. Pastora lei stessa.
Era bella, lei, Carla, così si chiamava. Era bionda, con occhi celesti, miti, che sognavano e facevano sognare, e un corpo di belle fattezze.
Aveva conosciuto un ragazzo, pastore anche lui, con capelli ricci, fitti, così fitti che si ammatassavano, su una pelle coriacea. Le sorrideva di timidezza quando la incontrava, o rideva sempre con timidezza, quando parlavano. A lui era piaciuta subito, a lei era piaciuto subito.
Sua madre le aveva spesso detto una cosa, con l’aria di chi rivela un segreto molto importante, da custodire e magari mettere in pratica al momento opportuno. “Se un giorno conoscerai un uomo e vorrai che si innamori di te, conducilo nel giardino dei tigli, che sta sulla montagna, come sai, e siedi sotto un albero, accanto a lui. Ma, attenzione! Non in qualsiasi momento della stagione, bensì quando il tiglio è in fiore e profuma come nessuna pianta al mondo. Quando quel profumo lo avrà riempito di ebbrezza, lasciati baciare, lasciati amare. Quel profumo creerà un incanto nel suo cuore ed egli non potrà più dimenticarti. E se un giorno dovessi accorgerti che il suo amore per te sta per finire, torna subito sotto quell’albero di tiglio, insieme a lui, e abbandonati tra le sue braccia. Ma sempre nel periodo della fioritura, bada, e profuma come nessun’altra pianta al mondo, e può seminare sui vostri capelli la pioggia di petali e di polline.” Le era rimasta molto impressa questa fantastica rivelazione.
Un giorno, incontrandosi con il ragazzo timido e riccio, mentre conducevano al pascolo le loro mandrie, lo invitò a fare una passeggiata nel giardino dei tigli, e lì, sotto il manto fitto delle loro chiome, parlarono a lungo, a lungo risero, si amarono a lungo, appassionatamente. Da quell’amore era nata lei, la bambina che profumava di tiglio, alla quale diedero il nome di Ginevra.
Questo misterioso fenomeno di fragranza si manifestò sovente durante la fanciullezza di Ginevra, nelle circostanze più impensate e con diversa intensità. Talvolta, quando la mamma le faceva il bagno in una catinella, era come se l’acqua saponata disostruisse i pori della sua pelle e il suo corpo liberasse nell’aria la soave intensità di quell’effluvio che saturava l’ambiente e l’olfatto dei presenti. Tal’altra l’emanazione era un singolo olezzo, intensissimo, che cessava all’istante, come quando apri e immediatamente richiudi un flacone di preziosa essenza; o come quando un profumo improvviso, proveniente da chissà quale fiore, pianta o altra fonte, penetri in una stanza, saturi deliziosamente l’ambiente per poi dissolversi nel nulla.
Durante la sua adolescenza anche. Improvvisamente da un banco di scuola auliva, con i compagni che arricciavano il naso e si voltavano; o mentre giocava spensieratamente con un gruppo di coetanei o mentre parlava con qualche ragazzo, che, conturbato, le chiedeva: “Ma che profumo hai messo, oggi?” O all’improvviso in strada, che sembrava una fanciulla in fiore, un albero in florescenza lungo il marciapiede; in piazza, in mezzo alla gente. Il più delle volte le persone neanche riuscivano a individuare la provenienza di quelle arcane fragranze: fiutavano l’aria, socchiudevano gli occhi, e inspiravano profondamente.
Spesso Ginevra si compiaceva di quell’attrazione, più spesso avrebbe preferito non emanare perché era molto timida e l’attenzione che si concentrava su di lei la metteva in imbarazzo. Quando ormai era una ragazza e aveva stupendamente riempito camicetta e gonna, al suo passaggio gli occhi degli uomini cadevano su di lei come percorsi da un magnetismo irresistibile. Allora, se passava accanto ad un gruppo di ragazzi e il suo corpo si metteva ad aulire, i giovani non solo si voltavano, la guardavano, ma, come attratti in una scia di fascinazione, cominciavano a seguirla, totalmente rapiti dalla sua psichedelica fragranza. Quando i suoi seni in libertà sotto il vestito cominciavano a ritmare ai suoi movimenti e i suoi fianchi a ondulare con grazia, allora l’estasi era completa: il profumo e il piacere dei sensi si fondevano, diventavano musica, un solo fremito nei giovani della sua scia.
Quando lei si accorgeva di quel delirio in cui cadevano i ragazzi, si sentiva invadere da un senso di sgomento e di paura che le faceva venire il desiderio di fuggire, di eclissarsi per sottrarsi a quell’eccitazione collettiva. Per fortuna quando subentrava questo stato d’animo, le sue emanazioni afrodisiache cessavano e l’eccitazione dei ragazzi diventava un’attrazione gestibile della sua femminilità.
