Premio Racconti nella Rete 2018 “Futuri” di Raffaella Maria Barbara Direnzo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Studiavo Patologia Chirurgica. Quel giorno non ero affatto concentrata. Il computer stava facendo degli aggiornamenti … ma anche io riflettevo.
Chiusi i libri. Osservai il mappamondo sulla scrivania. Pensavo. Sognavo ad occhi aperti. Indietreggiai la sedia dal tavolo. Mi dondolai per pochi istanti. Mi alzai. Delusa. Cambiai canale. L’Italia fuori dal mondiale di calcio. Deglutii. Il cellulare vibrò. Spensi la tivvù. Guardai la mia stanza. La libreria, la valigia dietro la sedia a dondolo, l’ukulele. Avevo voglia di partire. Aprii l’armadio. Presi il cappotto ed uscii.
Sfidai la sorte dopo lo scontro con i due georgiani. Sfidai il pregiudizio congelante.
L’aria era frizzantina.
Bari, quel giorno, aveva una sfumatura giallo-verde, come immaginavo fosse la mia bile secreta. Bari underground, come il sangue rosso rosso che circolava nelle mie vene, si lasciava attraversare da etnie, culture, spezie, povertà, conquiste, pretese, livori, conflitti silenti dal sapore acre stagnante in quartieri euroasiatici.
Il quartiere murattiano. In quella parte della città è come se la gente, cupa in volto, fosse seduta a pianificar battaglie, custodendo energie e sorrisi in vista della realizzazione di qualche ambitissimo sogno. Eppure ci definivano “la generazione degli sdraiati”, senza in realtà, considerare che ad aver sepellito i nostri desideri, sotto una coltre di insuccessi, era stata la conseguenza dei danni politico, morali e sociali della generazione che ci aveva preceduto. Noi siamo figli, cresciuti ed ingabbiati in culle e nutriti di disattenzioni, disinteresse, briciole e veleno insufficiente a farci camminare autonomamente; veleno inadatto a renderci coscienti di rivoluzione. I nostri stessi padri ci hanno insuflato timori, ponendoci, inesorabilmente, senza tregua, contro ogni ritmo naturale e fisiologico, influendo negativamente e travolgendo, ogni giorno, sogni e vite di uomini, con dinamiche differenti. La borghesia padrone ed intoccabile è stata una tromba d’aria abbattutasi sull’intero stabilimento generazionale, investendo coscienze, portando negli abissi la cultura e facendo emergere il plagio intellettuale.
Nella frenesia delle immagini, delle parole, dei gesti, delle variegate percezioni che bombardano le nostre anime non è affatto facile ascoltare, ascoltarsi, focalizzare l’attenzione su ciò che frammenta i nostri respiri e ne suddivide in tante piccole parti la placidità, togliendo unità e continuità alla nostra armonia. Non è un gesto scontato quello di riflettere sulla matrice di ogni nostra più piccola iniziativa e porsi delle domande inerenti alla profondità di tali moti.
Camminavo. Riflettevo. Guardavo la gente. La nostra intimità è data per scontato. Occorre sradicare la fitta vegetazione che si sviluppa nella foresta dei propri pensieri, essere privi di giudizi e pregiudizi vincolanti e forvianti la verità, quella luce che scalda i nostri cuori costantemente, anche durante le intemperie della vita. Camminando nel buio, non sono pochi i momenti di silenzio, di sconforto, di dubbi e così tra discese e risalite, tra tenebre e luce, tra polvere e macerie, superstite, protagonista di un teatro a cielo aperto, scrutavo ogni essere. Non v’è una verità, fissa, alle tante realtà osservate. Questa parte di Bari appartiene a mille culture in contrasto, alcune provano ad accogliersi, altre fioriscono tra i banchi dell’Ateneo, altre corrodono ed invadono la mafia locale, altre incontrano le necessità occidentali tra panchine di bionde ucraine, chi ingurgita Peroni, chi vende droga e borse, chi spera ed aspira ad una vita migliore pianificando battaglie. Questa parte non appartiene ai baresi -tranne durante il bistrattato mercatino natalizio-, ma dona l’accesso all’amarissimo Adriatico ed agli anelati orizzonti italiani.
Camminavo. Osservavo. Mi guardavo le spalle. Sfidai la sorte dopo lo scontro con i due georgiani in Piazza Cesare Battisti. Mi mostrai imperterrita ma avevo paura. Avevo paura. Se non avessi affrontato quel giorno quel terrore avrei potuto non passare mai più da quella strada. Lottai per la mia libertà.
Pensavo a quell’intervista. All’epoca dei film di Pasolini, Sergio Citti, Gian Maria Volonté, all’innovazione economica indotta da Mattei, a quei pantaloni a zampa, alla Fiat ed alla classe operaia, alle denuncie sociali, alla realtà remota identificativa di unità e patriottismo surclassato e ricordato, prima del fischio d’inizio, nelle note dell’Inno di Mameli.
