Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Delitto al liceo” di Salvo Barbaro

Categoria: Premio Racconti per Corti 2018

Marco guardava la professoressa in modo malizioso. Lei, Carla Anselmi, era bellissima, prosperosa, indossava sempre dei jeans stretti mettendo in mostra un sedere da paura. Camminava su e giù per l’aula gesticolando in modo semplice, calmo, troppo perfetto. Appena Carla si voltava alla lavagna, Marco deglutiva toccandosi la patta dei pantaloni.
«Mmm… che voglia ho di te!»
Fantasticava: la sua mente era proiettata verso una cena romantica, occhi negli occhi, con la professoressa più ambita di tutto il liceo. Mano nella mano si trasmettevano amore, effusioni romantiche da innamorati felici. Poi il letto, il sesso da perfetto attore porno.
«Marco, mi senti?»
In sottofondo il brusio della classe, le voci e i ghigni dei compagni.
«Come?» rispose Marco, paonazzo.
«Ti vedo distratto» commentò la professoressa, che indossava degli occhialini con montatura nera.
«No, è che…»
Brusio e risatine.
«“Che” cosa?» Carla si tolse gli occhiali. Aveva degli occhi verdi che incantavano.
Marco sospirò, poi si alzò di scatto dalla sedia.
«Posso andare in bagno?»
«Non mi hai risposto…» fece la professoressa.
«Deve andare in bagno a farsi una sega…»
A dire quella frase fu Gioele Marini, anni diciannove, ragazzone grosso, rosso e con il viso pieno di lentiggini. Denti gialli, cispe agli occhi, conosciuto in tutto l’istituto come quello che neanche al mare toccava l’acqua: era il classico burlone della classe.
«Posso andare in bagno?» ripeté Marco, con le nocche che premevano sul banco per il nervosismo.
Carla, la professoressa, annuì. Marco, come un’anguilla, sgusciò tra i banchi, arrivò alla porta della classe, l’aprì e se la chiuse alle spalle sbattendola. Si ritrovò in bagno solo, inebriato dall’odore di erba e nauseato dal puzzo di piscio, quello tipico da sciacquone rotto. Bestemmiò sotto voce e pensò di dare un pugno al muro; non lo fece. Guardò il soffitto, portandosi le mani al volto.
«Che figura di merda… cazzo…» imprecò.
Marco non era brutto, alto circa un metro e ottanta, occhi marroni, capelli neri e fisico snello. Taciturno, veniva preso in giro per le vistose occhiaie, a detta dei compagni di classe provocate dalle numerose “raspe”. Aveva diciannove anni e non vedeva l’ora di finire la scuola, trovarsi un lavoro, guadagnare bene e vivere da solo, senza il peso opprimente della mamma casalinga e del padre operaio, ubriacone e assente. Voleva diventare qualcuno: il mondo doveva parlare di lui. Fantasticava come al solito mentre si guardava nello specchio del bagno; un leggero sorriso gli apparve quasi per magia sul volto.
«Marco, tutto bene?»
Il ragazzo si voltò spaventato. Piero Rogi, suo compagno di banco, lo aveva raggiunto per assicurarsi che tutto procedesse per il meglio.
«Sì… è che sono un po’ stanco, Piero» rispose Marco mentre fece finta di lavarsi le mani.
«Ti capisco! Anch’io stanotte non ho chiuso occhio! La carbonara che ha fatto tua mamma ieri m’è rimasta sullo stomaco!» disse sorridendo.
Piero era il ragazzo più invidiato del liceo. Benestante, genitori ricchi, casa di proprietà e indipendente, figlio unico, feste, alcol, bella macchina. Sballo e tantissimo divertimento.
«Sì, anche a me…» disse Marco.
Piero sorrise. Guardava Marco fisso negli occhi, tremava leggermente con il labbro superiore. Tirò fuori dalla tasca un pacchetto di Marlboro rosse, lo aprì ed estrasse uno spinello. Lo accese e lo passò a Marco. Tre tiri intensi, rapidi, rilassanti. Il ragazzo ringraziò e fece per ritornare in classe.
«Marco, te la faresti la prof?»
Marco arrossì.
«Dai, si vede lontano un miglio che ti arrapa.»
«Be’… sì… mi piace… su Facebook mi ha anche accettato l’amicizia…»
Marco si portò la mano tra i capelli.
«La vidi una volta al Tenax! Che troia che è…» fece Piero.
«Come?»
«Sì, era con delle amiche… cazzo, la dovevi vedere… ci provava con tutti…»
«Va be’, dai, ora vado, sennò mi rompe.»
Marco interruppe il discorso per gelosia. Salutò il compagno con un gesto della mano e ritornò in classe. Piero era opprimente, gli gironzolava sempre attorno come un cagnolino col suo padrone. Asilo, elementari, medie e ora il liceo: avevano attraversato insieme tutta la trafila scolastica. Senza neanche avvisare suonava il campanello di casa Gorini. La sera se lo ritrovava spesso a cena, seduto al tavolo in cucina. A Marco questo dava molto fastidio, una cosa che non sopportava.