Abbiamo già detto che Ginevra era una ragazza timida, in realtà la parola è solo un attributo mentre in lei era la veste della sua personalità. Ginevra era una ragazza tutta riversa e chiusa nella sua intimità. Non aveva un ragazzo, non aveva amiche particolari. Ne conosceva tante di ragazze, però si limitava ad un rapporto esteriore, affettuoso, sincero, ma non condivideva nulla con le altre. Poche frasi quando le incontrava, un saluto, un sorriso e ognuno per la propria strada. Amava sua madre, moltissimo. Amava le sue pecore, quelle sì, erano sue amiche, docili, obbedienti, gradivano la sua voce, le sue mani.
Non aveva un ragazzo e forse non lo desiderava perché pensava che in paese non ci fosse un ragazzo adatto a lei. Pensava che un giorno anche lei si sarebbe innamorata, si sarebbe sposata, questo sì; ma con chi? L’uomo della sua vita era un’idea confusa, un uomo che forse non esisteva, che sarebbe arrivato, chissà da dove, chissà quando. Un ragazzo che sarebbe entrato in quel cerchio di intimità in cui lei era chiusa e che avesse condiviso tutto di lei. Com’era fisicamente? Non lo sapeva, non riusciva a immaginarlo. Però lo attendeva, attendeva il giorno in cui lo avrebbe incontrato. Il cuore glielo avrebbe detto subito: “E’ lui!”, di questo ne era certa.
Arrivò all’improvviso, invece, su un cavallo bianco maculato di nero, con la criniera al vento, così veloce che non si capiva se le gambe galoppavano al suolo o già nell’aria. Spuntò da una strada del bosco, le traversò proprio davanti, curvo e teso sul dorso del cavallo, con le redini in mano, anche lui con i capelli al vento. Bellissimo! Passando notò la sua presenza, si voltò a lei solo qualche secondo, eppure i suoi occhi sembrarono sgranarsi dallo stupore.
Anche lei in quei brevi attimi riuscì a cogliere tutti i particolari del suo volto: sì, era quello che sognava, ma mai aveva incontrato, mai era riuscita a immaginare; lo scopriva ora, come un volto celato che il vento liberava da un velo che lo copriva.
Il cavallo continuò la sua corsa alata, diventando sempre più piccolo, sempre più lontano, finché lo vide arrestarsi a fatica, invertire la direzione di marcia e riprendere il suo poderoso galoppo, farsi sempre più grande, più vicino, fino a pochi metri da lei; arrestarsi quasi a fatica, nitrendo, agitando la testa. Il cavaliere scese, fece una carezza appagante sulla fronte del cavallo e si diresse proprio nella sua direzione, sorridendo già.
Mio dio quant’era alto! Aveva gambe lunghe, eleganti, che i pantaloni da cavallerizzo esaltavano ancora di più. Ecco, la snellezza era la caratteristica, la bellezza, il fascino di quella figura. Le sue spalle non erano poderose, erano agili, slanciate. Anche lei lo guardava, con timidezza, come chi vorrebbe ma non riesce a distogliere lo sguardo. Poi ci riuscì, fissandolo altrove, ma già sorrideva anche lei. Tutto il suo volto sorrideva, la bocca, gli occhi, le guance, che erano come due petali di rosa.
Il giovane le fu accanto, con il cavallo che lo seguiva docilmente alle spalle.
“Ciao” la salutò, e i suoi occhi si riempirono di lei.
“Ciao” rispose la ragazza.
Sembrava che si conoscessero da sempre.
“Sei così sola! Non hai paura? Hai bisogno di me?”
“Sì, ho bisogno di te. Ti stavo aspettando” rispose, ridendo divertita, sicché lui non poté comprendere il senso di quella frase. “No” aggiunse tornando seria “io abito qui. La mia casa è laggiù, vedi, dietro quegli alberi di quercia. In giro c’è mio padre, ci sono i miei fratelli. E poi c’è lui a difendermi.” Si girò, emise un sibilo atteggiando le labbra in un vezzo irresistibile. Un enorme pastore bianco sbucò improvvisamente da chissà dove e accorse a lei, dimenando lentamente la coda, come è nella natura della sua razza. “Questo è mio amico” disse al cane – che agitò ancora la coda – certa che quelle parole sarebbero bastate a garantirgli il suo rispetto. Il cane si avvicinò al cavallo, il cavallo abbassò la testa: i due animali si fiutarono e il pastore diede due colpi di coda amichevolmente. “Ma tu, da dove vieni e che ci fai qui? Non ti ho mai visto prima.”
