Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Impercettibile segno di vita” di Fabio Sicari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Sono le sette e dieci. La consegna infermieristica è appena finita. Adesso ci attendono i nostri ospiti. Per rispettosa abitudine, i nostri ammalati li chiamiamo ospiti. Entro nella camera di degenza. Con me c’è una mia collega . Tutti e due siamo operatori socio sanitari, ma siamo assunti come ausiliari socio assistenziali. La mia collega tira su le tapparelle, io accendo la luce centrale, badando di lasciare spente quelle laterali. Troppa invasione di luce aggredirebbe l’oscurità, ferendo il risveglio.

Davanti a me, supina sul letto, una signora di mezza età. E’ in stato vegetativo in esito di trauma cranico e successiva anossia cerebrale. Mi guarda. La chiamo una volta. Le dico che è tempo di fare un po’ di igiene. La chiamo un’altra volta. Alzo non di tanto il tono della voce. Lei si volta di un niente. Impercettibile segno di vita. Insisto. Stavolta la chiamo quasi con voce stentorea. No, ho sbagliato. Devo tornare a una cordialità mai sufficientemente espressa. Le prendo con la mano la sua mano. Trasmetto un po’ di calore su una cute ruvida. Devo ricordarmi, dopo l’igiene, di mettere una crema. Questo il primo approccio. Poi dal carrello della biancheria prendo le lenzuola e l’occorrente per l’igiene.

Intanto la mia collega è in bagno e fa scendere dell’acqua calda. La raccoglie in un bricco. Posa il bricco sul comodino, vicino al letto. Dall’armadio estrae due asciugamani per l’igiene.

Mi avvicino di nuovo all’ospite. Do il buongiorno anche all’altra signora, molto più giovane. Quasi una ragazza. Lei, però, per l’igiene dovrà attendere alcuni minuti. Torno dalla signora di mezza età. E chiamo ancora. Avverto una reazione. Colgo un sorriso. O, forse, è il mio coinvolgimento emotivo che traduce quella dolce smorfia abbozzata in un sorriso. Mi trattengo a pensare. E’ o non è un sorriso? La perplessità è una gran cosa se produce un tentativo di approfondimento. Dopo dieci anni di questo lavoro, saprò riconoscere un sorriso da qualcosa che potrebbe anche non essere un vero e proprio sorriso?

Domanda senza risposta. Il trionfo della perplessità.

La mia collega dà il buongiorno e si avvicina alla signora giovane. Le dice che oggi fa freddo. Minaccia di nevicare. Aggiunge che se dovesse nevicare, sarebbe in difficoltà a guidare la macchina. Adesso saluta  con una carezza la signora di mezza età, che da quasi dieci anni è su quello stesso letto. Prima di lei, c’era un signore che, per un segno divino o per volontà di scienza, si riprese dopo un buio quasi totale lungo un anno e mezzo circa. Una rovinosa caduta lo fece sprofondare nello stato vegetativo. Ricordi lontani. Ricordi di vita… Ma il tempo incalza.

Entrambi cominciamo con l’igiene degli arti superiori. La disciplina per un corretto metodo si è appresa a scuola, ma l’esperienza lima e impreziosisce le nozioni teoriche. Gli occhi della nostra ospite cercano qualcosa di indefinito. Il ritmo sonno-veglia funziona. Non è coma, lo sappiamo. Purtroppo manca la coscienza. Così ci informano i libri. Nessuna consapevolezza di sé o dell’ambiente e incapacità ad interagire con gli altri.

Sicuri sicuri?

Entra la caposala. Ci dice che tra poco arriverà un signore. Non aggiunge particolari. Ci saluta dicendo che sarà una giornataccia per lei: burocrazia infermieristica e un incontro con la direzione.

Ancora po’ di sapone e il corpo si bagna di pulito. La mia collega asciuga e dove c’è bisogno applica una crema protettiva. Perfino un odore diverso, di aria fresca, si sente adesso dalle ascelle. La mia collega va su e giù per le braccia, con quella crema. Poi il dorso.