Sbuffò. Arrivò in classe: Carla, la professoressa tutta curve, era ancora lì che spiegava Machiavelli, il suo pensiero, la sua filosofia. S’interruppe guardando Marco da dietro gli occhialini.
«Tutto ok, Gorini?» fece lei.
Marco annuì e si rimise seduto al banco. Altri brusii, risatine antipatiche e ghigni accompagnarono la giornata scolastica che si concluse alle ore tredici e trenta. Marco non aveva nessuna voglia di rientrare a casa. Si fermò davanti a scuola, si sedette sulle scale e si accese una sigaretta. Osservava il mondo andare avanti incurante delle sue fatiche, i compagni in gruppo che ridevano, scherzavano, socializzavano; lui arrancava chiuso nella sua solitudine e in quella vita che gli stava troppo stretta.
Erano usciti tutti da scuola; poi un urlo, intenso, vibrante, acuto.
«Aiuto, aiuto, aiuto!»
Filomena, la bidella, capelli neri come la pece, era rossa in volto, piangeva e gesticolava in modo ridicolo.
«Aiuto, aiuto, aiuto!» ripeteva mentre s’accasciava a terra, svenuta.
Accorsero in tanti, troppi. Anche Marco scattò come un centometrista. Al piano terra dell’Istituto Dante Alighieri, nel bagno dei professori, giaceva a terra, senza vita, il corpo di Carla Anselmi. Bianca in volto, con la testa sul water e gli occhi ancora aperti. Sul collo i segni evidenti di uno strangolamento.
Marco digrignò i denti, strinse i pugni, s’irrigidì come una statua di cera: era incredulo. Scappò via all’arrivo dell’autoambulanza. Corse lontano, senza meta, senza mai fermarsi: la sua testa ripeteva ossessivamente “è impossibile cazzo, ma come è potuto succedere, è impossibile, ma chi è stato?”.Arrivò a casa sudato, trasandato, il padre russava sul divano del soggiorno; Marco attraversò il corridoio in silenzio, si chiuse in camera, si spogliò nudo come un verme e si masturbò sulla professoressa che poche ore prima gli sorrideva. L’arrapava anche da morta, distesa sul pavimento del bagno della scuola. “Ho dei seri problemi”, pensò appena finito il “sublime piacere”. Si rivestì e si addormentò sul letto.

Erano quasi le sette di sera quando la signora Gemma, mamma di Marco, lo svegliò in preda al panico.
«Marco, c’è la polizia! Amore, svegliati! Piccolo mio, cosa è successo?»
Gemma era opprimente, la classica mamma che cerca sempre di sapere ogni cosa del proprio figlio.
«Cosa?» Marco aveva la bocca impastata, lo stomaco vuoto, la testa priva di pensieri.
«Di sotto c’è la polizia! Ha chiesto di te!» ripeteva con ossessione la donna, gli occhi spiritati e il volto colorato della paura.
Marco si alzò dal letto, spostò con energia la madre e si diresse in salotto. Ad attenderlo c’era il padre seduto su una sedia, le mani sul volto e l’espressione tipica del dopo sbronza, incazzato come una iena e gli occhi rossi iniettati di sangue. In piedi, due poliziotti in divisa, uno alto e secco, l’altro grasso e tarchiato. In mezzo a loro un uomo alto, robusto, vestito con una giacca di jeans, pantaloni di velluto e una maglia di cotone.
«È lei Marco Gorini?» disse l’uomo in mezzo.
Marco annuì. Dalla sua bocca non uscì un suono.
«Ci può seguire, per favore?»
«Perché? Che ho fatto?»
«Ci segua, per favore… senza storie.»
«Devo mettermi qualcosa addosso…» esclamò il ragazzo con voce rauca, stoppata dall’emozione.
«Si muova.»
Marco raggiunse la sua camera, prese solo la giacca che aveva lasciato sulla sedia della scrivania. “Perché proprio me? Cosa vorranno? Dove mi portano?”. Si fece queste domande mentre i due poliziotti lo caricavano sulla volante e, a sirene spiegate, come un vero film poliziesco, sgommavano verso la questura. Paolo Gorini e la moglie Gemma rimasero senza parole nel silenzio della casa. Lui scuoteva la testa, le mani a coprire il viso; lei faceva su e giù per la casa senza dire una parola.

