Premio Racconti nella Rete 2018 “E castegne” di Colombo Cafarotti (sezione racconti per bambini)
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Ricordi di vita contadina
Malgrado abitasse in una piccola casa di campagna, povera casa di campagna, insieme a suo padre, Paolo non frequentava la scuola elementare rurale, che pure era situata abbastanza vicino alla sua abitazione, bensì un istituto scolastico del paese in cui si recava tutte le mattine, in compagnia di suo padre Vincenzo.
Come mai questo strano stato di cose?
Sua madre era morta da parecchi anni ormai, Paolo era figlio unico, suo padre non aveva voluto saperne di risposarsi, così erano rimasti soli. Naturalmente avrebbe potuto frequentare la scuola della contrada, insieme a tutti gli altri ragazzi della zona, ma quando tornava a casa non c’era nessuno ad aspettarlo, a preparargli da mangiare, ad occuparsi di lui perché suo padre, che prima lavorava a giornata in campagna, da chi e quando capitava, adesso lavorava in paese come manovale, in una ditta edile che gli garantiva un lavoro continuativo, una giornata sufficiente a vivere, e quindi un po’ più di tranquillità economica che rendeva un po’ meno difficili quei sofferti anni del secondo dopoguerra mondiale. Però non aveva nessuno, Vincenzo, cui affidare suo figlio, nessuno che potesse prendersi cura di lui durante il giorno. Oddio, c’era suo fratello che abitava vicino a loro e che per la verità aveva anche offerto la sua disponibilità a tenerlo a casa e badargli durante il giorno… ma aveva già una famiglia numerosa e tanti problemi; sua moglie, quando capitava, strappava la giornata anche lei per tirare avanti la baracca, e quindi aveva rinunciato.
Avevano invece una sorella, Clelia, sposata, con due figli, che viveva in paese, e preferì mettersi d’accordo con lei. La mattina, dovendo recarsi in paese per il lavoro, conduceva con sé suo figlio e lo affidava a sua sorella, la quale non aveva problemi perché avevano iscritto Paolino allo stesso istituto che frequentava Carlo, il più grande dei suoi bambini, anche se in una classe diversa. Andavano insieme, tornavano insieme, mangiavano insieme, studiavano insieme, anche se, per la verità, le ore di gioco erano molte di più di quelle dei compiti, soprattutto per Paolo. Il padre, quando terminava il lavoro, passava da sua sorella, prelevava Paolo, riprendevano il pullman o, talvolta, facevano a piedi quei cinque, sei chilometri di strada per tornare a casa. A Vincenzo piaceva persino di più quella situazione perché gli sembrava di vivere più vicino a suo figlio, e anche a Paolo non dispiaceva affatto; oltretutto, andare a scuola insieme a quei rammolliti di paese lo divertiva moltissimo, ma questo lo vedremo meglio in seguito.
Naturalmente Vincenzo dava un contributo generoso a sua sorella Clelia ben sapendo quello che era capace di divorare Paolo ogni qual volta si sedeva a tavola, o anche quando faceva tutt’altre cose poiché ruminava in continuazione: era una vera macina! Che fosse di buon appetito, si vedeva, però non era grasso; era robusto e solido come un piccolo di bufalo, con una carnagione fiorita e dura al pari del cuoio. Per questo quasi tutti lo chiamavano Paolotto, talvolta Paoletto, ma il più delle volte in senso ironico.
Quando si era presentato a scuola il primo giorno, con quel suo facciotto campagnolo e un po’ incivile, ma pieno di benessere e dirompente vitalità, tutti quei ragazzini di paese, delicati e bianchicci, erano tentati di prenderlo un po’ in giro, ma guardando quelle mani che sembravano ciocchetti e minacciavano di serrarsi come morse e stritolare, avevano preferito astenersi. Anche se alla fine aveva un’espressione di bonaccione che difficilmente si arrabbia. Infatti Paolo era proprio un bonaccione che rideva sempre, si divertiva e se ne infischiava di tutto. Fino a un certo punto.
C’era nella scolaresca di ragazzini bianchicci un tipo un po’ più alto del normale, ben piantato, che tutti ritenevano il più forte, con un carattere rissoso e prepotente, che aveva messo sotto l’intera classe: tutti lo chiamavano Berto. Tutti facevano ciò che lui diceva, si piegavano ai suoi capricci senza ribellarsi.
C’era anche nella scolaresca un bambino gracile, un po’ più bianchiccio degli altri, timido e debole, si vedeva. Si chiamava Enzo, Enzuccio. Con lui Bero tiranneggiava più che con gli altri, talvolta fino ad un’odiosa cattiveria, perché con lui si divertiva. Ci prendeva gusto perché Enzuccio non voleva cedere alle sue continue prepotenze, si ribellava, ma poi finiva sempre che, piagnucolando, doveva sottomettersi ai suoi voleri. Certo, se avesse potuto, Enzuccio avrebbe voluto dargli un pugno in faccia e spaccargli un labbro. Ah, che soddisfazione! Ma quello poi lo avrebbe pestato senza compassione perché era più forte di lui, non c’era dubbio.