Entra l’infermiere e ci assicura che per la medicazione al decubito di secondo grado, in zona sacrale, tornerà fra dieci minuti. Bene così.

  Gli ausili sono tutti disposti con cura nella camera di degenza. Il muro è giallo. Qualche crepa. La manutenzione non può tamponare ogni ferita.

“Ecco, venga verso di me… Brava!” le dico, mentre la giro dalla mia parte. Chissà il dolore che i nostri movimenti le provocano. Per carità, abbiamo appreso tutto su come mobilizzare gli ospiti. Ma il dolore sfugge a quella geometria di cose perfettibili che è la teoria scolastica.

“Adesso facciamo l’igiene intima. E’ pronta?” le chiedo senza aspettarmi, evidentemente, nessuna risposta.

La mia collega è più decisa: “Su, da brava, apra bene le gambe. O vuole che la lasciamo sporca?”.

Io faccio un po’ di forza per aprirle le gambe e la mia collega provvede all’igiene intima. Poi asciuga e mette il pannolone.

“Si sente meglio, non è vero, adesso che è pulita?” domando, senza accorgermi che la riposta non ci sarà.

Ho scoperto l’importanza del dialogo senza risposta. Ragionamento che si presta alla contraddizione. Non è dialogo, è monologo. Ma no, ma no, è dialogo. Eccome.

Bussano alla porta. Per istinto, copriamo la nostra ospite col lenzuolo. Manca solo di vestirla, l’igiene è comunque fatta.

Entra di nuovo la caposala. Se ha bussato è perché con lei ci deve essere qualcuno. Infatti con lei c’è quel signore, che noi non conosciamo. Veste sportivo. La caposala ce lo presenta. Scambio veloce di convenevoli. Per onestà, non ricordo né il nome né il cognome. Lì per lì ho pensato al nuovo dottore del reparto, dato che il titolare sta per andare in pensione. La caposala si rivolge alla mia collega e la invita, il tono è pacato, ad andare cinque minuti con lei, perché deve chiederle qualcosa  sulle ferie. La mia collega esce un po’ infastidita e io rimango con quel signore che somiglia a… chissà chi. Per meglio sostenersi, usa un bastone di legno decorato a intarsio.

 

DOTTORE (non sapendo nulla di lui, per me è il nuovo “dottore”) Lavora qui da tanto tempo? (Da questa prima domanda, mi accorgo che il fluire delle sue parole non è lineare. Spesso s’inceppa. Qualche parola non è pronunciata con chiarezza, ma la frase è però sempre logica.)

IO (faccio un passo verso di lui) Dieci anni. Ma vuole sedersi?

DOTTORE Preferisco stare in piedi, grazie. (Si muove sul tronco. Il bastone lo sorregge) Non ha mai pensato di cambiare reparto?

IO No, perché questo lavoro parla chiaro sulla vita.

DOTTORE (mi guarda perplesso) Cioè?

IO Veda, dottore, i nostri ospiti dipendono da noi al cento per cento. Io, invece, dipendo solo da me stesso. Ecco perché apprezzo ogni istante della mia vita.

DOTTORE (fa di sì con la testa) Capisco. Prima, quando sono entrato, ho sentito che parlavate con lei (indica la signora alla quale abbiamo appena fatto l’igiene e che è coperta col lenzuolo). Pensa che la signora percepisca le cose che voi le dite?

IO Secondo me, sì.

DOTTORE La signora ha una coscienza, quindi?

IO Credo che lo stato vegetativo non significhi perdita totale della coscienza.

DOTTORE Mi perdoni, non voglio apparirle pedante, faccio solo per comprendere.

IO La prego, dica.

DOTTORE Secondo lei, questi ospiti cosa sentono?

IO Di preciso, non saprei. Forse si tratta di percezioni. Bisogna poi vedere come elaborano queste percezioni a livello cognitivo.

DOTTORE (mi fissa come fosse un giudice e io l’imputato) Ecco il punto. Bisogna vedere l’elaborazione cognitiva. Un conto è intendere le parole e dar loro i significati propri, un conto è percepire solo dei suoni improduttivi.

IO Mi sta, per caso, dicendo che fare l’igiene dialogando con loro non serve a nulla?