L’ufficio del commissario Landolfi era piccolo; una piccola stanza stretta e soffocante, illuminata a stento da una lampada posta in bella mostra sulla scrivania. La cornice con la foto della sua famiglia dava un po’ di brio a quell’ambiente lugubre e saturo. Il puzzo di sigaretta e l’aroma del caffè inondavano l’ambiente.
«Ha diritto a un avvocato, signor Gorini…»
Landolfi era in piedi, teneva tra le labbra la sigaretta che faceva roteare in bocca quasi avesse un tic nervoso. Marco era seduto di fronte a lui, chiuso nel proprio guscio, rannicchiato, come a volersi nascondere da quella situazione.
«Ha capito, Gorini?»
«Sì, ho capito, ma io… l’avvocato? Perché dovrei avere un avvocato? Poi, perché sono qui?»
La voce di Marco era tremante.
«Le domande le faccio io.»
Il commissario mise su un’espressione da duro: cercava di incutere timore al ragazzo.
Marco annuì.
«Conosceva la professoressa Carla Anselmi?»
«Sì, la conoscevo perché era la mia insegnante di italiano.»
«Lo sa che fine ha fatto?»
Landolfi si avvicinò alla finestra, l’aprì e s’accese la sigaretta. Aspirò lungamente, buttò fuori il fumo mentre Marco Gorini rispondeva un “sì” strozzato in gola. Gli occhi del ragazzo divennero lucidi.
«Lei a che ora è uscito da scuola?» fece Landolfi, sedendosi.
Nell’ufficio del commissario c’erano solamente loro due. Fuori dalla porta un leggero brusio, qualche risata e chiacchiera a voce alta.
«Non ricordo… verso le tredici e trenta… a lezione conclusa.»
«Mmm… può essere più preciso?»
«L’orologio non l’ho guardato… comunque tredici e trenta, più o meno.»
«Lei ha visto la professoressa Carla fuori dall’istituto?»
«No. L’ho lasciata che era ancora in aula. Sono uscito dalla scuola e sono rimasto fuori per un po’, seduto sulle scale.»
«Che rapporti aveva con la professoressa?»
«In che senso… non capisco.»
Marco era teso, paonazzo. Muoveva nervosamente le gambe, rosicchiandosi le unghie.
«Ci è giunta nel pomeriggio una telefonata anonima. Siamo riusciti a registrarla… senta…»
Landolfi dal computer fece partire la registrazione: una voce camuffata diceva che a uccidere Carla Anselmi era stato lui, Marco Gorini. La voleva possedere nel bagno della scuola, lei aveva rifiutato le avance e di conseguenza il giovane studente l’aveva strangolata.
«Cosa? Io…»
«Ha sentito?» fece Landolfi, spegnendo l’ennesima cicca nel posacenere.
«Io… io… io non so di cosa state parlando…»
Marco s’alzò di scatto dalla sedia; voleva scappare, andare via, svegliarsi da quell’incubo. Landolfi osservava attentamente il ragazzo; intanto nella stanza erano entrati i due poliziotti – il secco e il tozzo – avevano preso Marco per le braccia e lo avevano fatto risedere.
«Non è vero… è tutto falso… non sono stato io… non credete a quella persona…»
Marco piangeva, urlava, si dimenava, sbraitava. Guardava i due poliziotti e cercava aiuto, complicità.
«Si calmi, per Dio! Si calmi, sennò la sbatto dentro, Gorini!»
Finalmente Marco si placò; tirò su col naso e si asciugò le lacrime. I poliziotti allentarono per un attimo la presa, restando sempre accanto al giovane.
«Le piaceva la professoressa?»
«Come?»
«Le piaceva Carla Anselmi?»
«In che senso?» Marco fece finta di non capire.
«Per Dio, Gorini… se la sarebbe scopata, la professoressa?» urlò Landolfi.
Marco divenne rosso in volto. Annuì pian piano, come a nascondersi.
«Era innamorato della signora Carla Anselmi?»
«Io? Io… cioè… a me piaceva… come a tutti… ma innamorato… innamorato no…»
«Non mi piace il suo atteggiamento» borbottò il commissario.
«Voglio tornare a casa» piagnucolò Marco.
«Lo farà… se mi dice come sono andate le cose, andremo tutti a casa…»
«Le ho detto la verità… sono uscito alle tredici e trenta, sono rimasto a fumare una sigaretta sulle scale, poi ho sentito l’urlo della bidella e dopo sono andato a casa…»
«Ok… e questa telefonata anonima?»
Marco fece spallucce.
«Bene… bene… bene.»
Landolfi si stiracchiò, si strofinò il viso con le mani e si accese un’altra sigaretta. Fuori ormai era calata la sera; l’orologio alla parete dell’ufficio segnava le nove in punto. Papà Gorini e sua moglie attendevano fuori dalla questura, in trepida attesa, nervosi, stanchi, incazzati.
«Io ho molti dubbi, caro Gorini. Per il momento la lascio andare… si tenga a disposizione.»
Marco annuì. Era stanco, il volto segnato, la bocca asciutta.
«Ora può andare… buona serata.»
Landolfi strinse la mano al ragazzo, che si alzò, ricambiò il gesto e chiuse la porta dell’ufficio alle proprie spalle. Papà e mamma lo videro arrivare e gli andarono incontro con le tipiche facce da funerale: per un attimo si fermò e deglutì, pensò in quell’istante che era quasi meglio farsi arrestare. Poi si fece accompagnare a casa. La sera era tiepida, piacevole, quasi silenziosa; ogni tanto il vibrare di un motore o di una sirena cercava di scuotere la città.

Erano quasi le undici, Marco era sul letto della propria camera, gli occhi spalancati, le mani dietro la testa. Non aveva mangiato nulla di quello che le aveva preparato Gemma: il piatto con pollo e patate si raffreddò sul comodino. Aveva lo stomaco in subbuglio, pensava e ripensava alle accuse che la telefonata anonima gli aveva inflitto.
Bussarono alla porta.
«Chi è?»
«Sono mamma… amore, entro…»
«Che vuoi?» sbuffò Marco.
«Voglio parlarti.»
La donna, senza aspettare, aprì. Aveva i capelli leggermente scompigliati ed era vestita con il solito abbigliamento casalingo: tuta grigio-rosa con un orsetto stampato sul davanti. Marco rabbrividì alla scena.
«Mamma, già so cosa mi vuoi dire… non voglio…»
«Io ti proteggerò sempre.»
La donna aveva gli occhi lucidi.
«Proteggermi da cosa?»
Marco sembrava un cane rabbioso.
«Ti ricordi quando mi addormentavo accanto a te la notte?»
«Cosa c’entra questo?»
«Io ti proteggevo… e voglio farlo anche adesso.»
«Mi so proteggere da solo…» Marco s’alzò dal letto. «Togliti dalle palle mamma!»
«Ascoltami… un minuto… prima dell’arrivo della polizia…» la donna lentamente parlò, mentre Marco la guardava con infinito odio.
«Si?»
«È arrivata una telefonata qui a casa… diceva che tu…»
Gemma prese la mano del ragazzo mentre Marco si risedeva.
«Cosa? Cosa diceva?» urlò il ragazzo.
La madre respirò e riprese a parlare.
«La voce ha detto… che avevi ammazzato la professoressa…»
«Che? Chi cazzo ti ha detto cosa?»
Marco s’alzò di nuovo: guardava Gemma dall’alto verso il basso, le faceva rabbia, avrebbe voluto ammazzarla se solo avesse avuto il coraggio.
«La voce al telefono… mi ha detto che eri innamorato di quella tizia, la professoressa… la volevi, lei ti ha respinto e…» disse la madre, singhiozzando.
«Eh? Che voce? Ancora questa voce che parla di me? Io sto impazzendo… chi cazzo è che fa questo!?»
«Ora che lei non c’è più è meglio… hai fatto bene, amore mio… io ti proteggo… tranquillo.»
«Ma cosa dici? Ma io… io non ho fatto niente…»
Marco tremava: rabbia, stupore, dolore, un mix di emozioni si aggrappavano come un uncino al suo stomaco. Voleva andare via, uscire, dimenticare questa faccenda, mandare tutti a quel paese.
«Marco, io ti proteggerò.»
La donna guardava il figlio con amore. Un mezzo sorriso comparve sul suo volto.
«Ma proteggermi da cosa? Di chi è questa voce che mi perseguita? Io non ho fatto niente!»
Il ragazzo urlava.
«Marco, hai fatto bene» ripeteva la donna strattonata dal figlio.
Il ragazzo l’accompagnò all’uscio, chiudendole la porta sul viso.
Marco non si dava pace, si portò le mani al volto. Imprecò, le mani raggiunsero i capelli e li tirò dal nervosismo fin quasi a strapparli. Iniziò a schiaffeggiarsi: era in preda a una crisi isterica. Respirò profondamente, prese dal cassetto del comodino un pacchetto di sigarette già aperto; dentro c’erano delle canne già preparate. Ne accese una, la fumò, e poi un’altra ancora.
«Io non ho fatto niente…» ripeteva mentre si distese sul letto.
Respirò. L’orologio segnava l’una meno cinque. Marco si addormentò come un bambino.