Un giorno, durante una ricreazione che il maestro aveva concesso per recarsi dal Direttore che l’aveva fatta chiamare, la scolaresca restò sola, abbandonandosi a un’assordante caciara. Berto e Enzo facevano discussione, ovvero Enzuccio piagnucolava istericamente e Berto infieriva, con irrisoria indifferenza. Era accaduto che il giorno avanti avevano giocato con le palline di vetro al giro d’Italia – che consisteva nel far percorrere un tracciato sul terreno a una biglia di vetro, sospinta in avanti con colpi dosati di un’altra biglia di vetro, scoccati con l’indice e il pollice della mano destra, poggiata su quella sinistra – senza far uscire la pallina fuori dal circuito. Naturalmente vinceva il giro d’Italia il campione rappresentato dal ragazzo che per primo riusciva a terminare il percorso.
Aveva vinto Enzo, ma Berto lo aveva accusato di aver imbrogliato e per punirlo gli aveva sequestrato non solo le figurine che si erano giocati, ma tutte le biglie di vetro colorate che aveva. Enzo adesso si lagnava di fronte a tutti, e ne pretendeva la restituzione con petulante insistenza. Ad un certo punto Berto si era scocciato, aveva alzato la voce e siccome quello non desisteva, la sua mano si era alzata per colpire. A quel punto si era visto un ragazzino volare per terra e rotolare sul pavimento come una palla di stracci, ma non era Enzo, bensì Berto. Nel sollevarsi, Berto, un po’ intontito, alzò lo sguardo per vedere chi aveva osato tanto e aveva avuto la forza di sbatacchiarlo sul pavimento, e si trovò davanti Paolotto, con le gambe divaricate, le mani sui fianchi e un’espressione nello sguardo tutt’altro che pacioccona.
“Se lo tocchi, t’accrocco!” gli disse. Quando Paolotto cominciava a usare uno dei suoi verbi preferiti, era meglio non farselo ripetere, e Berto non lo fece: guardò, infuriato e incredulo, valutò, abbassò la testa e tornò a sedersi al suo tavolo; e siccome Paolotto era ancora al centro dell’aula con le mani ai fianchi, aprì la borsa, tirò fuori una manciata di palline di vetro e le mise in mano a Enzuccio che volse la faccia trionfante e grata verso il suo imprevisto protettore.
Abbiamo detto “usò uno dei suoi verbi preferiti” perché nel linguaggio di Paolotto i verbi erano molto pochi: quattro o cinque quelli essenziali, con i quali riusciva ad esprimere quasi tutte le sue esigenze e i suoi stati d’animo: accroccare, scroccare, accriccare, scriccare, ingrippare, nei quali la prima forma doveva avere un significato e la seconda esattamente il contrario; in realtà non era così perché li usava tutti più o meno nello stesso senso. Accroccare comunque era il più espressivo e quello che usava di più perché con esso sostituiva qualsiasi altro verbo, anche quello che avrebbe preferito dire, ma in quel momento non riusciva a trovare. Talvolta lo usava come una perifrasi. Se diceva a qualcuno: Nun me fa’ ingrippà!, c’era di che preoccuparsi; ma se, a brutto grugno, diceva: Mo’ t’accrocco!, la cosa più prudente era girare sui tacchi e dileguarsi perché altrimenti Paolotto avrebbe applicato la perifrasi, più o meno come era accaduto con Berto, anche se in quel caso aveva prima applicato la perifrasi e poi detto la parola.
“Paolo, vieni a giocare?”
“No, non posso.”
“Perché?”
“Perché… perché sto accriccato con mio padre.”
“Paolo, come mai questa carriola non funziona più?”
“Papà… s’è accriccata, ma non ti preoccupare che mo’ la scricco io.” Il che naturalmente non significava che potevi stare tranquillo: poteva darsi che l’aggiustava, ma poteva anche darsi che la trovavi gettata da una parte, tutta a pezzi. Perché c’è un’altra cosa che bisogna sapere di Paolo: l’ottanta per cento delle cose che capitavano nelle sue delicate manine, avevano la fine segnata: la brocca si scocciava, il manico della zappa o della vanga si spezzava, si rompeva la lama dei coltelli e talvolta si piegavano persino i manici delle forchette o dei cucchiai.
“Ma come hai fatto a ridurre così questa forchetta?”
Paolotto si stringeva nelle spalle con l’aria più innocente:
“C’ho mangiato…”
“Ma il manico di una forchetta non si piega soltanto perché ci mangi la pastasciutta.”
“Eh… che ne so io… s’è scriccata.”