DOTTORE Non sia così pessimista. Le sto dicendo che se dialogare con loro ha il fine di ottenere una risposta cognitiva, quel dialogo non serve.

IO Mah!… Non sono d’accordo. Guardi perché tutti i nostri ospiti, in qualche modo, rispondono alle nostre parole.

DOTTORE Cosa intende dire affermando che rispondono alle vostre parole.

IO Provo a dirglielo con una cosa che mi capita di fare spesso.

DOTTORE Certo…

IO Se dico loro una poesia, non è difficile scorgere una minima reazione.

DOTTORE E sarebbe?

IO Qualcuno di loro si volta verso di me, qualcun altro spalanca gli occhi.

DOTTORE Uhm…

IO  Oppure sorridono. O c’è un lieve movimento degli arti. Insomma, è  assai raro che non ci sia nessuna risposta.

DOTTORE  Ma sa, sorridere, per i vostri ospiti, non significa comunque aver compreso il messaggio. Intendo dire: averlo elaborato compiutamente.

IO Ah no, e cosa significa, allora?

DOTTORE Può essere una risposta involontaria, magari riconducibile al timbro della sua voce. Voglio dire, e mi perdoni per questo, una risposta del tutto scollegata dall’ascolto della sua poesia.

IO (sospiro profondo) Ho capito. Allora, dottore, fare poesia in un luogo come questo, non serve a nulla?

DOTTORE (stringe le labbra) Mi creda, questo è un luogo di solitudine emotiva e cognitiva.

IO (comincio a stizzirmi) Ma di quale solitudine emotiva e cognitiva sta parlando? Abbia pazienza, dottore! (Pausa per respirare) Qui c’è vita.

DOTTORE (pacato) D’accordo, qui c’è vita. Ma non c’è relazione. Non c’è coscienza.

IO E chi lo ha detto? La scienza non esclude la minima coscienza.

DOTTORE Infatti alcuni dei vostri ospiti non sono in stato vegetativo ma vengono inseriti nella categoria di disabili con minima coscienza.

IO E dalli! Ma cosa cambia. E’ come dire che gli stati vegetativi non hanno coscienza.

DOTTORE Proprio così! Ecco perché l’assistenza sanitaria non prevede tempi lunghi per fare l’igiene. Poesie e storielle e musichette fanno solo perdere del tempo.

IO Accidenti, che straordinaria conclusione!

DOTTORE Si chiama concretezza. Lei partecipa troppo della sofferenza degli altri. Vede la coscienza dappertutto.

IO Vedo che i nostri ospiti non sono sacchi di patate. Ecco cosa vedo.

DOTTORE Questa risposta tradisce un completo coinvolgimento emotivo col dolore. Ma la sanità pubblica deve fare i conti con i costi. E’ un po’ grottesco dirlo così sfacciatamente, ma è leale.

IO Come si fa a fare i conti addosso a chi soffre.

DOTTORE Queste strutture hanno un costo enorme. Dobbiamo vedere di risparmiare. Anche sui tempi d’igiene. Capisce. Per il bene della sanità stessa.

IO Non mi chieda di capire, la prego. So solo che questa professione con la contabilità  non va d’accordo. Chi si occupa dei malati deve avere la tendenza alla dimensione umana.

DOTTORE Guardi, le posso assicurare che nessuno di noi sfugge alla dimensione umana.

IO E allora perché lei è così burocrate? Vorrebbe tagliare sull’assistenza.

DOTTORE Le ripeto che il rispetto per chi soffre è tutelato e garantito.

IO Direi di no, se è vero che lei, che è appena entrato in questo reparto, già parla di tagli.

DOTTORE  Parlo di ridimensionare certe aspettative. E’ su questo punto che non ci intendiamo.

IO Infatti.

DOTTORE Guardi, se noi ci poniamo come obiettivo un recupero cognitivo, buttiamo il nostro tempo. Capisce?

IO Le assicuro che non buttiamo proprio niente. Questa signora ha una sua coscienza. Quando le facciamo l’igiene e al tempo stesso le parliamo, certo che allunghiamo i tempi di assistenza, ma le assicuriamo un benessere interiore.