Sette e mezzo del mattino: la sveglia suonò come una bomba che scoppia all’improvviso. Marco si alzò in un secondo. La testa gli girava come una trottola, respirò, si spogliò e andò in bagno per farsi una doccia. Solo in quel momento capì che quello di ieri non era stato un incubo; l’acqua calda iniziò a bagnargli la testa, poi il corpo. Restò due minuti sotto il getto d’acqua, con le mani poggiate al muro.
“Io non ho fatto niente…” ripeteva con ossessione nella sua testa.
Si vestì rapidamente, andò in cucina; il padre non c’era, nella stanza solo Gemma, intenta come al solito a preparare il pranzo. Vedendola, un conato di vomito lo sorprese.
«Buongiorno, amore» fece la mamma. «Dormito bene? Ti faccio il caffè? Vuoi che ti prepari qualcosa di buono?»
Marco non rispose. La donna era sorridente.
«Mamma, che ha detto di preciso quella voce ieri?»
Lei si asciugò le mani con un panno. Si avvicinò lentamente a Marco.
«Tranquillo, Marco… io ti proteggerò… tu sei il mio cucciolo… hai fatto bene…»
«Io non ho fatto niente… ma vuoi capire che io non ho fatto un cazzo?»
Marco urlò, prese lo zaino e fuggì via. L’istituto distava a un chilometro da casa sua e in un attimo vi fu davanti. Una marea di ragazzi, tutti con delle candele in mano, era in silenzio in segno di rispetto per ricordare la professoressa scomparsa. Marco si fermò quasi fosse intimorito, iniziò a tremare, si mise come suo solito in disparte: abbassò la testa e pianse.
«Amico mio… fatti abbracciare.»
Piero, il compagno di scuola, gli piombò alle spalle, lo abbracciò forte e lo baciò sulle guance.
«Ieri sono passato a casa tua… Gemma mi ha detto che dormivi…»
«Mancavi solo te, ieri…» borbottò Marco.
«Come?»
«No, nulla…»
«Era bella, vero? Mancherà…» fece Piero.
I capelli biondi del ragazzo lo facevano assomigliare molto all’attore americano Owen Wilson. Aveva una faccia da schiaffi.
Marco non rispose.
«Tieni, fuma che ti fa bene… lo so che sei sconvolto… lo siamo tutti…»
«Non mi va, grazie.»
Piero fece spallucce e finì la canna restando accanto a Marco, con la mano poggiata sulla sua spalla. Osservavano uno striscione dove giganteggiava una frase strappalacrime per l’occasione. Marco odiava queste messinscena.
«Buongiorno, Gorini…»
Una voce rauca interruppe i pensieri del giovane. Landolfi teneva le mani in tasca, la solita sigaretta spenta in bocca e gli occhiali da sole poggiati sulla testa. La giornata era afosa, il cielo bigio, una cappa umida avvolgeva la città.
«Salve…» rispose Marco sorpreso, mentre Piero si allontanò avvicinandosi a un gruppo di ragazzi.
«Dobbiamo parlare, Gorini… mi segua…»
«Io ho scuola, oggi» fece Marco.
«Non si preoccupi, oggi non ci saranno le lezioni, come ben può vedere.»
«Cosa dobbiamo dirci, commissario? Le ho detto tutto ieri…»
«Mi segua, senza storie.»
Landolfi si voltò di scatto, Marco lo seguì. Iniziò a piovigginare.
«Andiamo in questura… lì chiacchiereremo meglio.»
«Io non ho nulla da dire…»
Landolfi si bloccò e si voltò con aria incazzata. La sigaretta che aveva tra le labbra faceva da cornice al viso paonazzo. Prese l’accendino e l’attizzò.
«Devo metterti le manette…? Mi segua… subito.»
Marco s’irrigidì.
«Ok, va bene» rispose il ragazzo.
L’ufficio del commissario aveva sempre lo stesso odore del giorno prima. Landolfi prese posto alla scrivania e fissò per una decina di secondi Marco senza dire neanche una parola. Il ragazzo era sudato, immobile, non riusciva nemmeno a sedersi.
«Si accomodi…»
Marco obbedì.
Landolfi porse al ragazzo delle lettere.
«Cosa sono queste?» domandò incuriosito il giovane.
Marco le osservò attentamente. Erano lettere indirizzate alla professoressa, dove c’era scritto di tutto. Frasi d’amore, minacce di morte, cuori, falli e labbra disegnati.
«Non sono mie…»
«Marco, è lei ad averle scritte, si è anche firmato, guardi…»
«Mi vogliono incastrare. Mi creda, commissario… io…» Il ragazzo iniziò a tremare.
«Chi la vorrebbe incastrare, mi scusi?»
Pausa di cinque secondi. Landolfi si accese l’ennesima sigaretta.
«Perché ha ammazzato la professoressa?»
«Io… lei crede che io… non sono mie queste lettere… io non ho ucciso nessuno… mi creda.»
Marco iniziò a piangere come un bambino.
«Non pianga.»
Il ragazzo cercò di calmarsi.
«Senta, Gorini, gli indizi portano a lei… queste lettere sono state trovate nella borsa della professoressa… portano il suo nome… c’è la telefonata anonima, e quella è un’altra cosa molto rilevante… lei è stato l’ultimo ad abbandonare l’istituto, notizia confermata anche dalla bidella… si chiama, aspetti che non ricordo… ah, ecco: Filomena Sossio… per favore, collabori, confessi e facciamola finita.»
Marco restò in silenzio. Lo sguardo perso nel vuoto.
«Gorini, per Dio… mi dice come sono andate realmente le cose?»
Marco non parlava.
«Ah, ho capito a che gioco sta giocando… vuole un avvocato?»
Marco ancora non parlava.
Landolfi sospirò. Altra sigaretta, le mascelle sembravano martelli pneumatici.
«Lei è in arresto, Gorini. Pelvi, Tosi…!» urlò il commissario.
La porta dell’ufficio s’aprì: i poliziotti, il basso e l’alto, entrarono ed eseguirono gli ordini. Marco Gorini fu portato nel vicino carcere della città. Non parlava, lo sguardo fisso nel vuoto, gli occhi spenti.