Comunque, dal giorno della lite tra Enzo e Berto i compagni di classe riservarono a Paolotto una considerazione diversa. Lui continuava a fare il bonaccione, a ridere, scherzare e infischiarsene di tutto. Non si metteva mai in mezzo alle discussioni e alle piccole liti; se un giorno però, sbucando dal silenzio e dal nulla, lo vedevi piantarsi al centro dell’aula, con le gambe larghe e le mani ai fianchi, la classe ammutoliva: tutti ascoltavano quello che diceva e nessuno osava contraddirlo.
Tra le femminucce della classe vi era una bella ragazzina con gli occhioni neri, due treccioni, neri anch’essi, che scendevano sulle spalle o sul petto, verso la quale Paoletto aveva un atteggiamento particolare, come se ce l’avesse con lei o gli fosse antipatica. Si chiamava Liliana. La prendeva sempre in giro, ora per come vestiva, ora per una frase detta, per un gesto, o solo per il gusto di stuzzicarla e di sfotterla, e quando poteva le tirava una treccia, o da dietro il banco o passandole vicino, godendo della sua irritazione, perché lei si arrabbiava sempre e gli gridava: “Stupido!” Comunque, il più delle volte anche lei gli rispondeva ostile, sgarbata, irrisoria. Tuttavia non c’era cattiveria nel loro rapporto, spesso, anzi, veniva da chiedersi se quella reciproca insofferenza non fosse solo apparente o se addirittura non fosse una forma di simpatia camuffata: chi lo sa! Certo i due non si ignoravano affatto e continuavano a pizzicarsi come due vespe moleste.
Intanto l’anno scolastico si evolveva e in quei giorni arrivò la visita del Direttore della scuola, alla quale il maestro teneva tanto, e aveva preparato con grande impegno i suoi alunni per fare bella figura. Aveva raccomandato loro come comportarsi, cosa rispondere se il Direttore avesse chiesto questa o quella cosa, li aveva tenacemente esercitati sulle tabelline, sui verbi, sulle regole grammaticali perché sapeva che il Direttore li avrebbe interrogati per controllare il grado di preparazione.
“In piedi!” ordinò all’apparire del Direttore sulla soglia dell’aula, e tutti scattarono sull’attenti.
“Bene, bene… “ fece il Direttore con un cenno positivo della testa, scorrendo le file dei banchi e, quasi singolarmente, le coppie di ragazzi che li occupavano. “Sedete, sedete pure.”
Tra lui e il maestro si aprì un dialogo di carattere didattico, sui problemi dell’insegnamento, sulle esigenze specifiche della classe, che durò alcuni minuti. Poi il Direttore disse che voleva rendersi conto se gli alunni studiavano con profitto e incominciò a interrogare questo o quello. I ragazzi risposero con sufficienza alle sue domande, persino ad alcune domande a tranello, con evidente soddisfazione del maestro.
Il Direttore intanto continuava a passare in rassegna i ragazzi, fila per fila, finché il suo sguardo si fermò sull’alunno dell’ultimo banco, un ragazzo robusto, un gigantello rispetto agli altri, con i capelli corti e pungenti come setole, dall’aria sregolata e la faccia impunita. Aveva notato che lo scolaro sgranocchiava qualcosa, ed ogni qual volta il suo sguardo cadeva su di lui, smetteva repentinamente per riprendere a ruminare appena lo distoglieva. Anche il maestro, accortosi, ora lo guardava e cominciava a diventare nervoso. Lanciava occhiate fulminanti a lui e ai compagni vicini quasi sperando che le occhiate avessero il potere di colpire fisicamente, inducendo lui a mutare atteggiamento o gli altri a farglielo comprendere. Ma il gigantello non se ne dava per inteso e continuava a macinare segretamente e a infilare le mani in tasca per procurarsi il foraggio.
“Tu” disse il Direttore puntandolo con il dito “dimmi il presente indicativo del verbo menare.”
Il ragazzo sembrò bloccare le mascelle alla ruminazione e si guardò intorno quasi smarrito.
“Su, Paolo: Io… “ lo stimolò il maestro, e siccome quello non si sbloccava, continuò. “Se hai intenzione di menarmi, come dici?”
“Io t’accroc…”
Un’occhiata del maestro gli bruciò la parola sulle labbra sicché il direttore non la comprese.
“Io ti meno, tu mi meni…” si decise alla fine Paolo.
“Bene!” fece il maestro tirando un momentaneo sospiro di sollievo. “Però non è necessario mettere la particella mi, ti. Io meno, tu meni…”
“Egli mena, noi meniamo, voi….” continuò a declinare Paolo.
Vedendo che il Direttore accennava a dirigersi verso l’alunno, il maestro si mosse accanto a lui.
“E’ ben nutrito” commentò il Direttore osservando quel volto florido, dalla pelle dura, che sprizzava salute e benessere.
“E’ un povero ragazzo” cercò di giustificarlo il maestro “ figlio di contadini, senza madre; viene la mattina insieme a suo padre che lavora come manovale in un’impresa di costruzioni.”
