Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2018 “Una notte olandese” (ispirato ad una storia vera) di Giovanni Magistrelli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Luca parcheggiò la sua Ford Mondeo nera lungo Gevers Deynootweg, a Scheveningen, appena fuori della capitale olandese L’Aia, di fronte all’Ibis Hotel.

Mancava un quarto d’ora alle diciotto e l’oscurità era già scesa sulla cittadina e sulla spiaggia, a poche decine di metri dall’albergo.

Luca scese dall’auto, che aveva noleggiato la mattina all’aeroporto di Zaventem, dopo essere arrivato in volo da Milano a Bruxelles, e si sfregò gli occhi castani, stanchi per le molte ore di guida attraverso Belgio e Paesi Bassi.

Rabbrividì per il freddo vento invernale, che arrivava dal Mare del Nord, e si allacciò il cappotto blu, sistemandosi il bavero per proteggersi la gola.

Dal bagagliaio posteriore della Ford prese il trolley e la piccola borsa a tracolla con il laptop ed entrò nell’albergo.

Una volta dentro l’atrio, il tepore del riscaldamento lo accolse con piacere.

Si avvicinò all’uomo alla ricezione, un individuo alto e magro, con i capelli biondi lisci pettinati all’indietro e occhi azzurro cielo.

L’uomo, che aveva appuntata sulla giacca dell’Ibis una targhetta con il nome “Wessel”, lo squadrò senza sorridere e si rivolse a Luca in inglese.

« Posso aiutarla, signore? »

Luca mise per terra trolley e borsa, si tolse il ciuffo ribelle di capelli castani dalla fronte e sbottonò il cappotto, prendendo dalla tasca interna della giacca blu il portafoglio.

Estrasse la carta di credito e la mise sul banco, di fronte a Wessel.

« Ho una prenotazione per una notte a nome Crespi. » disse Luca, mostrando un sorriso di circostanza.

L’altro rivolse l’attenzione alla Visa e digitò alcuni tasti sul computer di fianco.

Poi, dopo aver controllato sullo schermo, rivolse lo sguardo asciutto verso Luca, porgendogli al contempo una chiave elettronica e la carta di credito.

« Benvenuto, signor Crespi. La sua camera è la 404, al quarto piano, con vista sul mare. La colazione è domani mattina, dalle sei e trenta alle dieci. »

Luca mise in tasca la chiave e nel portafoglio la Visa.

« A che ora apre il ristorante per la cena? »

A Luca parve di cogliere una nota divertita nella risposta di Wessel.

« Probabilmente non ha controllato bene quando fatto la prenotazione, signore, ma in questo hotel non c’è il servizio ristorante. Se vuole, abbiamo disponibili degli snack caldi e freddi, ventiquattro ore su ventiquattro. Oppure ci sono diversi ristoranti qui intorno, anche se, essendo fine gennaio, molti meno aperti che nella stagione estiva. »

Luca tirò una maledizione dentro di sé, mentre con il pensiero andava al clima gelido all’esterno.

Come se gli avesse letto la mente, Wessel fece fatica a trattenere una risata, o così almeno parve a Luca.

« È prevista neve stanotte. » aggiunse l’olandese « Molta neve. »

Luca raccolse trolley e borsa e si diresse verso l’ascensore.

« Buona permanenza. » gli augurò Wessel alle sue spalle.

Luca si voltò, senza smettere di camminare, e fece un cenno con la testa.

Salito al quarto piano, percorse il corridoio fino alla 404 e, dopo aver inserito la chiave elettronica nella fessura sopra la maniglia, entrò.

La camera, piccola e prefabbricata come tutte quelle della catena Ibis, era ghiacciata, oltre ad avere un vago odore di muffa, tipico di alberghi che necessitano di essere rinnovati. Immediatamente Luca fece partire la pompa di calore, posizionata in alto sulla parete vicino alla finestra.

Poi, come faceva da anni nei suoi viaggi di lavoro in giro per il mondo, depose trolley e borsa, si levò cappotto, giacca e cravatta, ed andò in bagno per lavarsi le mani. Quindi aprì la valigia, tolse pigiama e beauty case, mettendo il primo sul letto e il secondo sul lavandino, prese il laptop dalla borsa a tracolla, lo appoggiò sulla piccola scrivania di fronte alla finestra e lo accese.

Dopodiché si sedette sulla sedia e incominciò a leggere le email che erano arrivate al suo indirizzo elettronico durante la giornata passata in viaggio.

Come era avvenuto spesso in passato durante la sua vita da export manager, Luca si dimenticò della cena.

Erano le ventuno, quando staccò la testa dal pc per un momento.

Diede un’occhiata all’orologio al polso e poi fece il numero del cellulare della sua compagna, Ida, a Milano.

Lei rispose al primo squillo.