“Io abito in città. Qualche anno fa ho comperato il mio bellissimo Pegaso: avere un cavallo era il mio sogno più grande. Non lontano da qui un mio amico possiede una piccola fattoria. Anche lui ha un cavallo e così veniamo spesso da queste parti e facciamo delle galoppate fantastiche.”
Ora i due ragazzi si sorrisero per il piacere di sorridersi. Si guardavano anzi si scoprivano fisicamente, con voluttà.
Lei aveva occhi grandi, di un verde vivo che aveva tutte le gradazioni di verde del bosco, la bocca accesa come un grappoletto di ciliege corniole, i suoi capelli erano nerissimi, aggrovigliati sulle spalle come i rovi di una siepe. Indossava un vestito usuale, ma la bellezza di un corpo, si sa, si rivela e si esalta dalle forme che affiorano sotto un vestito sciatto.
Anche lei guardava il giovane, irresistibilmente attratta dalla sua diversità. Aveva un volto fine, levigato e duro come il marmo, occhi marroni, intensi e luminosi, una bocca che sembrava, appunto, abbozzata da uno scultore; capelli di un marrone brillante, voluminosi, indocili, che ai minimi movimenti del capo si riversavano da un lato o sulla fronte. Mani con dita ossute e lunghe.
Mentre si guardavano, ecco all’improvviso il delicato profumo…
“Come sei alto!” esclamò Ginevra, quasi intimidita. “Mi fai sentire piccola piccola.”
“Piccola mi piaci” rispose lui.
Ginevra emise un sospiro. Disse:
“Mio padre mi ha dato l’incarico di recuperare il gregge oltre il bosco; debbo andare purtroppo.”
“Posso aiutarti?” si offrì lui immediatamente.
“Aiutarmi, no; farmi compagnia… se ti fa piacere.”
“Non voglio perderti proprio ora che ti ho incontrato” disse lui. “Sai, quando sono passato davanti a te, poco fa, credevo di aver avuto una visione; per questo sono tornato indietro, per vedere se eri vera.”
“E sono vera?” chiese lei, quasi ridendo.
“Sì, ma temo che tu possa essere una creatura del bosco e scomparire da un momento all’altro.”
“Se anche lo fossi, non lo farei.”
Si erano incamminati lentamente lungo il bordo del bosco, tutti e quattro: il cane pastore zigzagava tra le piante in cerca di chissà cosa; il cavallo li seguiva, strappando ogni tanto qualche boccata d’erba fresca dal ciglio. Quando giunsero al limitare del bosco, si fermarono. Il gregge era placidamente sparso nella leggera depressione che seguiva, rigogliosa di erba tenera. Il giovane chiamò il suo cavallo e propose:
“Andrò io ad aggirare il gregge e condurlo indietro.”
“Oh, no” lo dissuase la ragazza “non faresti altro che spaventare le pecore e sparpagliarle. Ci penserà il mio cane.” Emise il solito sibilo con il vezzo delle labbra e, con un cenno della mano, ordinò al cane che era prontamente accorso: “Vai, Belzebù, conducile qui.”
Il cane si lanciò con furia verso la punta del lontano gregge, compattandolo rapidamente con manovre aggiranti, costringendolo a tornare precipitosamente indietro. Giunto alla loro altezza, smise di latrare e inseguire gli animali che si sparsero tranquillamente, come se nulla fosse stato e ripresero a brucare l’erba con avidità.
“Incredibile!” commentò il giovane. “Ma come ha potuto capire le tue intenzioni?”
“C’è abituato!” rispose lei con semplicità, e notando che il cavallo, il cane e le pecore avevano fatto famiglia, aggiunse: “Ora possiamo parlare tranquillamente. Io sono Ginevra” disse. Qual è il tuo nome?”
“Simeone” rispose lui.
Si sorrisero con dolcezza.
Ginevra ormai era entrata in effluvio: il profumo permeava tutta l’aria intorno ed era diventato un profumo d’ambiente che respiravano a pieni polmoni, tanto che il giovane esclamò:
“Che profumo delizioso! Ma dove sono i fiori?”
“E’ profumo di tiglio” rispose Ginevra.
Il giovane si avvicinò a lei, socchiudendo gli occhi, quasi volesse respirarla. Disse:
“A me sembra che questo profumo emani dal tuo corpo.”
Ginevra, lievemente imbarazzata, spiegò:
“Viene dal giardino dei tigli.”
“E dov’è il giardino dei tigli?” chiese il giovane.
La ragazza si fermò, lo guardò negli occhi con un sorriso enigmatico, disse:
“Il giardino dei tigli è dentro di noi. Basta cercarlo.” Poi, come tornando alla realtà, precisò: “Sta lì, in alto” e indicò con un gesto della mano. “Siamo nel mese di giugno, le piante sono in fiore e il loro profumo è così intenso che si espande per tutto il bosco.”