DOTTORE Forse è una risposta alla sensazione di sentirsi l’acqua calda addosso.

IO (faccio un sospirone) Le risparmio cosa penso!

DOTTORE Le ripeto che lei è troppo coinvolto. Mi creda: impegnare del tempo per raccontarle una poesia, non serve.

IO Dio mio, come fa a dire certe cose!

DOTTORE (ha un repentino cambio di umore. Adesso è molto teso. Ho quasi l’impressione che stia per svenire) Non sa quanto mi facciano piacere le sue parole. La sua determinazione. Complimenti (e un poco si commuove).

IO (osservo la luce che proviene dal suo sguardo carico di gioia; poi, timidamente dico) Potrei sapere chi è lei, scusi?

DOTTORE (gli occhi bassi) Lei mi hai chiamato dottore… più volte. In effetti, lo sono. O meglio, lo ero. Dottore in fisica. Certamente ho anche una conoscenza abbastanza specifica di questi problemi assistenziali. Ma non sono un medico.

IO E chi è allora?

DOTTORE (adesso guarda me, poi la camera di degenza; di nuovo me) Consentimi di darti del tu… Non ti ricordi di me, vero?

IO (mi sorprendo in uno sforzo di memoria) Non posso… Non posso crederci! Che mi venga un colpo! Possibilmente non sùbito… Ma tu sei…

DOTTORE (apre il cuore a un sorriso) Sì, sono io. Ero ricoverato proprio in quello stesso letto (indica il letto della signora alla quale abbiamo appena fatto l’igiene). Dieci anni fa…

IO Proprio quando ho cominciato questa professione (gli do una lieve pacca sulla spalla, poi avverto il desiderio di abbracciarlo). E’ una sorpresa incredibile… Quel giorno che ti sei svegliato, nessuno poteva crederci. Fu festa per tutti.

DOTTORE (dopo una pausa  di concentrazione spirituale) Mi ricordo quasi tutto di te e degli altri. Mi ricordo l’igiene, oddio, il momento più terribile! E quella infermiera che mi diceva che avevo la barba dura. E tu che mi dicevi le poesie.

IO Chissà le volte che mi avresti voluto dire di stare zitto.

DOTTORE Non lo so di preciso. Ma che importa. Io percepivo delle cose belle. Ecco, è questo che conta.

IO E percepivi anche il dolore?

DOTTORE E’difficile a dirsi. Perché è un mondo diverso. Capisci? E’ una cosa fatta di impulsi, che non si spiegano con i tradizionali metodi della comprensione scientifica.

IO Allora è proprio vero che vale la pena sperare.

DOTTORE Io sono stato fortunato a recuperare molto di quello che ero. Dopo il risveglio, mi hanno portato a casa. Mia moglie e miei figli hanno fatto l’impossibile per fare di me quello che vedi.

IO Sono emozionato… Sentirti parlare così bene… non so come dirlo, mi dà gioia, ecco.

DOTTORE Diciamo che oggi parlo abbastanza bene. Però faccio molta fatica… Già! Ci sono voluti molti anni e il contributo di esperti. Ma il primo anello siete stati voi (e mi tende la mano, barcollando un po’).

IO (gliela stringo proprio volentieri) Grazie per essere così come sei. Grazie per essere venuto.

DOTTORE Grazie a voi. Continuate così. (Adesso indica le signore, le nostre due ospiti di questa camera di degenza, ma evidentemente parla per tutti gli altri ospiti e, in generale, per chi soffre) Prima hai detto una cosa fondamentale: qui c’è vita.

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2 commenti »

  1. L’argomento è di quelli che esigono più tempo e spazio di discussione, ma il tuo racconto arriva benissimo con il suo messaggio di amore per la vita. Ben scritto. Complimenti.

  2. Il racconto mi è piaciuto, soprattutto nella prima parte. La seconda la trovo un pò forzata in alcuni passaggi, che mi sono sembrate un pò delle ripetizioni di qualcosa che era già molto chiaro. L’argomento era difficile, quindi complimenti!

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