« Finalmente! Pensavo ti fossi dimenticato di me! »

« Scusami, tesoro. È stata una giornata pesante. L’appuntamento di stamattina a Bruxelles… il cliente è arrivato in ritardo di un’ora e mi ha sballato tutta la tabella di marcia. Ho passato le ore successive a guidare come un matto per recuperare e non arrivare in ritardo ad Amsterdam. Ora sono a L’Aia. Sono esausto e nella mia camera c’è un freddo porco. »

« Mi spiace sentirti così stanco e nervoso, caro. Hai almeno mangiato qualcosa di caldo? »

Luca si accorse in quel momento di aver completamente dimenticato la cena. I suoi occhi scrutarono fuori della finestra ed intravidero i primi fiocchi bianchi svolazzare nell’aria, portati dal vento. L’idea di uscire dall’Ibis ed andare alla ricerca di un ristorante gli sembrò in quel momento attraente come mettere la testa nella bocca di un leone affamato.

« No, tesoro. Ma non preoccuparti. Oggi ho mangiato a sufficienza mentre guidavo. Non ho fame. Anzi, tra poco chiudo il pc, vado a letto e domani mattina, prima di uscire per il primo appuntamento, mi farò una ricca prima colazione all’olandese. »

« D’accordo, amore. Ti lascio riposare, allora. Cerca di dormire. Buona notte. »

« Buona notte, tesoro. » la congedò Luca.

Quindi, riguardò fuori e gli parve che i fiocchi svolazzanti fossero aumentati.

Speriamo di non trovarmi mezzo metro di neve da spalare dall’auto domani mattina, pensò.

Poi riprese a lavorare, dimenticandosi nuovamente del mangiare.

Ad un certo punto, incominciò a sentire freddo. Brividi gelidi presero ad attraversargli tutto il corpo.

Alzò la temperatura della pompa di calore, ma dopo altri cinque minuti notò che la situazione all’interno della stanza non stava migliorando.

Prese il telefono e chiamò la ricezione.

« Posso aiutarla? » rispose Wessel, quattro piani più in basso.

« Può controllare, per favore, che il riscaldamento nella mia camera stia funzionando a dovere? Si gela qui dentro. »

Una decina di secondi di silenzio, durante i quali Luca si immaginò Wessel a controllare il sistema di riscaldamento o, più probabile, a bersi una tazza di brodoso caffè con panna, mentre si sistemava i capelli o si metteva le dita nel naso.

« È tutto a posto, signore. Il riscaldamento funziona a dovere. » disse infine l’olandese « Comunque nell’armadio trova altre coperte, se ne ha bisogno. Buona notte. »

Wessel troncò la conversazione, lasciando Luca a riflettere su come trovare una soluzione al malessere che si stava facendo strada nel suo corpo stanco ed infreddolito.

Decise di cambiarsi, indossando il suo pigiama di flanella in disegno scozzese azzurro-bianco, poi prese due coperte dall’armadio e le dispose sul letto.

Diede un’ultima occhiata fuori e gli parve che avesse smesso di nevicare, quindi si infilò sotto le coperte e spense la luce, cercando di addormentarsi.

Dopo dieci minuti a rigirarsi nel letto, in preda ai brividi, si alzò, andò in bagno ed girò la maniglia della doccia, lasciando scorrere l’acqua bollente, che creò quasi subito un muro di vapore che si sparse in tutta la camera. Non contento, Luca mise due asciugamani lungo i bordi degli infissi della finestra, per bloccare gli spifferi che, secondo lui, permettevano al vento ghiacciato in arrivo dal mare di entrare.

Più o meno soddisfatto della sua opera, si ricoricò, nella speranza di aver trovato la maniera di riscaldarsi.

Era trascorso solo un altro quarto d’ora, quando Luca finalmente comprese che il problema del suo aver freddo non era dovuto al riscaldamento insufficiente dell’Ibis.

Un senso di nausea lo colpì allo stomaco all’improvviso, causandogli dei conati.

« Cazzo! » esclamò, correndo di corsa nel bagno, che assomigliava sempre di più ad un bagno turco, e si appoggiò in ginocchio alla tazza, ma senza riuscire a rigettare.

Intanto provò a decidere cosa fare.

Durante i suoi innumerevoli viaggi all’estero era stato male altre volte, anche se per fortuna mai per qualcosa di grave.

Devo stare tranquillo, si ripeté, e me la caverò anche questa volta.

Però, mentre lo diceva, come per ripicca, la nausea aumentò di colpo. La vista gli si annebbiò e dovette sdraiarsi sul pavimento di piastrelle bianche, identiche a quelle sulle pareti, e rimase lì per qualche minuto, in posizione fetale, rabbrividendo, ad occhi chiusi.

Non va per niente bene, pensò, infine.

A fatica si tirò su dal pavimento, poi uscì dal bagno e, dopo aver indossato il cappotto sopra il pigiama e essersi infilato le scarpe nere a coda di rondine senza calze e senza neppure allacciarle, andò in corridoio, barcollando, per prendere l’ascensore.

Tutto l’hotel era immerso nei suoni sommessi degli ospiti che dormivano nelle loro camere, a parte qualche televisione ancora accesa.

Luca guardò di sfuggita l’orologio al polso. Erano già le ventidue e trenta.

Una volta a pianoterra, mentre si avvicinava al banco della ricezione con passo malfermo, Wessel lo squadrò come se avesse visto un matto scappato dal manicomio.