“Però!…” fece il Direttore, e, assumendo un’aria un po’ severa, ma non cattiva, gli domandò:
“Cosa stavi mangiando?”
Il ragazzino si pulì la bocca con il dorso della mano e rispose:
“ ’E castegne!”
“ ’E castegne. E come mai mangi le castagne a scuola?”
“C’avevo fame.”
“Mangia sempre castagne, tutto il giorno” intervenne il maestro, scotendo la testa, desolato.
“Ieri sera a cena che cosa hai mangiato?”
Il ragazzo lo guardò con aria quasi sorpresa.
“ ‘E castegne” rispose con naturalezza. “Ne abbiamo fatto due callaroste(1) piene, io e mio padre. I marroni sono buoni a callaroste(2), le castagnole a zuffi(3)” specificò.
“E a pranzo che cosa mangi? Non mi dirai che mangi sempre castagne” incalzò il Direttore.
Il ragazzo si mise a ridere.
“Mangio minestra di pasta e fagioli, la pasta sfoglia col lardo che fa mia zia, il pane condito con l’olio d’oliva.” Ci ripensò e rise di nuovo. “Direttò, mica mangio solo castegne… Mia zia fa anche la pizza col castagnaccio e l’uva passa, e mio padre, la domenica, fa certe marmitte di marroni a lesso, co’ la cicerchia e le foglie d’alloro…” e nel dire ruotava la mano nell’aria e deglutiva come se ce l’avesse in gola.
“Ma la carne” lo interruppe il Direttore “non la mangi mai?”
“Il pollo, in qualche festa importante. Papà dice che la carne costa troppo; ma fino a quando durano ‘e castegne, io sto bene. “
“E quanto durano queste castagne?” chiese il Direttore.
“Quando sono cotte al forno, come le fa mio padre, le mette dentro a un sacco e si mantengono tutto l’inverno.”
“Ah!” fece il Direttore, come a dire che ne aveva di tempo per sgranocchiare. “E come sono le castagne al forno?”
Quale migliore occasione, pensava Paoletto nella sua semplice generosità; infilò rapidamente una mano in tasca e la tirò fuori, piena di castagne.
“Senti, Direttò” disse “senti quanto sono buone!”
La scolaresca era rimasta in silenzio ed ora seguiva la scena con curiosità; i più ridevano. Il Direttore guardò quel ragazzino, solido come un torello, che mangiava castagne tutto il giorno, raffrontandolo agli altri bambini della scolaresca. Era così semplice e sincero, che non poté fare a meno di accettarle. E forse quella manciata di castagne gli fornirono un’immagine diversa di quell’insolito scolaro.
“Grazie” disse “ però le mangerò a casa. Non è bello mangiarle a scuola, non ti pare? A scuola si va per ascoltare le lezioni, fare compiti, studiare.”
“Sì” acconsentì Paolo, ma non era certo che, magari di nascosto, non avrebbe continuato a sgranocchiare molte castagne.
LA GITA SCOLASTICA
L’idea era piaciuta a tutti, agli insegnanti, al direttore, agli alunni che, per un giorno, anziché restare sui banchi di scuola a combattere con addizioni, sottrazioni, verbi e complementi, avrebbero potuto fare una bella scampagnata all’aria aperta. Così una mattina i ragazzini di due o tre classi dell’istituto erano saliti su due pullman, riempiendoli della loro festosità, ed erano filati via verso le rampe del monte che giganteggiava dall’alto.
Tra grida, risa e canti la vetta si avvicinava sempre più, offrendo il contatto delle sue gobbe rampanti verso il cielo , i suoi alberi che sfilavano a destra e a sinistra, gigantesche querce, poderosi castagni e alti faggi, che, da un lato all’altro della strada si univano con i rami sulle loro teste, formando, a tratti, degli splendidi tunnel di verde che si riaprivano sempre nell’immenso spazio del cielo azzurro.
L’unica differenza rispetto all’estate erano le abbondanti foglie secche sui marciapiedi mentre altre si staccavano dalle chiome degli alberi e ondeggiavano nell’aria, planando al suolo per formare quel soffice tappeto che pian piano avrebbe ricoperto tutto, cancellando anche radure e sentieri.
Eravamo tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre: il tempo non si era ancora guastato ed aveva mantenuto tutta la gradevolezza di ottobre, che è il più bello dei dodici mesi dell’anno. Il più limpido sicuramente. L’estate ha spento le sue vampe roventi, la temperatura si è fatta mite, le prime piogge hanno lavato l’atmosfera liberandola dalla foschia. Ed ecco il nitore di ottobre che sembra racchiudere l’universo in una teca di cristallo tenero. La luminosità dei giorni è impareggiabile, e siccome il sole non abbaglia, si può osservare il panorama, nitidamente, come in nessun periodo dell’anno: le cime dei monti, le acque del mare che brulicano come argento o oro liquido e crespo, le città, i borghi con i loro campanili, i loro palazzi, nei loro dettagli.