La cella dove doveva “alloggiare” Gorini era pulita, lucidata di tutto punto. Marco arrivò portato sottobraccio da due secondini: avevano la faccia cattiva e annoiata.
«Detenuto numero cinque sei sette, questa è la tua cella…» fece uno di loro, sghignazzando.
Marco era come se fosse divenuto muto, non rispondeva a nessuna domanda. Entrò lentamente guardandosi attorno, con le mani occupate dalla propria biancheria, mentre le guardie chiusero la cella con quattro mandate. Un odore di caffè e di candeggina lo accolse insieme a una voce profonda.
«Ehi… tu dormi sopra!»
Marco si voltò di scatto e vide un uomo minuto, circa cinquant’anni, inginocchiato sul pavimento che dava lo straccio tipo Cenerentola. Era buffo, occhiali da vista spessi, capelli brizzolati, e una camicia color caffellatte aperta sul petto, da dove fuoriusciva una copiosa peluria bianca e nera. Anche lui voleva fare il duro, ma negli occhi si leggeva lontano un miglio che non avrebbe fatto male ad anima viva.
Il ragazzo annuì, l’uomo s’alzò a fatica, lamentandosi del dolore alla schiena. Si avvicinò pian piano a Marco, scrutandolo.
«Vuoi un caffè?» domandò mentre prendeva una Bialetti dal fornellino elettrico e si versava il contenuto in una tazzina.
Gorini fece di no con la testa, subito dopo salì sul proprio letto. Si voltò da una parte con le mani sotto la guancia. Erano quasi le due di notte e nel carcere calò il silenzio.

A casa Gorini la situazione era diventata surreale e più squallida che mai: Paolo se ne stava tutto il giorno davanti al televisore, guardando “osceni” programmi televisivi pomeridiani e sorseggiando birra calda di sottomarca. S’era messo in aspettativa perché di lavorare non aveva voglia. Gemma passava le giornate a rassettare casa, alternava sorrisi a lunghi pianti, passava ore e ore al cellulare. Rimproverava il marito di non fare nulla, di essere come al solito assente alla vita familiare. Passarono le settimane e ci fu il primo colloquio in carcere.

