Premio Racconti nella Rete 2018 “Il ricettario” di Francesca Bonelli Morescalchi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018
Sa, signor giudice.
La mia gamba sinistra è più corta della destra di un centimetro. In quel centimetro c’è dentro un mondo. L’imperfezione. L’incapacità di mia madre di crearmi senza pecche. Una mancanza di Dio.
Si pensa sempre a me non succederà mai. E invece succede.
Quel centimetro, a me, mi ha fottuto.
Ci amavamo, Sandra e io.
L’iter è stato quello naturale. Ci siamo conosciuti, rivisti. Abbiamo iniziato a uscire. Il primo bacio, le farfalle nello stomaco, la prima scopata e quelle successive.
La convivenza, il matrimonio.
Figli non ne sono arrivati e Sandra si è incupita.
Ha smesso di cucinare, lei bravissima nel prepararmi delle delizie senza pari. Allora, per forza, mi ci sono messo io. Ho imparato dai rudimenti.
Rosolare aglio e cipolla fino al colore giusto. Mettere a friggere al grado di calore perfetto dell’olio. La quantità precisa di sale nell’acqua per la pasta.
Dopo sono arrivati gli arrosti, le torte salate, i ravioli con i ripieni più disparati. I sughi. Le torte. Perfino i liquori, ho imparato a fare. Il limoncello, il liquore al basilico, il nocino.
Ho comprato un bel quaderno, un giorno, e ci ho scritto il mio ricettario. A mano e in bella.
Sandra sempre più rinsecchita, fuori e dentro. Asciutta, senza più umori.
L’ho portata da un medico. Le ha dato una cura. Ha iniziato a stare a letto. Notte e giorno e giorno dopo giorno.
Un pomeriggio stavo affettando le verdure, per farle al forno.
Sandra si è alzata. Mi è venuta accanto e mi ha guardato.
«Ammazzami» mi ha detto.
Ho piantato il mio sguardo dentro al suo. Nei suoi occhi spalancati e celesti ci ho visto un teschio.
«Ammazzami» ha ripetuto, senza paura.
Senza più emozioni. Senza più ritorno.
Allora ho preso la spugnetta, l’ho sciacquata e l’ho strizzata. Ci ho pulito il coltello dai resti delle carote, del sedano. Del pomodoro, della melanzana, della cipolla, della zucca, dei funghi.
Era pronto. Mi ci sono specchiato. E ho visto i miei, di occhi. E dentro ai miei occhi stava un teschio uguale al suo.
Ho alzato il braccio e ho affondato il coltello nel suo collo. Una, due, tre volte.
Il sangue è schizzato brillante, a zampilli. Una salsa di pomodoro venuta un po’ liquida.
E si è formata una chiazza, sul tavolo e sul pavimento. Marmellata di more rovesciata ancora bollente dal pentolone.
E i miei piedi hanno pesticciato quel lago che si allargava e si allargava e ci lasciavo le impronte. Gli stampini per fare i biscotti.
Dalle impronte quelli della scientifica hanno visto che l’assassino aveva una gamba più corta dell’altra.
«Sei fottuto» mi ha detto uno, probabilmente il capo.
L’ho guardato in attesa di qualcosa, come quando guardo se il sufflé gonfia nel forno. Ma senza stupore, perché a me, il sufflé, esce sempre benissimo.
Quei cretini. Quali conferme volevano? Gliel’ho detto subito, che ero stato io. Se perdi tempo, la roba rischia di bruciarsi, di attaccarsi alla pentola. Il sapore si altera.
Mi hanno portato via e ora sono qua, in questo processo.
Ma, signor giudice, ho una richiesta.
Voglio finire di preparare le verdure al forno.
Molto bello! Prosa paratattica efficacissima in questo contesto. Complimenti.
Potrebbe essere la trama di un film di Marco Ferreri…
Complimenti Francesca.
Grazie 🙂