“Mi piacerebbe andarci” disse lui con interesse.
“Ti ci condurrò, se vorrai. “
“Non chiedo di meglio.”
“Però stai attento” lo ammonì lei con aria misteriosa “potresti innamorarti di me. Perdutamente!”
“Forse lo sono già!” esclamò il giovane. “Ma andiamo, ti prego!” insisté con impazienza. “E’ lontano?” si informò.
“Non molto: bisogna percorrere un sentiero nascosto tra le rocce, un po’ ripido e faticoso, questo sì; ma il giardino dei tigli è così gradevole e bello in questo periodo che vale la pena di soffrire un poco.”
Iniziarono a salire. Effettivamente il percorso non era agevole: erto, sassoso, sdrucciolevole, tanto che la ragazza ben presto ritenne opportuno fermarsi per riprendere fiato. Sedettero su un grosso masso di pietra sul ciglio del viottolo.
“Sai” prese a dire la ragazza con l’aria di mistero di poco prima “mia madre mi ha rivelato un segreto bellissimo: se conduci la persona che ami nel giardino dei tigli, durante il periodo della fioritura, il suo amore per te diventerà eterno.”
Le parole di Ginevra crearono nel giovane uno stato di suggestione e di una dolce, indefinibile attesa.
Via via che salivano, la vicinanza dei tigli si rivelava dal loro odore che si faceva reale, intenso, costante. Ed eccolo infine il giardino dei tigli, un boschetto fitto di quelle sole piante, di forma quasi circolare, attraversato da due lunghe file di alberi poderosi, dalle chiome impenetrabili per la massa di foglie grandi e rotonde che frinivano a leggeri aliti di vento. Chissà se quelle piante erano nate spontaneamente o se qualcuno – chissà chi, chissà quando – le aveva piantate ordinatamente per formare quel maestoso viale?
Fitti racemi di minuscole bacche e campanule bianche, che lasciavano fluire i loro aromi, pendevano dai rami, mentre una moltitudine di api ronzanti si caricavano del loro nettare da trasformare in miele.
L’effluvio dei tigli era totale, era l’aria che respiravi, e ti chiedevi come avresti potuto, poi, tornare a respirare l’aria abituale.
Mentre passeggiavano fianco a fianco, i loro corpi si sfioravano producendo sottili brividi di piacere. Il giovane chiese:
“Hai già un uomo, voglio dire un uomo che ti ami, che tu ami?”
“No” rispose lei.
“Come è possibile? Una ragazza della tua bellezza, che potrebbe avere tutti gli uomini che desidera, come è possibile che sia sola?”
“Ecco” disse lei “è tutto qui: io non voglio mille amori, ne voglio uno solo, ma che sia grande, senza tramonto. Perché per una pastorella l’amore è eterno. Le altre ragazze cercano tante avventure, ma mille amoruncoli non valgono un amore vero; niente può essere più bello di un amore unico. Io vorrei un uomo al quale aprire la porta del mio piccolo eden e vivere con lui tutte le emozioni della vita. Lo so, sono stupida, ma credo che, in origine l’amore, la felicità fossero questi.”
Il giovane l’ascoltava, in silenzio; ora le loro mani si cercarono, s’incontrarono, si avvinsero. In silenzio. Il giovane le disse:
“Tu sei la ragazza più bella della terra. E non solo, sei unica. Anzi io non sono ancora certo se tu sia una donna vera o piuttosto una dea del bosco e se io stia vivendo una realtà o un mito. Di una sola cosa sono certo: io ti vorrei!”
Adesso le loro mani si sciolsero, si allacciarono ai loro corpi. L’emozione era traboccante. Erano arrivati in fondo al viale. Sotto il manto dell’ultimo tiglio emergeva dal terreno un’ampia pietra giallastra, con venature rosa, levigata dalla pioggia. Oltre incominciava il terreno brullo e sassoso. Quasi istintivamente sedettero su quella pietra. I loro corpi aderivano, persino nei movimenti continuavano ad aderire, come se non volessero più staccarsi. Disse Ginevra spalancando i suoi grandi occhi verdi nei quali il giovane precipitò come in un abisso.
“Io non so se sono bella come tu dici; io sono una pastorella e vorrei la cosa più semplice: l’amore dell’uomo che mi piace, solo il suo amore, tutto per me, per sempre. Capisci come sono fatta, io? Poco fa, quando sei arrivato quasi dal bosco, ho pensato che fossi tu l’uomo che aspettavo. Io non sapevo come dovesse essere l’uomo per me, poi quando ti ho visto, quando ti ho sentito parlare, quando ho ascoltato le tue parole, non ho avuto più dubbi. Anch’io ti vorrei!”