Scosso sempre più dai brividi, Luca si strinse nel cappotto, sotto il quale si intravvedevano i pantaloni scozzesi del pigiama, e si avvicinò all’olandese.

« Non sto bene. » disse, a bassa voce « Potrebbe chiamarmi un dottore, per favore? »

Wessel continuò a fissarlo con aria interrogativa e Luca comprese di star diventando per l’addetto alla ricezione dell’Ibis una rottura di coglioni imprevista in una serata tranquilla.

Alla fine, Wessel si decise a sollevare la cornetta e, dopo aver cercato un numero su una lista appesa alla parete tappezzata, lo compose.

Dopo mezzo minuto qualcuno rispose all’altro capo del filo.

Quello che probabilmente doveva essere un medico e Wessel parlarono in fiammingo per circa un minuto, dopodiché il biondo finì la conversazione e si rivolse a Luca in inglese.

« Mi spiace, signore, ma il dottore non può venire qui adesso. Dovrebbe andare lei al suo studio. Le posso dare l’indirizzo, se vuole. »

Luca percepì la voce di Wessel come se arrivasse filtrata da strati di cotone idrofilo, dopodiché annuì con la testa, anche se non aveva capito granché, e crollò sulla moquette verde e rossa.

In maniera inconscia, mentre l’odore di detersivo misto a sporco gli entrava nelle narici, si pose su un fianco, rannicchiato, alla ricerca di protezione.

Wessel si sporse dal banco per osservarlo e, dopo averci pensato su, uscì dalla sua postazione, avvicinandosi a Luca, ancora cosciente nonostante il malore.

« Signore, le chiamo un taxi, così può andare dal dottore? »

Luca non rispose, ma sollevò le palpebre all’improvviso, uccidendo Wessel con un’occhiata.

L’olandese dovette arrendersi al fatto che il suo ospite italiano aveva un problema di salute più serio di quanto avesse pensato pochi minuti prima.

Allora tornò dietro il banco e digitò un altro numero.

Luca udì alcune parole, senza comprenderle, ma non si mosse, sempre steso per terra.

Wessel terminò di parlare al telefono e si riavvicinò a Luca.

« Ho chiamato l’ambulanza, signore. Sarà qui a breve. »

Con gli occhi semichiusi, Luca l’osservò tornare di nuovo alla sua postazione, abbandonandolo lì sulla moquette.

Quando poco dopo alcuni rumori lo risvegliarono dal torpore in cui era caduto, Luca spostò il suo sguardo sull’orologio digitale appeso al muro.

Erano le ventitre passate da tre minuti.

All’improvviso i suoi occhi furono attirati dalle luci lampeggianti al di fuori dell’Ibis.

Focalizzò meglio e vide l’ambulanza parcheggiata.

Due sanitari grandi come lottatori di wrestling, vestiti di bianco, entrarono nell’atrio e Wessel gli andò incontro.

I tre si scambiarono alcune frasi, mentre Wessel indicava Luca disteso a terra.

Questi, continuando a tremare, li osservava obliquamente, la testa sempre appoggiata sulla moquette.

Wessel ed i due sanitari si avvicinarono a Luca, mettendosi in cerchio intorno a lui.

« Come sta? » gli domandò in inglese uno dei sanitari, con i capelli a spazzola biondi e un pizzetto dello stesso colore.

« Sto male. »

« Cosa si sente? » chiese l’altro, che agli occhi annebbiati di Luca sembrava il gemello più grasso di quello accanto.

« Penso di avere la febbre. Ho freddo. Ho una grossa nausea e non riesco a stare in piedi. »

Luca percepì i tre olandesi studiarlo come se fosse la cavia da vivisezionare.

I due “gemelli” si dissero qualcosa, poi il primo che aveva parlato si rivolse di nuovo a Luca.

« Signore, ha l’influenza. »

« Allora mi portate via? »

Quello più grasso fece una smorfia.

« Non possiamo utilizzare l’ambulanza per portare al pronto soccorso qualcuno che ha una semplice influenza. »

« Ma siete già qui! Dov’è il problema? » provò a protestare Luca, sforzandosi di non alzare la voce.

« Lei ha una semplice influenza. » ribadì il grasso, dopodiché fece per voltarsi verso l’uscita.

« Ma non mi provate neppure la pressione? » disse Luca, quasi implorando « La temperatura, almeno! »

« Lei ha soltanto l’influenza. » ribadirono all’unisono i due sanitari, quindi salutarono Wessel con un cenno della testa e tornarono all’ambulanza.

Dopo qualche secondo Luca sentì il motore del mezzo mettersi in moto, per poi vederlo uscire dal suo ristretto campo visivo.

Devo essere sullo “Scherzi a parte” olandese, pensò in un misto di frustrazione e rassegnazione.

Piegò la testa verso Wessel, cercando sul suo viso una spiegazione di quanto stava succedendo, ma l’addetto al ricevimento non disse nulla, impassibile.

« Mi aiuta a mettermi su una poltrona, per favore? » domandò Luca.

Wessel lo prese sotto le ascelle e lo trascinò fino a una delle poltrone in pelle bordò intorno ad un tavolino dentro l’atrio.