I pullman arrivarono al Fontanone, approdando in un enorme piazzale ghiaiato, ai piedi di un costone di roccia nuda e viva dalle cui viscere fluiva acqua cristallina, con un complesso di fontane, fontanili e vasconi, in cemento e mattoni, nei quali i mandriani abbeveravano gli animali o le donne dei dintorni si recavano a lavare i loro panni; la fontana per attingere acqua era praticata proprio sulla parete di roccia, con una vasca realizzata in pietra nella quale si riversava quel flusso perenne e gelido.
Oltre le rocce iniziava il manto degli alberi che ricopriva tutto il monte, uniformemente, e che ora aveva assunto una variazione di sfumature che rendevano indefinibili i suoi colori. Dominavano il rosso languido degli aceri, chiazze di giallo dorato, il marrone bruciato, il verde in tutte le sue tonalità.
“Guardate, ragazzi, quanto è bello il bosco in autunno!” prese a dire il maestro di Paolo dal gruppetto degli insegnanti, mentre i ragazzi si stringevano tutt’intorno. “Ogni stagione ha il suo fascino: la primavera quello dei fiori, dei profumi; l’estate quello dei sapori, della frutta deliziosa; l’autunno quello dei colori.
In estate il bosco, con la sua vegetazione fitta e impenetrabile, ha offerto il suo rifugio e il suo fresco a uomini e animali. Ha fornito legna ai boscaioli, prodotto funghi squisiti per i cercatori, che li hanno raccolti, venduti e li abbiamo mangiati tutti. Poi ha scaricato la sua produzione di castagne, sfamando animali selvatici e domestici, e offrendo una preziosa raccolta alla gente di montagna, che le ha immagazzinate per mettere all’ingrasso i maiali, ma anche per uso alimentare della famiglia.
Adesso si spoglia, il bosco, perde i suoi colori, i suoi sapori, i suoi profumi. Per dare questo addio, in autunno si veste dell’abito più bello, policromo, come una persona che deve partire per un lungo viaggio. Il monte, tra poco, con i suoi alberi grigi e brulli, con i suoi costoni nudi e senza colori, si addormenterà come un gigante stanco; in realtà si rigenera, recupera energie durante l’inverno per rifiorire a primavera e affrontare un nuovo ciclo di vita e di produzione.
Tutti gli animali e gli esseri che lo popolano scompaiono misteriosamente: in realtà gli animali selvatici si nascondono nelle loro tane, nei loro rifugi e difficilmente si lasciano sorprendere in giro; ma vi sono tanti altri esseri, a volte semplicemente fantasiosi, che popolano il bosco e che in autunno trasmigrano verso monti lontani dove inizia la bella stagione. O forse anche loro si rifugiano nelle caverne, in recessi inaccessibili. Sono i personaggi della mitologia, che sono entrati a far parte della tradizione e della fantasia popolare.”
“Signor maestro, che cos’è la mitologia?” chiese una bambina con due occhi di un celeste slavato e una coda di cavallo lunga e sottile.
“È la narrazione di fatti o personaggi vissuti nella realtà o semplicemente nella fantasia di un popolo e arrivati fino a noi, arricchiti, nel corso dei secoli, dall’immaginazione di chi li racconta. D’altra parte” proseguì il maestro “siete mai stati nel bosco durante l’estate?” Quante voci, quanti rumori strani, quante cose misteriose accadono! Ci sono tutti i suoi abitanti nascosti nella sua vegetazione intrigata e talvolta inaccessibile. Sapete quanti strani personaggi si possono incontrare in un bosco? Chi sa dirmene qualcuno?”
“Gli gnomi” rispose un bambino, basso e grassottello, che in effetti poteva lui stesso sembrare uno di loro, rompendo quel silenzio che indicava la curiosità e l’interesse con cui i ragazzi seguivano le sue parole.
“Certo, gli gnomi” confermò il maestro “come nelle favole di fate e orchi. Se voi vi nascondeste, quando tutto tace, senza fare un fiato, potreste vederli apparire e sgattaiolare tra i ciocchi, in cerca di castagne o di funghi da mangiare.
Ci sono poi le ninfe, fanciulle leggiadre che potrebbe capitarvi di vedere, nelle ore caldissime, dirigersi verso le fonti, nude, e tuffarsi nelle acque per rinfrescarsi e fare il bagno, ridendo e scherzando. Oppure potreste vederle, con vesti leggerissime e fluttuanti, o avvolte in semplici veli trasparenti, danzare volteggiando nell’aria.
Ci sono i satiri.”
La parola colpì l’orecchio di Paolo.
“Chi?!” chiese con curiosità.
“I satiri” ripeté il maestro.
“E chi sono questi sapiri?”