Il giovane era in estasi.
“Aspettami!” esclamò come proponendo un patto solenne. “Tornerò. Anche se non subito, ma tornerò.” Ginevra non lo guardava. Guardava lontano lasciandosi accarezzare da quelle parole. Purtroppo non poté cogliere in quegli occhi un improvviso turbamento, un’angoscia, che li avevano attraversati come un’ombra fugace.
“Ti aspetterò!” promise con la stessa solennità.
Il profumo dei tigli era ormai una fragranza soave che aveva riempito tutto di loro, anche l’anima.
I due giovani continuavano a parlare, gli occhi negli occhi, le labbra a fior di pelle: le parole si mescolavano, gli sguardi s’intrecciavano, s’incatenavano, le loro labbra si sfioravano come se assaporare a lungo l’ansia, l’attesa di avvincersi fosse l’emozione più bella.
Il profumo dei tigli era dolce come il profumo dell’amore…
Come tornava volentieri nei campi di pascolo, Ginevra! Ogni volta sperava di veder arrivare il suo cavaliere, galoppando sul suo cavallo bianco, con le chiome al vento. Quanta emozione le procurava tornare a passeggiare nel giardino dei tigli, riassaporare le sue parole, sentire il proprio corpo aderire al suo, bruciare di baci su quella pietra gialla venata di rosa!
“Aspettami!“ “Tornerò, anche se non subito.” Queste parole le tornavano in mente in continuazione. Sarebbe tornato, questo lo credeva ciecamente; ma perché non subito? Forse doveva assentarsi per la sua attività o aveva qualche problema importante da sistemare prima di poter disporre della propria libertà. Ma sarebbe tornato da lei, ne era certa.
Il tempo passava inesorabilmente finché una domenica…
Una domenica mattina si recò in città per andare ad ascoltare la messa nella bellissima basilica settecentesca dell’Immacolata, come faceva spesso. Traboccava di gente, la chiesa, perché era giorno di festa e, un po’ per consuetudine, un po’ perché la messa delle dieci era la più comoda, la maggior parte dei fedeli vi si recava di preferenza. S’introdusse in un banco centrale dove, serrando un po’ la fila, ci fu posto anche per lei.
Dopo l’Ite, missa est, la massa dei fedeli si riversò con ordine verso l’uscita. La ragazza attendeva lo sciamare con aria distratta, ma all’improvviso fu come colpita da una scarica elettrica, scorgendo al centro di quello che sembrava un gruppo di famiglia l’inconfondibile figura… Sì, era proprio lui, il cavaliere che aveva conosciuto nei prati del pascolo, il volto che era diventato l’uomo dei suoi sogni. La sua esplosione di gioia e d’amore, però, fu subito sostituita da una fitta dolorosa, come se un spada le avesse squassato il petto e la punta avesse toccato il suo cuore.
Accanto a lui una donna bellissima, elegante, altera, sicuramente di famiglia altolocata.
Con il suo intuito di donna aveva subito compreso che non si trattava di una ragazza qualunque. Il resto lo apprese dalle due ragazze che erano accanto a lei e che per un po’ parlottarono coprendosi la bocca con la mano. Diceva l’una: “Quanto è bello! Ti fa sognare ad occhi aperti.” “Anche lei è bella” ribatté l’altra “ma è odiosa. Guarda quante arie si dà! I suoi genitori sono pieni di soldi…” “Si sposeranno tra una decina di giorni, hanno già affisso le pubblicazioni.”
Ginevra si sentì mancare e dovette sostenersi con forza all’inginocchiatoio. Il gruppetto di persone dei due giovani aveva percorso la navata della chiesa, scomparendo dalla porta di uscita. Forse si erano recati a parlare con il parroco per perfezionare accordi, dare istruzioni, fissare dettagli per la cerimonia.
Il ragazzo non si era mai voltato dalla parte di Ginevra, quindi non aveva potuto notare la sua presenza. A lei tuttavia non era parso felice, anzi le era sembrato che avesse un’aria triste.
Ginevra non si mosse dal banco, attendendo che la chiesa si svuotasse e la gente si disperdesse anche all’esterno per evitare di imbattersi in lui: non voleva incontrarlo, non avrebbe retto. Prima di uscire, tuttavia, si fermò davanti alla grossa teca sulla parete ad angolo ov’erano affissi fogli, immagini sacre, avvisi per i fedeli e, in primo piano, l’annuncio di nozze. Con una stretta al cuore lesse: non conosceva nomi e cognomi, soltanto il nome di lui, e questo bastò per confermarle la cruda realtà.