Dopo averlo depositato in maniera rude su di essa, Wessel ne avvicinò un’altra, sollevò le gambe di Luca e ve le lasciò cascare sopra.

« Vuole che le dia l’indirizzo del medico, allora? » richiese, fissando la testa di Luca abbandonata all’indietro.

« Che cosa? Non capisco. »

« L’indirizzo del medico. Così può andare là e farsi vedere. Certamente lui potrà fare qualcosa per curare la sua influenza. »

Pur del tutto senza forze, Luca riuscì ad alzare il braccio sinistro e a guardare l’orologio al polso.

Le ventitre e venti.

« Quanto è lontano da qui? » domandò, rassegnato.

Wessel alzò gli occhi verso il soffitto, mentre pareva calcolare la distanza dall’albergo allo studio.

« Non molto. » rispose, infine « Allora, cosa ha deciso? Le chiamo un taxi? »

Luca rifletté per un secondo se prendere o meno la sua Ford a noleggio parcheggiata fuori dell’Ibis, ma comprese subito che non sarebbe stato in grado in quelle condizioni di guidare fino allo studio del dottore, ovunque esso fosse.

Allora, annuì verso Wessel, senza riuscire a togliere l’irritazione dalla sua faccia.

L’olandese andò dietro al banco, fece un’altra telefonata, disse qualcosa e tornò da Luca con un biglietto scritto a mano.

« Questo è l’indirizzo del medico. Lo dia direttamente all’autista. Ci penserà lui a condurla là. Dovrebbe essere qui tra cinque minuti. »

Luca prese il biglietto, controllò di avere il portafoglio nella tasca del cappotto, poi chiuse di nuovo gli occhi, in attesa del taxi.

Puntuale, cinque minuti dopo, l’autista attraversò l’ingresso dell’Ibis, in jeans, giaccone nero e stivaletti bassi marroni di pelle.

« Taxi. » disse in un inglese fortemente accentato, guardando in direzione di Luca.

Lui sollevò la mano per farsi riconoscere e si alzò a fatica dalla poltrona, senza che Wessel facesse alcun lontano tentativo di aiutarlo.

Il tassista, con un basco nero in testa e la barba sfatta, osservò lo strano abbigliamento di Luca e incrociò lo sguardo di Wessel, che con un veloce cenno della mano gli confermò che era tutto in ordine.

Luca seguì il conducente fuori dell’hotel, dove la neve stava cadendo di nuovo e più di prima.

Il freddo gli penetrò immediatamente nelle ossa, attraverso il cappotto ed il pigiama, e rabbrividì, mentre si sedeva sul sedile posteriore della Passat nera.

Il tassista mise in moto e si voltò verso Luca, in attesa di indicazioni.

Quest’ultimo gli diede il bigliettino di Wessel.

L’autista annuì e partì slittando sull’asfalto imbiancato.

Luca si abbandonò contro il poggiatesta, mentre i suoi occhi scrutavano i marciapiedi e gli edifici che scorrevano ai fianchi del taxi.

In giro per le strade dei sobborghi di L’Aia non c’era quasi nessuno ed i locali erano tutti chiusi, a parte le sale gioco e quelli erotici. Durante il tragitto fino allo studio del dottore, Luca vide poche persone, da sole soprattutto, che camminavano piegate in avanti, con i fiocchi di neve che le sferzavano, tentando di non perdere l’equilibrio sul fondo scivoloso.

Che nottata di merda, si disse, sfinito. Pare di essere su un pianeta sperduto e condannato all’estinzione, da cui tutti sono già scappati, tranne me, il tassista e qualche altro derelitto disperato.

Dalla radio dell’auto usciva una musica mediorientale a basso volume, che, unita al procedere regolare della Passat, ebbe un effetto ipnotico su Luca, che si addormentò.

Si sentì toccare sul braccio e si svegliò di soprassalto, trovandosi a fissare gli occhi assonnati del conducente.

« Siamo arrivati. »

Luca guardò fuori, dove una breve scala portava ad un portico. Qui l’insegna lampeggiante di una farmacia squarciava ad intermittenza la notte.

« È qui il dottore? » domandò Luca, dubbioso.

L’autista gli mostrò il biglietto di Wessel e fece di sì con il capo.

Luca scrutò ancora il portico, quindi si rivolse al tassista.

« Quanto le devo? »

L’autista indicò il tassametro, che segnava più di trenta euro.

Ma dove cazzo mi ha portato? si chiese Luca, riflettendo sulla distanza percorsa con il taxi dall’Ibis e notando che l’orologio digitale della Passat segnava le ventitre e cinquanta.

Maledisse in silenzio Wessel, quindi prese il portafoglio e mise i soldi in mano al tassista.

« Può aspettarmi qui, per favore? » aggiunse « Dopo devo tornare all’hotel. Ci metto poco. Va bene? »

Al nuovo segno affermativo dell’altro, aprì la portiera, investito subito dai fiocchi e dal vento forte. Le scarpe sprofondarono nella coltre alta cinque centimetri ed i suoi piedi senza calze si intirizzirono immediatamente al contatto con la neve.

« Nottata di merda. » mormorò, per poi salire le scale.