“ Satiri” corresse il maestro alzando il tono della voce. “Sono esseri con corpo di uomo, ma con piedi, orecchie e code di caprone.”
Paolo ascoltava con molta attenzione e volle sapere:
“Che fanno questi sapiri?”
“Satiri…” corresse ancora il maestro. “Vivono nei boschi e talvolta ghermiscono le ninfe…”
“Che cosa fanno?”
“Inseguono le Ninfe o le fanciulle imprudenti che passeggiano da sole nel bosco e le aggrediscono per… “
Paolotto buttò tutta la testa all’indietro e scoppiò a ridere con malizia.
“Ah, ho capito!…” e risero tutti.
“Un giorno potrebbe anche capitarvi di sentire un rumore da brivido tra le frasche o un ululato raccapricciante poco lontano da voi e intravedere nel fitto della boscaglia un lupo feroce o un orso, come dicono sia accaduto a qualche nostro boscaiolo… ma forse è un’invenzione; però vi sono realmente boschi nei quali vivono ancora orsi e lupi, e questo non fa parte della mitologia, bensì della flora e della fauna del nostro territorio. Bene!“ concluse l’insegnante, molto soddisfatto di quella bella lezione dal vivo e soprattutto dell’attenzione che i ragazzi avevano manifestato. “Adesso tirate fuori i vostri panini e fate colazione.”
Subito il gruppo dei ragazzi si disciolse, sparpagliandosi qua e là sul grande piazzale, parte sedendosi o mettendosi a cavalcioni sul bordo dei vasconi, alcuni arrampicandosi sulle rocce e sedendosi al sole, altri trastullandosi alla fontana; tutti a svolgere gli involti della colazione e a divorare il loro panino.
Gli insegnanti restarono in gruppo, conversando, commentando, ridendo.
In quell’atmosfera così serena, ricreativa il tempo correva veloce; nessuno avrebbe fatto caso a due o tre ragazzine che si staccarono dai gruppi, allontanandosi quasi furtivamente, magari per una pudica esigenza corporale. Nessuno ci fece caso infatti, ma quando arrivarono grida di aiuto, tutti i ragazzi balzarono in piedi e gli insegnanti si sentirono gelare. Subito si precipitarono in massa in direzione delle grida e videro immediatamente le tre ragazzine, anzi due, che si agitavano, si disperavano, indicando quello che sembrava il bordo di un precipizio, gridando.
“Liliana è precipitata… correte!”
Accorsero tutti e non furono necessarie altre spiegazioni: vi era una grossa voragine davanti a loro, con il bordo ricoperto di rovi, nel quale Liliana era precipitata ed era rimasta sospesa nel vuoto, attaccata ad un arbusto abbarbicato alla parete del precipizio e i piedi poggiati su incerte sporgenze del terreno.
“Aiutatemi!” gridava. “Tiratemi su! Ho paura di precipitare!”
In effetti se avesse mollato la presa da quel piccolo fusto di arboscello, se i fragili sostegni sui quali poggiavano i suoi piedi avessero ceduto, sarebbe caduta nel vuoto di quel baratro del quale non si vedeva il fondo.
Che fare!… Che fare!…
Era sospesa ad oltre un metro dalla superficie, non vi era alcuna possibilità di protendersi, di afferrarla, di tirarla su, senza il rischio che fosse precipitato anche il soccorritore. Tutti si agitavano, ma nessuno sapeva che fare per salvare la povera Liliana che continuava a implorare di essere aiutata. Gli insegnanti erano come impietriti, incapaci di prendere un’iniziativa.
Spuntò come sempre dal nulla, da dietro a tutti, e sembrava che lui sapesse cosa fare, lui, Paolo.
“Tiratevi indietro” gridò con decisione; e tutti si ritrassero dall’orlo del baratro perché sembrava che lui avesse le idee chiare e fosse pronto a metterle in pratica.
Con un balzo si aggrappò ad un albero di castagno ancora giovane, con la rapidità di uno scoiattolo si portò sulla punta, l’afferrò e senza esitazione si lanciò nel vuoto. I compagni restarono col fiato sospeso; gli insegnanti si portarono una mano davanti alla bocca per non gridare dallo spavento e dalla paura, magari per rimproverarlo, per ordinargli di non farlo poiché temevano che ad una disgrazia se ne stesse sovrapponendo un’altra. Ma tant’è!…
L’albero non cedette, come tutti temevano, si fletté elasticamente, ma il ragazzo pendeva sul vuoto della voragine; con un ultimo strappo fece piegare l’albero verso il ciglio del cratere fino a depositarlo su un masso roccioso sporgente dalla parete: ora era al sicuro. Tutti tornarono a respirare. Paolotto non perse tempo, si posizionò con sicurezza sulla sporgenza rocciosa, afferrò un ramo della vegetazione bassa del cratere, ne saggiò la consistenza. Si era portato a fianco della sua compagna, piuttosto alle spalle, data la rotondità del precipizio. Sempre tenendosi aggrappato al ramo come ad una corda, si protese verso la ragazzina, divaricò le gambe appoggiando il piede destro su uno spuntone di roccia, finendo totalmente alle sue spalle. Con la mano libera le cinse la vita e le disse, calmo e sicuro:
“Non aver paura e fai quello che ti dico.”