Uscì all’aperto infine. Sola come sempre, triste, amara, dolorosa. Camminando come un essere senza anima, si diresse lentamente verso il capolinea degli autobus per fare ritorno a casa. Il mondo era cambiato: il cielo aveva perso l’azzurro, gli alberi il verde, i fiori il loro colore, le rondini il canto gioioso. Quella luce splendente che aveva acceso la sua vita si era spenta totalmente.
Per tutto il tragitto del ritorno restò chiusa in quel pensiero straziante che non lasciava spazio a speranza, illusioni, penosi inganni. A casa si svestì, indossò i suoi umili abiti di pastora, che lei rendeva belli con il suo incantevole corpo. Senza dare ascolto alle insistenze di sua madre, che la invitava a fare colazione prima di andar via, s’incamminò verso i prati del pascolo. Era mesta, silente, le guance accese dalla febbre interiore della sofferenza. Assente, rapita in un mondo che non aveva più contatti con la realtà.
Arrivata nei pressi del bosco si fermò. Guardò la strada da dove quel giorno era sbucato sulle ali del vento quel meraviglioso cavaliere che l’aveva incantata. Lo rivide allontanarsi rapidamente, impicciolirsi, quasi scomparire, fermarsi; però non lo vide tornare indietro.
Proseguì il suo cammino verso il giardino dei tigli. Ora lo rivedeva camminare accanto a sé, con le sue gambe lunghe, le spalle snelle, il volto di marmo levigato: diverso da tutti, bello come nessun altro. Riascoltava la sua voce, le sue parole, ad una ad una… Perché le aveva mentito? Forse la suggestione di un incontro inatteso aveva creato un momento di poesia, l’illusione di un giorno di felicità fuori del tempo e della realtà. E tutto era stato bello e sincero. E meravigliosamente romantico. Sì, perché malgrado la realtà dei fatti, era certa che quel giovane non le aveva mentito. Era certa che ciò che le aveva detto gli veniva dal cuore. Era certa che l’attrazione che provava per lei era vera. “Temo che tu possa essere una creatura del bosco e scomparire da un momento all’altro…”
Forse, come poi si era rivelato, aveva già una donna della quale ormai non poteva più liberarsi, un rapporto che non poteva più spezzare. Ricordava il suo volto lungo la navata della chiesa: era malinconico, indifferente, come se quanto stavano facendo non lo riguardasse. Sicuramente non era felice, anche di questo era certa. Però per lei era perduto, irrimediabilmente perduto. Vivere senza di lui, senza la speranza di essere tra le sue braccia, non era possibile; ma la sua vita non sarebbe stata possibile neanche sapendolo tra le braccia di un’altra.
Era entrata ormai nel giardino dei tigli. Neanche i tigli profumavano più. Era finito il periodo della fioritura e la loro fragranza inebriante era cessata. Continuò a percorrerlo tutto fino in fondo, fino all’ultimo tiglio oltre il quale l’enorme pietra giallastra, venata di rosa, l’attendeva, desolatamente vuota. Vi si distese, socchiuse gli occhi, sperando che al buio dell’immaginazione fosse più facile evocare l’uomo del sogno. Eccolo tra le sue braccia, su quel duro giaciglio dove avevano consumato attimi di amore eterno, baci, carezze, parole. Quel duro giaciglio sul quale lei si era donata!
I ricordi si facevano vivi, dolci, laceranti come spine di rovo sulla pelle. Il suo cuore ora le doleva, di un dolore fisico, acuto, insopportabile…
Mentre si avvicinava alla stalla della piccola fattoria del suo amico di campagna, il bianco cavallo maculato di nero già scalpitava per il gradimento e l’impazienza.
“Vai dalla tua pastorella” gli disse l’amico, sorridendo “falla salire sul tuo cavallo e portala via.”
Il giovane, con un agile balzo, si portò sul dorso del cavallo: le sue gambe erano così lunghe che sembrava potesse scavalcarlo dalla parte opposta. E incominciò a volare verso i pascoli non lontani. Finalmente libero! Niente poteva rappresentare meglio le condizioni del suo spirito di quella galoppata sfrenata, senza tempo e senza ostacoli. Libero finalmente di volare dalla sua pastorella, dalla creatura di bosco di natura semivegetale la cui pelle infatti profumava di tiglio.
Quando l’aveva lasciata le aveva detto: “Aspettami!” “Tornerò, anche se non subito” aveva aggiunto, e lui sapeva il perché. Doveva trovare la forza di interrompere il suo fidanzamento con Giulia che lo stava trascinando inesorabilmente verso un matrimonio del quale non era felice. Erano piuttosto le loro famiglie che lo volevano, che lo avevano programmato, con uno scopo ben preciso: consolidare il loro potere economico.