Prima di entrare nella farmacia, sbirciò il taxi per essere sicuro che non se ne andasse, ma si tranquillizzò vedendo che l’autista aveva spento il motore e le luci, in attesa del suo ritorno.

Aprì la porta di vetro ed andò dentro lo spazio, appena meno freddo che l’esterno, dove c’erano alcune sedie contro una parete. Di fronte a lui, una donna bionda in camice bianco, larga quanto alta, lo squadrò dall’altra parte di una vetrata con una feritoia nel mezzo, oltre la quale c’erano diverse scansie parallele con i medicinali in vendita.

Luca si avvicinò alla feritoia.

« Buonasera, sono venuto qui per farmi visitare dal dottore. Sto male. »

« Il dottore non sarà qui prima delle otto di domani mattina. »

« Ma mi è stato detto che lo avrei trovato qui adesso! »

« Se vuole aspettare anche qui tutta la notte su una di quelle sedie, » ribatté lei, senza scomporsi « sarà il primo della fila domani mattina, quando il dottore arriverà. »

Luca fece per alzare la voce, ma si trattenne, accorgendosi che non sarebbe servito a nulla.

« Quindi questa è… » disse, lasciando la frase in sospeso.

« È una semplice farmacia. »

Luca rifletté per un secondo, andando con il pensiero alle farmacie italiane dove aveva visto anziani che si facevano misurare la pressione o fare iniezioni.

«Potrebbe provarmi la temperatura, per favore? »

La donna non cambiò l’espressione assente del viso.

« Se vuole, può comprare un termometro e misurarsela da solo. »

« Non ho bisogno di comprare un termometro! Devo solo vedere se ho la febbre. Glielo chiedo per favore. Può misurarmela lei? »

La donna si allontanò per andare ad una scansia, da dove prelevò una scatola, poi tornò alla feritoia.

« Questo è il termometro. Costa dodici euro. Lo vuole comprare o no? »

Luca fissò prima la bionda, poi il termometro, quindi di nuovo lei. Dopodiché prese dal portafoglio due banconote, che mise dentro la feritoia.

La donna gli ritornò il termometro con lo scontrino ed il resto, senza aggiungere altro.

Luca si sedette su una delle sedie e tolse il termometro digitale dalla confezione per metterlo sotto l’ascella.

Quando l’apparecchio suonò, guardò la temperatura.

Trentanove e uno.

Cazzo, si disse, mentre, come un riflesso condizionato, i brividi tornarono a colpire il suo corpo a ondate.

Si mise in tasca il termometro ed uscì, senza degnare di uno sguardo la farmacista.

Il taxi era ancora lì, ai piedi della scala, con una patina di neve che nascondeva parte della carrozzeria nera.

Entrò nella Passat senza indugiare oltre, dato che la neve pareva cadere sempre più copiosa ad ogni minuto che passava.

L’autista lo fissò con aria interrogativa nello specchietto retrovisore.

« Torniamo all’albergo? » gli domandò.

Luca percepì la nausea montare di nuovo.

« Ho bisogno di andare subito ad un pronto soccorso. » disse, dopo aver preso la decisione.

Il tassista girò la chiave dell’auto ed i tergicristalli pulirono il parabrezza dalla neve.

« Là c’è un ospedale. » rispose, indicando una struttura illuminata dall’altra parte della piazza.

« Mi ci porti, per favore. »

« Non posso. È troppo vicino. »

Luca spalancò gli occhi febbricitanti.

« In che senso? »

A lui l’ospedale pareva essere distante almeno trecento metri. Senza dubbio troppi per le sue condizioni di salute, soprattutto durante una bufera di neve e a piedi.

« Per portarla fino a quell’ospedale il tassametro indicherebbe più o meno un euro, quando la corsa minima è di quattro e cinquanta. Perciò, deve andarci da solo. Non posso portarla io. »

Luca ebbe un conato.

Va bene, pensò, ora sono sicuro di essere la vittima ignara di uno scherzo. Tutto ciò non può essere vero. È surreale.

« Non sto bene. Se le chiedo di portarmi al più presto in un pronto soccorso, è chiaro che non sto bene. Come può pensare che io sia in grado di camminare fin là? » chiese, ormai al limite della sua pazienza.

Il tassista proseguì a guardarlo, indifferente, senza aprire bocca.

Allora, Luca estrasse una banconota da dieci euro dal portafoglio e la porse all’autista.

Questi lo fissò, senza sapere cosa fare.

« Sono troppi. » replicò.

Luca si mise la mano sulla fronte e la sentì bagnata di sudore, nonostante il clima gelido.

« Prenda questa banconota e mi porti là. Adesso, cazzo! » rispose seccato, ormai senza più un briciolo di spirito di sopportazione.

Il tassista afferrò i dieci euro, mise in moto e partì in direzione dell’ospedale, dove si fermò trenta secondi dopo.

Luca scese dal taxi e si fiondò verso l’ingresso del pronto soccorso, scivolando sul selciato imbiancato, ma riuscendo a non cascare in terra.

« Devo aspettare, signore? »

Le parole dette dal tassista attraverso il finestrino abbassato della Passat giunsero alle orecchie di Luca mentre le porte scorrevoli dell’ospedale si aprivano davanti a lui.