Camminavo ancora. Mi giravo e rigiravo. Alzai il passo. Fu strano quello che mi era successo pochi giorni prima. Avevo paura. Avvenne tutto così rapidamente, tanto da necessitare la lenta analisi, minuto dopo minuto, in Tribunale, per ricostruire l’evento. Ore 14: 10 circa. Mi incamminai verso casa. Stanca dopo tre giorni in ospedale. Carica di valigie. Ex palazzo delle poste. Via Nicolai. Due ragazzi a pochi passi da me. Nessun altro in giro. Mi guardarono. Si dissero qualcosa. Si distanziarono. Fui costretta a passare tra di loro. Il muro da un lato. I bidoni della spazzatura dall’altro. Segnai il passo. Uno, il più grande, sulla sinistra, con la bici, mi strinse ulteriormente il marciapiede. L’altro si avvicinò a me. Mi circondarono. Bloccata per pochissimi istanti. Gridai –gridai!-“Permesso” e diedi una “spallata” a quello sua mia destra. A sinistra il ragazzetto interpose il manico della bici. Ci fu un leggero contatto. Pochi istanti. Poi riuscii ad uscire dal cerchio. Volevo tornare a casa. Le valigie pesavano ma non volevo fermarmi. Camminavo. I miei attendevano di sapermi a casa. Avrei voluto chiamare in quell’istante ma era mia intenzione tornare immediatamente nella mia stanza.
Avvenne tutto molto rapidamente.
Dopo poco denunciai il furto del mio telefono. Abilissimi. Un istante. Mi derubarono solamente, ma lì, dietro quei bidoni, su quegli scalini, immaginai cosa stava per succedermi. Contattai i miei punti di riferimento. Restai incredula per qualche ora. Ci pensai parecchio. Mi si chiuse lo stomaco. Un mio amico mi costrinse a mangiare mentre mi raccontava dell’assemblea studentesca e dei tagli per gli stipendi dei ricercatori.
Tranquillizzai i miei mentre riflettevo su ciò che era stato e che poteva essere, sulle molte vicende che accadono in quella parte di Bari che non appartiene più ai baresi.
Ho sfidato la sorte dopo lo scontro con i due georgiani.
Camminavo. Ero triste da quel giorno. Rifletto ancora su quel servizio in tivù. Le affermazioni. L’autoaffermazione. Il lavoro in una società satura di dinosauri. Figli. Schiavi. La verità vera, quella sputata, quella inventata. Libertà di indifferenza. Libertà di qualità. Parole che imbruttivano me, noi, voi, l’operato inoperato. Programmi universitari da fronteggiare su banchi di paglia con il fuoco negli occhi.
Ma che ne sanno in tivù dei sogni piantati in una nicchia del cuore? Che ne sanno dei piccoli passi tra spine e sassi? Che ne sanno delle briciole nelle nostre tasche? Che ne sanno delle note nelle nostre personalissime notti?
Penso.
Sospiro.
Il mero documentario è girato tra cellule e pulsioni di bestie dall’appetito irascibile e concupiscibile, che, a loro modo, tentano di sopperire alla fame.
Evito di concedermi a torbidi pensieri.
Avrei potuto incrociare un mio connazionale sul mio cammino. E venirne fuori comunque come parte lesa. E senza che la rabbia potesse uscirne modificata. Una volta un mio amico mi ha mostrato come la delinquenza, la stupidità, l’avidità e la violenza non abbiano colore nè nazione. Come, tuttavia, la speranza e la solidarietà.
Io … fatico a pensare ci sia gente senza cuore. Gli avrei anche regalato il cellulare. Capisco la povertà. Comprendo le esigenze. Ma non si può invadare la vita di una persona.
Persi bozze di canzoni, sette capitoli di”Funny Rose” scritti nella sala d’attesa dell’ospedale, tre poesie – una su mio padre in quel nosocomio, l’altra su lui, un notturno, idee per altri scritti, appunti di Medicina. Quella notte non riuscii ad addormentarmi. Mi veniva da piangere. Mi interrogavo sul mio futuro. Il lavoro sottopagato ed il precariato. Le sfide personali . Noi tanti studenti parcheggiati nelle Università, in balia di un processo di adattamento acquisito con sforzo, insuccessi, noia e tanta sofferenza.