“Sì, sì” rispose la ragazza, tremante, ma rinfrancandosi.
“Poggia il tuo piede sul mio e afferra il ramo al quale sono aggrappato io”; e intanto, sostenendola, la sospingeva tenacemente verso la roccia sulla quale finalmente la ragazza approdò al sicuro. Gli insegnanti e i ragazzi che avevano seguito con trepidazione le manovre dei loro due compagni, trassero un lungo sospiro di sollievo.
L’autista di un pullman, nel frattempo, avendo intuito l’evolversi della vicenda, si era precipitato verso l’autobus ed era tornato con una corda, che calò immediatamente ai due ragazzi, dicendo a Paolo: “Legala alla vita della tua compagna”, mentre egli assicurava l’altro capo annodandolo al tronco di un albero.
Terminata l’operazione, Liliana, aggrappandosi alla vegetazione del cratere e, sostenuta dalla corda che l’autista e gli insegnanti tiravano con forza, finalmente riemerse in superficie, sana e salva!
Purtroppo era scritto nel destino che quel giorno dovesse accadere una sciagura! Mentre dalle bocche dei compagni stava per uscire il grido di gioia, si levò invece un urlo di raccapriccio: Paolotto, nel tentativo di sospingere Liliana verso l’alto, o forse per un eccesso di sicurezza, aveva perduto l’equilibrio precipitando nel baratro! Si udì un rovinoso fruscio, un rotolare di sassi, tonfi… e poi più nulla.
“Paolo! Paolo!” lo chiamarono i compagni disperatamente. Silenzio. I compagni erano sconvolti, gli insegnanti impietriti. Liliana era scoppiata in un pianto irrefrenabile, disperato, inconsolabile. Dopo il terribile momento di smarrimento, gli insegnanti stavano già per dare disposizione agli autisti di caricare i ragazzi sul pullman e riportarli a scuola, informare la direzione, le autorità, chiedendo l’immediato intervento dei Carabinieri, dei Pompieri; già stavano dando ordine ai ragazzi di salire sul pullman, senza perdere tempo, perché prima sarebbero arrivati i pompieri e prima avrebbero potuto tirare su e salvare Paolo. Perché lo avrebbero salvato non c’erano dubbi. I vigili si sarebbero calati giù e lo avrebbero riportato in superficie.
Mentre avveniva tutto questo, ecco un tramestio in fondo al burrone, i cespugli di rovi, le felci agitarsi, come se un animale, un cinghiale per esempio, si districasse per uscire fuori. Ed ecco spuntare la faccia di Paolotto, con i capelli irsuti come setole di cinghiale.
“Paolo!… Paolo!…” gridarono i compagni. “Paolo!…” gridarono gli insegnanti. “Paolo… Paolo!” gridava, facendo salti di gioia, Liliana, che ora piangeva, rideva, in preda ad un’emozione incontenibile.
Paolo correva verso di loro, infuriato come un torello!
“Ah fiji de ‘na vacca!” gridava in dialetto. “Va cogliessivo, eh? Me lascessivo qua da solo, eh?(4)” Ma poi, di fronte alla gioia, alle risa e alle grida dei suoi compagni, il suo volto bonaccione, da eroe inconsapevole, già rideva.
Gli insegnanti alzarono al cielo gli occhi, che si illuminarono come il sole. Liliana gli andò incontro di corsa; di corsa gli buttò le braccia al collo, piangendo di contentezza, di riconoscenza; piangendo per lo scampato pericolo. Era semplicemente felice.
“Guarda!” le disse Paolo mostrando una gamba dei pantaloncini tutta squarciata. Mi si sono strappati i cazzonitti belli!(5): chi me li aggiusta adesso (lui non aveva la mamma)?”
“Te li aggiusto io, stupido!” gli gridò Liliana dandogli una spinta.
“Tu!?” ribatté Paolo che non perdeva occasione.
“Io, sì. Sono bravissima, io, a cucire! I pantaloni e le camicie dei miei fratelli, li riparo tutti io. “
Paolotto fece lo scettico:
“Sarà…”
Ora si erano stretti tutti intorno a lui, compagni e insegnanti. Il suo maestro gli chiese:
“Ma come hai fatto a uscire da quel precipizio?”
“Non è uno sprofondo, io lo conosco; l’ho scoperto venendo qui al Fontanone a fare le castagne: è una buca scavata dall’acqua piovana tra le rocce. Sarà alta tre-quattro metri e l’acqua di scolo esce in fondo al burrone, perciò si può entrare e uscire.”