Fece finta di non aver sentito ed entrò nell’ambiente asettico del pronto soccorso, accolto dalle luci al neon, che illuminavano a giorno tutto l’ingresso, e dal calore del riscaldamento interno.

Prima ancora che potesse raggiungere lo sportello dell’accettazione, un’infermiera di origine orientale, minuta e con i capelli ossigenati, saltò fuori dal nulla, andandogli incontro.

« Posso aiutarla? » chiese, mentre guardava con sospetto lo strano abbigliamento dell’individuo appena sbucato dalla bufera di neve.

Luca si strinse nel cappotto, tremando.

« Non sto bene. » sussurrò, poi si piegò prima sulle ginocchia, colpito dal senso di nausea e stremato dalla febbre, quindi cadde in avanti, finendo steso sul pavimento di linoleum chiaro.

L’infermiera gridò qualcosa in fiammingo e alle sue spalle altri due sanitari arrivarono di corsa.

Luca chiuse gli occhi, poi si sentì sollevare ed intuì di essere stato adagiato su una lettiga.

Sprofondò immediatamente in uno stato di dormiveglia.

Ad un certo punto, riprese conoscenza per poco, giusto il tempo di osservare che era stato portato in una stanza e che aveva una flebo al braccio.

Di nuovo la spossatezza prese il sopravvento.

Quando riaprì gli occhi, un dottore stava in piedi di fronte a lui.

L’uomo, capelli corti neri e barba sale e pepe, stava parlottando con l’infermiera, che aveva accolto Luca al suo arrivo nell’ospedale, quando si accorse che Luca si era svegliato.

Si avvicinò al letto, sorridendo.

« Salve. Come sta, signor Crespi? A proposito, dopo che ha perso i sensi, abbiamo dovuto curiosare nel suo portafoglio ed abbiamo trovato la sua carta d’identità. Comunque, come si sente? »

Luca ci pensò sopra qualche secondo, cercando di individuare i sintomi all’interno del proprio corpo.

I brividi sembravano scomparsi, come pure la nausea, e sentiva che le forze gli stavano ritornando.

« Meglio, dottore. Molto meglio. »

« Bene. È anche quello che risulta dagli esami che le abbiamo fatto. Certo, quando è arrivato qui, non era messo bene. Ha perso i sensi. Le abbiamo dovuto fare un paio di flebo. Comunque, ora ci sembra tutto a posto. »

Luca guardò l’orologio al polso.

Le tre e venti del mattino.

« Cosa ho avuto? »

Il dottore lesse i fogli che aveva in mano, prima di rispondere.

« Una bella influenza fulminante. »

« Ma ieri ho guidato da Bruxelles fin qui e stavo benissimo. Ho iniziato a star male solo dopo le ventuno. Ed adesso, invece, mi sembra che le ultime ore siano state solo un incubo. È tutto passato? »

Il dottore assentì.

« Proprio così. È come le ho detto prima. Un’influenza fulminate. Come è giunta,se n’è andata. Molto semplice. »

Luca attese che il dottore proseguisse, mentre invece rimaneva in silenzio, sorridendogli e basta.

« Quindi? » lo incalzò lui.

« Quindi può andare, signor Crespi. Anche lei si sta accorgendo di star meglio e ciò conferma perfettamente i nostri dati. Deve solo aspettare una decina di minuti che la flebo finisca e poi, dopo aver firmato i documenti necessari per le dimissioni e per il pagamento, è libero di lasciare l’ospedale. »

A Luca sembrò di non aver compreso le ultime parole del dottore.

« Il pagamento? » domandò perplesso.

« Sì, » rispose il medico, sempre con il sorriso stampato sulla bocca « lei non è un cittadino olandese. Perciò non può usufruire del nostro servizio sanitario nazionale gratuitamente. Le arriverà a casa in Italia la fattura da pagare. »

La faccia di Luca sembrava quella di uno che avesse appena avuto una paresi, mentre il suo sospetto di qualche ora prima ritornò insistente nella sua testa.

Non c’è dubbio, pensò, sono davvero vittima di uno scherzo. Non può esserci altra spiegazione per questa serie infinita di assurdità.

« Adesso, però, mi tocca salutarla. Ho altri pazienti da seguire. Le auguro un buon ritorno a casa. » concluse il dottore, uscendo dalla stanza e lasciando Luca basito nel letto.

L’infermiera seguì il dottore, per poi tornare dieci minuti più tardi con i documenti per le dimissioni di Luca.

Veloce, estrasse l’ago della flebo dal braccio del paziente, lo disinfettò e applicò un cerotto sulla ferita.

Quindi diede a Luca una penna ed i fogli che aveva in mano.

«Per favore, metta una firma dove ci sono le croci. Grazie. »

Luca obbedì, senza pensarci un attimo. Aveva solo voglia di tornare in hotel e cercare di dormire per dimenticare l’incubo che era diventato il suo soggiorno a L’Aia.

Appena ebbe finito, l’infermiera ritirò i documenti e gli diede un pacchetto di compresse.