Bari è futuro che germoglia nel cemento. Bari è cambiamento senza possibilità di relativizzare le battaglie per l’autoaffermazione. Bari è me anarchica squattrinata e le gestanti che rispolverano tradizioni per matrimoni costosi e furbeschi. Bari è prospettiva di libertà in una terra in cui gli unici sdraiati sono i clochard, i veri combattenti di sogni, passioni e libertà. Bari è l’orma della cinta di pelle del suo babbo sulla sua pelle. Bari è lo schiaffo prima del pianto. Bari è il sol levante. Bari è un porto accogliente in cui l’adozione migliore è di quel boccone salvifico che si espande tra ossigeno e polmoni.
Eppure io sto resistendo ad un’avvilente tempesta. Sbattuta da una parte all’altra come se niente volesse accennarmi una tregua.
Nervi. Forza. Io non ho la forza di un uomo. Ho gridato “PERMESSO” e mi sono salvata.
Ho un macigno tra cardias e polmoni e non riesco a sorridere.
Ci sono momenti in cui una donna desidererebbe avere la forza di un uomo.
Io sono indipendente, amante della solitudine e mi limito a mandare SOS ai miei amici solo se mi rompo un osso. Ma capita anche a me che ci siano momenti in cui vorrei Jeeg Robot al mio fianco… quando cado, quando ho paura, quando non mi basta essere donna.
Camminavo. Cercavo speranzosa un gesto fraterno, un segno di apertura, un sorriso, uno sguardo benevolo.
Una domanda si fece sempre più vivida nel mio cuore – Chi siamo? -.
Siamo liberi di agire. Non considero la non accoglienza. L’Italia è una terra che accoglie. Bari è un porto. (Con)viviamo. Limata, coscienziosamente, la connotazione di un gruppo autoctono bianco rosso, vi è, però, la difficoltà di impegnarsi a trovare una modalità che ci trasformi autenticamente in comunità.
Cosa insegnerò un giorno a mio figlio? A fare attenzione alla diversità, a far attenzione ad avvicinarsi alle persone? A guardarsi le spalle e che la libertà è solo utopia dei cuori più sensibili ed onesti?
Un giorno a mio figlio dovrò insegnare anche questo.
Camminavo. Non riuscivo a sorridere. Sfidai la sorte dopo lo scontro con i due georgiani. Tornai nella zona che profuma di kebab e di cibo indiano, per fare il passaggio al mio vecchio numero.
Avevo paura. E per me che sono amante della libertà era frustrante. Mi feci coraggio e passai, di sera, proprio dallo stesso posto.
Non devo allungare il mio itinerario o cambiare strada per l’orrore. Non devo cambiare il mio percorso per la paura, per il pregiudizio, per i giudizi, per la delusione di sentirmi ancora figlia irrealizzata. Spesso si muore prima di iniziare a vivere. Dimentichiamo il coraggio. Siamo indifferenti alle nostre stesse sconfitte. Un sogno è maledettamente tentato dal suicidio. Un sogno è un sogno e va rispettato. La vita non è facile per nessuno. Quello che cambia radicalmente le prospettive è smettere di riproporre lo schema con cui ci etichettano e che ci chiude nei limiti altrui. La nostra stessa rivoluzione è l’unica possibilità.
Il mio cuore lotta per rimanere incontaminato in una società ormai concettualizzata, ed i miei polmoni prendono aria da cieli neri, dove circolano verità contaminate, anime sfocate rivestite da cellule, tessuti, organi sintetici, macchine d’avanguardia e numerose assordanti ambulanze imboccanti, corsie preferenziali dirette verso un cimitero di sogni.
Camminavo. Cercavo speranzosa un gesto fraterno, un segno, un sorriso, una parola …
Entrai a comprare la cover in un negozio. La commessa, una cinese, mi indicò uno scaffale. Ne provai alcuni. Non andavano. Passarono alcuni minuti. Due indiani mi dissero che non c’era il modello che cercavo. Continuai a vederne altri. Parigi. La Torre Eiffel, il Théâtre des Champs Elysées. Mi ricordai di un tema scritto da bambina: “Cosa sogni di diventare da grande?”. M’immaginai e scrissi, ad otto anni, di me: un Medico. Vivevo a Parigi con il mio cane ed il mio compagno … ed al mattino andavo a lavoro con il sidecar … ed il mio pelosissimo terrier tibetano. Parigi. I teatri di prosa. Il mio sogno da bambina. Il telefono entrava. Mi piaceva ma i fori dei tasti della cover non corrispondevano a quelli del mio nuovo cellulare.
Uno dei due indiani, si riavvicinò.
– Prendilo se ti piace.
Osservai ancora il cellulare.
– Ti aiuto io a tagliare la plastica. Mia figlia ne ha uno uguale. Lei fa danza classica. Sogna di diventare étoile.
Poi continua:
-Lei crede molto nel suo sogno.
Alzai lo sguardo.
Mi stava sorridendo.
Gli passai il cellulare e la cover. Mi allungò la mano. Gli sorrisi. Mi sorrise.
Mi sorrise e tornò la speranza.