Quando aveva conosciuto Ginevra, l’amore era esploso come l’incendio di un bosco nel mese di luglio. I grandi incontri, gli amori fatali non hanno bisogno di tempo, sono immediati, irrefrenabili. Allora aveva riflettuto: aveva prima affrontato Giulia, le aveva spiegato che non sarebbe stata felice con lui perché forse non l’amava a sufficienza, le aveva chiesto perdono, ma fermamente aveva interrotto la relazione; poi aveva affrontato suo padre, le sue resistenze, le sue insistenze, la sua ira, le sue grida, le sue minacce, ma non aveva receduto di un passo. Aveva fatto annullare le pubblicazioni di matrimonio e successivamente aveva chiesto ospitalità al suo amico di campagna che lo aveva accolto con entusiasmo.
Ora stava volando da Ginevra. Le avrebbe detto: “Eccomi, sono tornato da te, come ti avevo promesso.”
Il vento fresco, penetrando dalla camicia aperta, carezzava la sua pelle facendolo sentire nudo sul suo cavallo alato, con i capelli che fluivano nell’aria come se fossero una scia del suo corpo.
Ecco il bosco che si avvicinava rapidamente, con le sue querce che diventavano sempre più nodose e possenti, i faggi, i lecci, gli abeti sempre più alti; ecco l’ombrosa strada che lo penetrava, attraversandolo da un lato all’altro. Oltre, i prati dall’erba sempre verde, Ginevra, la pastorella che aveva negli occhi e nella pelle un incanto silvano.
Non c’era! Non apparve con il suo vestito ondulante, con i suoi capelli aggrovigliati come un cespuglio di rovi, con il suo cane bianco che obbediva a qualsiasi suo ordine e la proteggeva. Ecco, però, in lontananza una figura rannicchiata su una roccia, come appare di solito quella di un guardiano di mandrie, che sembra piuttosto un dettaglio della natura.
Mentre si avvicinava in quella direzione, la speranza che fosse lei svanì del tutto; non era neanche una donna, era un pastore, un ragazzo. Magari un suo fratello o un cugino, sicuramente qualcuno che la conosceva, che avrebbe potuto dirgli qualcosa di lei.
Il giovane restò immobile, una figura fissa sullo sfondo di cielo, con prati, chiome di alberi e qualche lontano, scolorito tetto di casa. Solo quando gli si fermò davanti, egli alzò gli occhi, lo fissò, attese.
“Conosci una pastorella che pascola il gregge da queste parti? Si chiama Ginevra.”
“Certo” rispose il ragazzo animandosi di improvviso interesse. “Perché mi chiedi questo, hai notizie di lei?”
Il giovane lo guardò un po’ stupito, ripetendo le sue parole.
“Notizie di lei?…”
Ora stupito appariva il ragazzo.
“Ma allora non sai. Ginevra è scomparsa. Forse è morta.”
“Morta!…”ripeté il giovane nei cui occhi si era aperto un baratro di incredulità e di sgomento.
“Molti dicono che è fuggita, altri che è stata rapita da un giovane del quale si era follemente innamorata. Io credo che sia morta, non so in che modo, forse è precipitata in un burrone durante qualche passeggiata in montagna che a lei piaceva fare, anche se dalle ricerche il suo corpo non è stato ritrovato.
Il giovane taceva, incapace di approdare ad una realtà di disperazione o di speranza e solo il dubbio tratteneva il dolore come una diga il flusso d’acqua dirompente. Il ragazzo lo scrutava attentamente.
“Sei forse tu l’uomo del quale Ginevra si era innamorata?”
Il giovane non rispose, disse semplicemente: “Grazie!” e si diresse verso il suo cavallo. Salì e si allontanò lentamente cercando di accettare quell’incredibile realtà, di darsi una spiegazione. Che Ginevra fosse fuggita, non v’era ragione. Che l’avesse rapita l’uomo di cui si era innamorata, non era neanche pensabile, visto che quell’uomo era certo di essere lui. Che le fosse successa una disgrazia, era possibile; ma come, dove? Possibile che nessuno sapesse nulla, che nessuno avesse scoperto nulla, che non si fosse trovato nulla?
Da quel momento avrebbe iniziato a cercare, a indagare, a chiedere a chiunque; avrebbe setacciato la montagna, burroni, recessi, torrenti. Avrebbe cercato in ogni angolo, in ogni luogo, avesse dovuto girare il mondo intero.
Provò a immaginarlo, il mondo, senza di lei: era vuoto, non aveva più senso. Non c’era più niente che lo attraeva.