“E non ti sei fatto male?”
“Beh, non è a strapiombo: mi sono rotolato” Si tastò qua e là, disse: “Mi sono un po’… scriccato!”
Risero tutti.
“E come hai fatto a uscire da quel groviglio di rovi?”
“C’è un passaggio sotto, dove forse ci passano gli animali che si nascondono lì.” Si bloccò, ebbe un lampo negli occhi e domandò al suo insegnante: “Signor maestro, forse ci vanno a nascondersi i sapiri? “
“Può darsi, Paolo, può darsi” rispose l’insegnante, scotendo la testa con un sorriso abbozzato. Di nuovo risero tutti. Ma Paolo aveva ancora una domanda da fare al suo insegnante:
“Ma i sapiri, se sono mezzi uomini e mezzi caproni, che mangiano, l’erba?”
“Se vivono nel bosco mangeranno castagne, funghi, bacche, frutti selvatici.”
“Ah!” fece Paolo, soddisfatto.
Poco dopo i pullman scendevano dai tornanti del monte, carichi di tutti quei ragazzi che già erano tornati spensierati e caciaroni dopo aver vissuto in quei terribili momenti tanta paura, disperazione, gioia; adesso erano tutti sereni. Tuttavia non avrebbero dimenticato facilmente gli avvenimenti di quel giorno, di quella gita scolastica; anzi non li avrebbero dimenticati affatto e forse li avrebbero raccontati proprio come i fatti di quella cosa che il maestro aveva chiamato mitologia!
Nei posti di coda di uno dei pullman c’era Paolotto, sprofondato nel sedile, con una gamba accavallata sul bracciolo, che sgranocchiava di gusto. Il compagno che sedeva accanto a lui gli chiese:
“Cosa stai mangiando?”
“’E castegne.”
“E dove le hai prese?”
“Quando sono uscito dal burrone, c’era un mucchietto di cardi aperti, ma che tenevano ancora ‘e castegne dentro.”
“Dammene una!” chiese il compagno.”
Paolotto si infilò una mano in tasca e gliene diede due-tre. Così poco dopo rosicchiavano in due.
Note:
- in questo caso, padella bucherellata per cuocere castagne al fuoco
- castagne abbrustolite
- caldallesse
- Ve ne andavate, eh? Mi lasciavate qua da solo, eh?
- Cazzonitti belli: quelli per la festa, per andare in paese; gli altri erano semplicemente cazzonitti, calzoncini corti di tutti i giorni
Bello. Divertente. Commovente. Ma non mi sembra un racconto per bambini, non solo, almeno.
A me il racconto è piaciuto molto, mi ha evocato qualche passaggio del libro “Cuore” che da ragazzina ho tanto amato! Complimenti!
Oggi il mondo della scuola è di ben diversa dimensione, ma diciamoci la verità, quanto ci affascina e ci commuove il mondo semplice di un tempo! Perché in quella semplicità c’erano i valori insostituibili della civiltà contadina. Un racconto magistrale, davvero da leggere in classe!
Avevo letto questo racconto e lo avevo trovato straordinario. Lo ho voluto rileggere ed ho trovato altri aspetti molto interessanti quali la semplicità/naturalezza, il senso di solidarietà e l’altruismo del bambino Paolo che sono estremamente importanti per la formazione di cittadini responsabili e sensibili ai bisogni degli altri.
Cara Aurora ( che bel nome hai! ), l’accostamento al libro ” Cuore ” non può che onorarmi e mi fa piacere che il racconto ti sia piaciuto.
Cara Antonella, tecnicamente la tua osservazione è ineccepibile: racconto per bambini si deve intendere una favoletta che va loro letta in quanto essi non sanno ancora leggere e scrivere. Io ho spostato il limite di qualche anno, l’età delle scuole elementari, che ritengo vada bene lo stesso.. Quanto al tuo commento, mi stupisce una cosa: che con tre parole hai espresso un giudizio perfetto … troppo professionale.
Caro Sergio, dai tuoi commenti credo che tu abbia perfettamente compreso il senso e i valori del racconto.
Quanto mi piace Super Paolotto!
Simpatico e profondo questo racconto, dal sapore antico e buono dei sentimenti genuini.
Complimenti Colombo, un lungo capitolo che provoca curiosità e nostalgia.
Si, molto commevente e nostalgico. Sarebbe bello se nelle nostre scuole tornassero un po’ di questi buoni e spontanei sentimenti. Penso che, purtroppo, stia prendendo piede una certa arroganza e presunzione che non lascia molto spazio alla bontà d’animo e alla semplicità. Sono daccordo che il tuo racconto dovrebbe essere letto dai bambini delle elementari, chissà che non riesca a dare qualche buon insegnamento. Complimenti, davvero bello.
Il tuo augurio è il commento più bello che potessi fare!.Grazie, Pasqualina!