« Ne prenda una ogni dodici ore a stomaco pieno, fino a terminare la confezione. » disse la donna, indicando l’attaccapanni in un angolo della stanza « Lì c’è il suo cappotto. Ora può andare, signore. »

Dopodiché si dileguò.

Luca si guardò intorno,spaesato, poi scese dal letto con indosso il suo pigiama scozzese e s’infilò cappotto e scarpe, allacciandosi le stringhe.

Quindi uscì anche lui dalla stanza e, dopo aver transitato davanti alla guardiola del pronto soccorso, se ne tornò indisturbato all’esterno dell’ospedale.

Aveva smesso di nevicare, ma tutto intorno era coperto dalla coltre candida.

Con sua grande sorpresa, Luca notò il taxi, che lo aveva accompagnato dall’hotel, parcheggiato ancora a pochi metri dall’ingresso del pronto soccorso.

Con cautela, fece qualche passo nella neve e picchiò con le nocche sul vetro del lato guidatore.

Il tassista si svegliò di soprassalto e lo fissò attraverso il finestrino incrostato di bianco. Poi mise in moto e tirò giù il vetro elettrico della Passat.

« La riportò all’Ibis, signore? » gli chiese, come se il tempo trascorso da quando Luca era entrato in ospedale non fosse mai esistito.

Senza rispondere, Luca salì dietro e rimase in silenzio per tutto il tragitto di ritorno, ogni tanto abbassando le palpebre, ma perlopiù tenendo lo sguardo perso rivolto verso l’esterno, dove l’oscurità della notte si mischiava al candore della nevicata.

La città era ancora dormiente e ben poche auto incrociarono il taxi nella successiva mezz’ora.

Una notte assurda, si disse di nuovo Luca. Completamente assurda.

L’unica cosa positiva era che, a parte il sonno e la fame, stava bene. Quell’influenza atipica se n’era andata del tutto, per fortuna.

Quando il taxi si fermò, il conducente si girò verso di lui.

« Siamo arrivati. Sono quarantacinque euro, signore. »

Luca spostò lo sguardo a destra e vide l’insegna dell’Ibis.

Prese una banconota da cinquanta e la diede all’uomo. Quindi, senza aspettare il resto, scese, rabbrividendo quando la neve gli entrò nelle scarpe, a contatto con i piedi nudi.

Rimase fermo per un minuto, riflettendo, mentre il taxi ripartiva e si allontanava.

Si guardò intorno.

Pareva di essere davvero su un altro pianeta. Il silenzio aleggiava su tutto, interrotto solo dal rumore delle onde che si infrangevano sulla spiaggia, al di là della strada.

Mise la mano in tasca e vi trovo le chiavi della sua Ford.

Allora fece qualche passo fino all’auto parcheggiata, ne aprì il bagagliaio e si infilò il paio di guanti grigi di pelle, che c’erano al suo interno. Dopodiché, da un doppio fondo nascosto prelevò alcuni oggetti che fece scivolare nelle tasche del cappotto.

Chiuse la Ford e si diresse verso l’hotel.

Entrò ed i suoi occhi andarono subito all’orologio sulla parete.

Le quattro e trenta.

Wessel alzò la testa e guardò Luca con noncuranza, senza aprire bocca.

« Devo prendere delle pastiglie a stomaco pieno. Ho bisogno di un bicchiere d’acqua e di qualcosa da mangiare. »

« Purtroppo a quest’ora non ho niente da darle. Neanche uno snack. »

A Luca sembrò di vedere un’ombra di divertimento negli occhi dell’olandese.

« Non avete niente in cucina? O in frigorifero? Anche solo un pezzo di pane di ieri basterebbe. » insistette.

Un sorriso finto apparve sulla bocca di Wessel.

« Sono già le quattro e mezza, signore. Deve aspettare solo un paio d’ore e poi potrà fare colazione. »

I loro sguardi si incrociarono, carichi di tensione.

« Prima mi aveva detto che lo studio del medico era vicino. » disse, con un tono di rimprovero.

« Perché? Non era così? »

Luca serrò la mascella, innervosendosi ancora di più.

« Inoltre il dottore non c’era. »

« Sono cose che succedono. » rispose Wessel, facendo spallucce.

Fanculo, decise Luca. Quando è troppo, è troppo.

Si mosse rapido in avanti verso l’olandese ed estrasse dalla tasca destra una pistola Beretta FS92, con la quale colpì la testa di Wessel all’attaccatura dei capelli, con tutta la forza che aveva.

L’addetto al ricevimento non vide neppure arrivare il colpo e si accasciò su se stesso, dietro il banco, svenuto. Un bernoccolo rosso iniziò a formarsi dove Luca lo aveva raggiunto con la canna della Beretta.

Luca fece scivolare la pistola in tasca, passò dietro il banco e cercò, finché non trovo un rotolo di nastro adesivo per pacchi.

Lo fece passare intorno alle caviglie di Wessel, immobilizzandone le gambe. Ripeté l’operazione con i suoi polsi, legati dietro la schiena. Finì il tutto attaccando una striscia di nastro adesivo anche sulla bocca.

Quindi si caricò Wessel sulle spalle e uscì in Gevers Deynootweg.