Era ritornato all’altezza del bosco di querce e abeti: il ricordo di lei si fece acuto, struggente. Il loro incontro, quella passeggiata nel giardino dei tigli era la cosa più bella della sua vita. “Aspettami!” le aveva chiesto. “Tornerò, anche se non subito.” “Ti aspetterò!” aveva promesso lei con forza. C’era troppa passione, troppa solennità nella loro promessa per pensare che lei avesse dimenticato quelle parole, che avesse tradito quell’attesa. D’altronde era trascorso del tempo, ma non troppo perché avesse potuto perdere la speranza che egli sarebbe tornato e si fosse abbandonata alla disperazione o che, in preda allo sconforto, avesse maturato qualche insano proposito. Ma allora che cosa era accaduto? O qualcuno le aveva fatto del male o era davvero accaduta una tremenda sciagura.
Il giardino dei tigli! Come andar via senza tornare in quell’angolo di Eden, senza ripercorrere quel viale, passo passo, senza rivivere ogni attimo, ogni parola di quel meraviglioso incontro. Scese da cavallo, prendendolo per la cavezza, perché gli sembrava di mancare di rispetto
a lei se vi fosse andato in sella.
La doppia fila di tigli era avvolta in un silenzio assorto, sacrale; mancava però qualcosa di importante nell’aria: il loro soave profumo. La fioritura era finita, finita la loro fragranza. Percorse il viale fino in fondo: ecco la grande roccia sulla quale si erano seduti, sulla quale si erano baciati, sulla quale lei si era donata… Ma qualcosa gli sembrava cambiato da allora: l’ultimo tiglio si ergeva prima della grande pietra. Prima, ne era certo. Ora l’ultimo tiglio sorgeva dopo. Ed era più grande, più fronzuto.
Quando uscì dalla zona d’ombra e si trovò allo scoperto davanti a quell’ultimo tiglio, accadde qualcosa che gli procurò brividi in tutta la persona. Non tirava un alito di vento: le chiome degli alberi erano compatte, immobili, in una quiete assoluta. Un vento improvviso, invece, invase la chioma dell’ultimo tiglio e i suoi rami incominciarono a fremere con veemenza come se fossero braccia che si agitavano. Ancor più grande si fece il suo incredulo stupore quando nell’aria si diffuse, irresistibile, il profumo inebriante del tiglio. Si fermò sotto la chioma dell’albero, sedette sul bordo del lastrone di pietra proprio dove l’altra volta si era seduta lei e l’albero continuava a fremere. Un ramo che calava verso il basso fu scosso da un refolo e le sue foglie frementi si agitarono sul suo viso, accarezzandolo. Il giovane taceva, in preda ad una dolcezza infinita, al delirio della pianta, all’estasi del suo profumo. A lungo restò seduto su quella roccia, rapito in una sorta di incantesimo. Il vento cessò alla fine, lentamente l’albero si placò, le foglie vibravano appena, emettendo un lieve brusio.
Il giovane si alzò, afferrò la cavezza del cavallo e con tanta tristezza nel cuore prese la via del ritorno. Gli alberi del viale erano sempre immersi in quel silenzio di mistero, in quella calma imperturbabile.
Una voce lamentosa alle sue spalle lo fece voltare, procurandogli, come quando era arrivato, profondi brividi sulla pelle. Il vento aveva ripreso ad agitare l’albero, i suoi rami si dimenavano con violenza e forse, strusciandosi fra loro, a causa del vento che li scuoteva, avevano emesso quella sorta di gemito come spesso fanno gli alberi.
Il giovane riprese il suo cammino, con la mente avvolta in quel mistero doloroso e dolce. Forse una verità oscura o luminosa si era affacciata nel suo cuore; ma egli non sapeva e mai avrebbe saputo…
Ginevra era distesa sulla roccia grigia venata di rosa, nei suoi occhi spalancati, che ardevano del verde dei boschi, scorrevano i ricordi. Il suo cuore, nel quale non c’era più speranza, gli doleva ora di un dolore fisico, acuto, insopportabile. Tutto le appariva inutile: vivere o non vivere era la stessa cosa. Ma il suo cuore fece tutto da solo: decise di non battere più e si fermò. E lei, forse senza neanche accorgersene, era morta. Morta d’amore! E l’indomani, dal suo corpo senza vita, era fiorito un tiglio, l’ultimo tiglio.
Racconto bellissimo. L’amore descritto è naturale, semplice, coinvolgente, totalizzante e duraturo. Molto diverso dagli amori di oggi spesso senza poesia,corporale e da consumare subito. Merita di essere letto e di una profonda riflessione. Congratulazioni all’autore
Colombo, si trovano elementi fantastici e naturali. Una storia che sfiora la fantasia del lettore e la riporta sulla terra con delicatezza e dolore. Quasi una storia d’altri tempi dove l’elemento fondamentale, l’amore, ti riporta al mondo attuale. Bravo! In bocca al lupo.