Mamma Gorini aspettava scalpitante in quella stanza destinata alle visite, sorvegliata a vista da una guardia che camminava avanti e dietro e la fissava mettendola parecchio in soggezione. Gemma aveva lo sguardo rivolto all’unica porta che dava alle celle, la quale dopo poco s’aprì. La donna s’alzò di scatto: di fronte a lei Marco, pallido, secco più del solito, il viso segnato da numerose rughe. Si vedeva lontano un miglio che non dormiva da giorni. Aveva diciannove anni ma ne dimostrava settanta. La guardia lo fece sedere di fronte alla madre.
«Ciao, amore!» esordì Gemma. Aveva gli occhi lucidi.
Marco non parlava, salutò con un cenno degli occhi.
«Come stai? Mi manchi…»
Il ragazzo la guardava.
«Ti abbiamo nominato un avvocato… è bravo, giovane, è il cugino di Rosa, nostra cugina. Ti ricordi Rosa?» lei sparò fuori tutto come una macchinetta.
Marco sospirò.
«Ma non mi dici nulla? Non parli, amore?»
Marco la guardò fisso negli occhi. Appoggiò i gomiti al tavolo e si portò le mani al mento. Il suo volto iniziò a diventare paonazzo e si vedeva che stava scoppiando.
«Io non ho ammazzato nessuno… io sono innocente… voglio uscire di qui…!» urlò.
La guardia minacciò d’interrompere il colloquio se gli animi non si fossero calmati.
«Amore, ascoltami bene! Devi stare tranquillo, io come al solito sarò al tuo fianco e ti proteggerò! Questa tortura – per noi, per me – finirà molto presto… e poi, è per colpa di quella sguattera che sei arrivato a questo! Ti ha stregato, quella donna, con le sue curve, la sua bellezza… era il demonio per te, figlio mio… il demonio in carne e ossa…»
Marco era incredulo, non riusciva a capire nulla.
«Dai… ora cerchiamo di farti avere almeno i domiciliari, così vieni a casa da me!»
Gemma sorrideva. Aveva un viso angelico, rilassato, pacifico.
«Ti ricordi quella volta al mare quando avevi otto anni?»
Marco scosse le spalle e si appoggiò allo schienale.
«Quella volta che piangevi perché tuo cugino ti aveva fatto del male… venisti da me e io ti abbracciai forte, ti tenni stretta a me tutto il pomeriggio.»
«Non mi ricordo» disse Marco, sbadigliando.
Pausa. Dieci secondi di silenzio. Silenzio interminabile, assurdo, nevrotico.
«Va bene, comunque ti riporterò da me, amore mio…»
«Mamma…» sospirò Marco.
«Dimmi, piccolo mio…»
Il giovane scosse la testa, senza dire nulla s’alzò e fece cenno alla guardia di aver finito. Gemma vide sparire suo figlio dietro una porta bianca. Scosse la testa anche lei, si sistemò la capigliatura fatta per l’occasione e abbandonò la sala colloqui.

«Che ti ha detto Marco?» fece Paolo, appena la donna salì sulla vettura.
L’uomo aveva preferito non esserci: era rimasto in auto ad ascoltare la musica.
Silenzio. La donna si guardò nelle specchietto e si controllò il trucco.
«Come sta?» incalzò il marito.
«Come vuoi che stia, Paolo? Giù, giù di morale…»
Papà Gorini sospirò, mise in moto la macchina e ripartì sgommando.

Marco intanto era rientrato in cella. Quel giorno era solo, il suo compagno di stanza era uscito per lavorare nella lavanderia del carcere. Camminava nervosamente per tutta la stanza, su e giù, indemoniato, sbuffava e imprecava. Pensava alla professoressa, “io non c’entro”, ripeteva dentro di sé, “io non c’entro un cazzo con questa storia”. La testa gli scoppiava, le unghie delle dita ormai erano sparite a forza di rosicchiarle, la barba folta e gli occhi spiritati. Voleva giustizia, Marco: sembrava fosse piombato in un incubo senza fine.

Il commissario Landolfi intanto proseguiva le sue indagini. Il colpevole era stato assicurato alla giustizia e i complimenti fioccavano da ogni testata giornalistica e televisiva. Il caso era chiuso.
Rintanato nel suo ufficio, sigaretta consumata nelle dita della mano sinistra e tramezzino al tonno in quella destra, dava una boccata, un morso al panino e poi un’altra boccata. Il telefono all’improvviso squillò.
«Pronto…» rispose, affannato.
«Commissario Landolfi, Marco Gorini è una vittima dell’ingiustizia italiana, l’ennesima vittima! Non avete capito niente, niente di niente!»
Dall’altro capo del telefono una voce maschile. Riattaccò appena finita la frase.
Landolfi restò immobile con lo sguardo perso nel vuoto e il boccone ancora da finire. Ingoiò il tutto, s’accese un’altra sigaretta e bevve un sorso d’acqua gassata.
“I soliti stronzi mitomani” pensò.
Il caso era chiuso. Punto.

Marco non scendeva da quel letto ormai da giorni. Stava rannicchiato sempre nella solita posizione: anche le lacrime s’erano stancate d’uscire.
«Devi mangiare qualcosa, sennò muori…»
Silenzio.
«C’è della pastasciutta al pomodoro, qui… almeno una forchettata dalla…!»
Silenzio.
«Va be’… fai come ti pare!»
Sergio Capuozzo mangiava seduto sul proprio letto, con il piatto di alluminio tra le mani, prendeva con la forchetta tre, quattro maccheroni e se l’infilava tutti in bocca. Con le labbra sporche di sugo beveva acqua naturale da una bottiglia di plastica ormai logora.
«Perché sei dentro?»
Marco parlò.
«Allora parli… allora hai una voce… finalmente…»
Il giovane riuscì a sorridere dopo settimane di pianti.
«Truffa… ho truffato tanta povera gente… soldi, tanti soldi…»
Sergio smise di mangiare, si pulì la bocca con un tovagliolino di carta e s’accese una sigaretta.
«Il mio socio se l’è svignata all’estero e io sconto la pena anche per lui… bell’inculata, eh?»
Marco scese dal letto.
«Io mi trovo qui perché non ho fatto niente. Mi hanno incolpato di omicidio… ti rendi conto? Un omicidio che non ho commesso…»
«Conosco bene la tua storia… non so che pensare, sinceramente…»
«Visto? Anche tu non mi credi… anche tu hai dei dubbi…»
«Io non penso nulla… dai, mangia qualcosa, così ti riprendi.»
Marco fece no con la testa, quindi si sedette su una sedia abbandonata nell’angolo della stanza. Aveva perso una decina di chili in un mese.
«Io sono innocente, innocente, innocente…»
Il pianto lo cullò di nuovo.

Landolfi era accomodato dietro la scrivania del proprio ufficio; girava e rigirava tra le dita una sigaretta, guardandola in modo ossessivo. Pensava. Rifletteva su quella telefonata anonima, l’ultima ricevuta. Era buio, l’orologio segnava le dieci in punto e la questura, a quell’ora della sera, era semivuota e silenziosa. Per il commissario la faccenda s’era chiusa troppo in fretta. S’affrettò a chiamare il giudice che si occupava del caso.
«Pronto?»
«Dottore, sono Landolfi…»
«Buonasera, mi dica pure, commissario.»
«Volevo dirle che… non so… secondo me abbiamo chiuso il caso troppo in fretta… il tutto non mi convince. Il Gorini per me non nasconde nulla, dice la verità. Lui non c’entra niente con l’omicidio.»
«Mmm… ok commissario… vediamo un po’… cosa le ha fatto cambiare idea? Eppure era convinto della colpevolezza del Gorini.»
«Ha ragione… ho avuto come un flash… un’intuizione… chiamiamolo sesto senso. L’ultimo interrogatorio che ho avuto con il ragazzo… be’… aveva negli occhi disegnata la sincerità… ecco.»
«Ok, dottor Landolfi, mi voglio fidare di lei… s’è già fatto un’idea sul colpevole?»
«Una piccola, sì… mi serve altro tempo, però.»
«Non ne abbiamo molto…»
«Farò del mio meglio.»
«Faccia una cosa… interroghi tutta la classe del Gorini… si faccia due chiacchiere con i ragazzi… e mi tenga aggiornato.»
«Perfetto… le farò sapere.»
Clic. Landolfi riattaccò, si toccò la barba ispida di due giorni e s’accese la sigaretta spenta che prima stringeva tra le dita. Il fumo entrò nei polmoni come un cucchiaino in una coppa di gelato. Il commissario sospirò. Un ricordo lo colpì all’istante.
Landolfi s’accese un’altra bionda, si strofinò gli occhi e s’alzò dalla sedia con la voglia di mandare avanti il tempo. Uscì dalla questura che era quasi mezzanotte. Non vedeva l’ora che arrivasse domani.

«Mi hanno chiamato dalla questura… che cazzo vogliono da me?»
«Tranquillo… tranquillo…»
«Tranquillo un cazzo… io… io… ho paura…»
«Devi stare tranquillo… te vai lì e con calma dici al commissario che quel giorno sei andato a casa… punto…»
«Ok…»
«Tranquillo che tutto andrà come deve andare… aggiornami. Ciao.»

Piero Rogi era nervoso. Aveva l’alito che puzzava di fumo di sigaretta e muoveva nervosamente la gamba destra. Era seduto sulla sedia di fronte al commissario Landolfi, che lo scrutava con attenzione.
«Lei è il compagno di banco di Marco Gorini… giusto?»
«Sì.»
«Che tipo è Marco?»
«Mah… un tipo normale» Piero sorrideva sottecchi.
«In che senso “normale”… normale vuol dir tutto e nulla…»
«Normale come può essere un adolescente… oddio, ogni tanto mi faceva strane domande…»
«Tipo?»
«Mi chiedeva spesso cosa si prova ad ammazzare una persona…»
«Ah sì?»
«E io gli rispondevo di non sapere nulla al riguardo.»
«Quindi pensa che sia stato lui ad ammazzare la professoressa Anselmi…»
Silenzio. Piero sospirò.
«Tu dov’eri quando è successo l’omicidio?»
«Alla fermata del bus.»
«Qualcuno può confermare?»
«Il Lotti, altro compagno di classe.»
«Il Lotti? L’ho interrogato giustappunto prima di pranzo e mi ha detto che era assente quel giorno! Infatti era malato… mi ha portato il certificato…»
Il commissario guardò fisso Piero Rogi che divenne impacciato e paonazzo.
«No, scusi, ho sbagliato… non il Lotti… il Dini, sì, il Dini era con me…»
«Forse si sbaglia di nuovo… il Dini mi ha confermato che era venuto a scuola in motorino… strano venire in motorino e ritornare a casa in autobus… non le pare?»
Landolfi controllò le scartoffie che aveva davanti a sé poggiate sulla scrivania.
«La vedo confuso, signor Rogi.»
Piero era agitato, si grattava la fronte e gli sudavano le mani.
«Desidera un avvocato?» chiese il commissario.
«Avvocato? E perché? No… no…»
«Perché lei mi sta dicendo un sacco di bugie…»
«Io? E perché dovrei mentirle?»
«A che ora ha preso il bus?»
«Non ricordo… l’una? Eh, no… volevo dire le due!»
«All’una era in classe… lei è un po’ confuso… ha ragione… lei è fidanzato?»
«Io?»
Landolfi annuì.
«No… non lo sono…»
«Le piacciono le ragazze?»
Silenzio.
«Posso andare in bagno?» fece Piero con la voce tremante.
Landolfi annuì. Il ragazzo s’alzò.
«Usi questo del mio ufficio, è meglio, sennò le tocca attraversare tutto il corridoio.»
Pierò si chiuse in bagno e ne uscì dopo un paio di minuti, pallido e scosso.
«Già fatto? La vedo strano…» chiese il commissario.
«Tutto ok…»
Il ragazzo era sudato.
«Posso vedere il suo cellulare?»
«Perché, mi scusi?»
«Curiosità… pura e semplice curiosità…»
Piero deglutì con amarezza. Estrasse dalla tasca un palmare di nuova generazione e lo porse al commissario.
«Ma guarda il caso… uguale al mio… che coincidenza… questi aggeggi funzionano alla grande…»
Piero aveva paura. Il commissario scrutò attentamente il telefono, entrò nella galleria delle foto. Sorrise.
«Mi toglie una curiosità, signor Rogi?»
Piero annuì.
«Le piace Marco Gorini?»
«Come scusi?»
«Le piace come ragazzo…?»
«No… a me…»
«Guardi che non c’è nulla di male a essere gay.»
Piero arrossì e non disse nulla.
«Noto che sul cellulare ha tante foto del suo amico Gorini… alcune anche riprese di nascosto… qui è sotto la doccia… guardi…»
Silenzio. Piero non riuscì a guardare il suo cellulare.
«Come ha fatto a riprenderlo sotto la doccia, mi scusi?»
«Avrò sbagliato…»
«Ha sbagliato parecchie volte, vedo… uno, due, quattro, sei, dieci scatti…»
Landolfi sospirò poggiando il telefono alla scrivania.
«Che mi deve dire, signor Rogi?»
Silenzio.
Landolfi si alzò, si portò alla piccola finestra che dava sulla città. Il sole ormai iniziava a salutare il giorno per far spazio alla sera. Tante automobili, persone, motorini sembravano delle schegge frenetiche e impazzite, furiose di tornare a casa.
«Mi dice la verità, signor Rogi?»
Silenzio. Piero abbassò la testa come un cane bastonato.
«Gliela dico io, allora… lei è innamorato del Gorini! Lo ha sempre amato. Lui la vede come un amico che frequenta casa da una vita e nulla più. Tutto a un tratto entra di scena lei, la professoressa Carla Anselmi, bellissima, attraente, stupenda. Marco le parla continuamente di lei durante il giorno, sempre. Lei è geloso: Marco deve avere solo occhi per Piero Rogi. Aspetta la fine della lezione e con una scusa banale la trascina in bagno e lì la strangola! Poi mette in scena la telefonata anonima dando la colpa al Gorini, così in carcere non può avere altri pensieri, altre donne. Vero, signor Rogi?»
Piero aveva sempre la testa bassa. Piangeva. Alzò il capo all’improvviso e incrociò lo sguardo del commissario.
«Io lo dicevo che ammazzandola non si risolveva un bel niente… si faceva solo un gran casino…»
Landolfi si avvicinò al ragazzo.
«A chi lo diceva, scusi?»
Silenzio. Piero tirò su col naso, Landolfi si accese una sigaretta, non curante, come sempre, del divieto.
«A quella pazza…»
«Chi?»
«Gemma, la mamma di Marco.»
«Cosa? E che c’entra?»
«Lei mi ha aiutato. Quel giorno aveva fissato un colloquio con la prof. Ci siamo dati appuntamento in sala professori e lì abbiamo agito. Poi abbiamo trasportato il corpo nel bagno. Io mi pento di aver fatto tutto questo!»
Silenzio. Pianto di Piero e incredulità del commissario.
«Hai capito la signora… perché ha fatto tutto questo?»
«Amava incondizionatamente il figlio… in modo morboso! Sotto effetto dell’alcol una sera mi aveva confidato che se lo voleva anche scopare! Che pazza…»
Silenzio.
«Commissario…»
«Sì…?»
«Mi porti via, per favore…»
Landolfi guardò Piero: gli faceva pena vederlo seduto lì su quella sedia, indifeso, tremante. Al commissario venne come una fitta al cuore. Fece un gesto involontario, improvviso: gli accarezzò la testa come un figlio. Il giovane sorrise.

La polizia arrivò a casa Gorini che erano le due di notte; ad aprire alle guardie fu la stessa Gemma che alla vista degli agenti sorrise e mise immediatamente i polsi a pro d’arresto. Paolo guardava la scena appoggiato al muro, con l’aria stravolta e la faccia segnata da anni di sofferenze e silenzi.
«Ciao, Paolo: mi raccomando veglia su Marco!» disse la donna prima di lasciare l’abitazione.
L’uomo annuì. La donna lasciò la casa ancora in vestaglia e pigiama.

La sveglia suonò alle nove precise di una bellissima domenica mattina. Marco si svegliò che il sole voleva entrare a forza tra le persiane chiuse di camera sua. Il ragazzo s’alzo e si stiracchiò. Si voltò a guardare la foto di classe appesa alla parete: si vedevano tutti gli alunni sorridenti verso l’obiettivo, mentre gli occhi di Piero erano puntati ossessivamente su Marco. Gorini scosse la testa e pensò alla madre, alla sua pazzia, al suo modo di agire strano, pittoresco, a volte anche buffo.
Bussarono alla porta.
«Chi è?» fece Marco.
«Sono papà… posso entrare?»
«Vieni, vieni…»
«Buongiorno, Marco… ti ho portato il caffè…»
«Grazie.»
Paolo era sorridente, solare. Aprì le persiane.
«Ti va di andare insieme al lago? È una giornata fantastica… io e te… padre e figlio.»
Marco rimase senza parole. Annuì.
«Perfetto. Preparati con calma e si va.»
«Ok…»
«Ah… dimenticavo…»
«Dimmi…»
Paolo si avvicinò a Marco. Si sedette accanto a lui sul letto.
«Alla fine ce la siamo levata dai coglioni, quella strega… ho fatto io la telefonata in questura, quella che ha scagionato te e inchiodato lei…»
Si alzò e con un sorriso cinico chiuse la porta.
Marco restò in silenzio, sospirò profondamente. Aveva lo sguardo rivolto lontano, molto lontano.

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2 commenti »

  1. Bravissimo Salvo! Un racconto con i fiocchi, ben scritto, costruito con mestiere sapiente. Una volta cominciato non lo molli più.
    Un intreccio pieno di tensione, un finale alla Hitchcock.
    Sarà un corto stupendo!! Ancora complimenti!

  2. Grazie Gianluca! Onorato…

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