La situazione non era cambiata rispetto a qualche minuto prima.

Neve e buio la facevano da padroni e la strada era deserta.

Camminò fino alla Ford, aprì il bagagliaio e ci gettò dentro l’olandese, come se fosse un sacco di patate, quindi chiuse di nuovo l’auto.

Una volta tornato nell’atrio dell’Ibis, andò alla postazione di Wessel.

Rapido, come era abituato a fare, schiacciò alcuni tasti sulla tastiera del pc e spense le videocamere di sorveglianza all’interno e all’esterno dell’albergo. Digitò altri tasti e cancellò le registrazioni video delle ultime ventiquattro ore.

Senza perdere tempo, prese una chiave elettronica e la inserì nel software per programmarla.

Camera 306.

Come gli era stato comunicato il giorno prima, ad Amsterdam, da chi gli aveva affidato l’incarico.

Salì in silenzio al terzo piano, usando le scale, e procedette fino alla porta della 306.

Prese dalle tasche del cappotto la Beretta, un caricatore di pallottole 9×19 mm Parabellum e un silenziatore.

Con movimenti consumati, inserì il caricatore, avvitò il silenziatore, mise il colpo in canna e tolse la sicura.

Luca diede un’ultima occhiata a destra e a sinistra. Il corridoio era del tutto vuoto e la telecamera in alto era cieca.

Infilò la chiave elettronica nella serratura. La luce verde si accese.

Luca spinse la porta con dolcezza verso l’interno ed entrò.

Si prese qualche secondo per far abituare i suoi occhi al buio.

Non appena delineò la sagoma nel letto sotto le coperte, alzò il braccio destro e sparò tutto il caricatore contro il suo obiettivo.

Il rumore, simile a ripetuti colpi di tosse, interruppe per pochi attimi la quiete del piano.

Dopo aver finito di sparare, Luca stette in ascolto, in attesa di altri possibili suoni.

Rassicurato dal silenzio, prese la Beretta scarica, con il silenziatore, e la gettò sotto il letto, insieme alla chiave elettronica.

Uscì dalla stanza, mise sulla maniglia esterna il cartello “Non disturbare”, chiuse la porta e salì a piedi di un piano per andare in camera sua.

Quando fu nella 404, puntò la sveglia del cellulare e si sdraiò sul letto così come era vestito, in pigiama, cappotto e scarpe.

Il sonno arrivò immediato.

Alle sei e quindici la sveglia suonò.

Luca si alzò immediatamente, si fece la barba e la doccia e si vestì in giacca e cravatta, già pronto per la sua giornata di lavoro.

Alle sei e trenta scese con l’ascensore a pianoterra.

Si diresse verso l’angolo, dove era stata preparata la colazione self-service per gli ospiti dell’albergo.

Diede un’occhiata al ricevimento, dove un impiegato di colore stava chinato sul computer.

Probabilmente sta provando a recuperare i filmati della notte, si disse Luca, con un sorriso.

Una cameriera bionda con gli occhi azzurri, magra come un giunco, gli chiese il numero della camera e lo segnò su un elenco.

« Buona colazione. » gli augurò.

Luca continuò a sorridere e, preso un vassoio, si servì al self-service.

Dieci minuti più tardi, era già in camera, dopo aver mangiato un paio di brioches con la marmellata ed aver bevuto due tazze di caffè con zucchero e crema.

Mise il laptop nella borsa a tracolla ed il pigiama con il beauty case nel trolley, indossò il cappotto e lasciò la 404.

Mentre era in coda per pagare, telefonò ad Ida.

La sua compagna rispose al secondo squillo, con voce assonnata.

« Ciao, tesoro. hai chiamato presto stamattina. Sono appena le sette. »

« Ti ho svegliata? »

« Sì, ma non importa. Tanto la sveglia sarebbe suonata tra cinque minuti. Hai dormito bene? »

Luca pensò alla notte appena passata.

« Come un sasso. Tu? »

Lei sospirò.

« Beato tu. Ieri sera mi sono arrivate le mestruazioni e ho avuto male per tutta la notte. Mi sono addormentata verso le quattro, credo. Com’è lì il tempo? »

« È nevicato durante la notte, ma ora è solo nuvoloso. »

« Fai attenzione alla guida, allora. Mi raccomando. »

« Non preoccuparti, amore. » rispose lui « Sarò prudente. Spero che i tuoi dolori si attenuino. »

« Grazie. Ci sentiamo poi. Un bacio. Ti amo. »

Intanto Luca era arrivato davanti al banco del ricevimento, dove l’impiegato di colore lo fissava in attesa.

Luca gli passò la chiave elettronica, mimando con le labbra “404 check-out”.

« Anch’io ti amo. » concluse intanto la telefonata con Ida.

L’impiegato stampò la fattura e la porse a Luca, che pagò con la carta di credito.

« Il suo soggiorno è andato bene, signore? » chiese, mentre Luca firmava per l’autorizzazione del pagamento.

« Tutto perfetto. » rispose lui, restituendogli la penna.

« Grazie. Buona giornata, signore. »

« Altrettanto. »

Quindi Luca prese trolley e borsa ed uscì, camminando sul selciato innevato fino alla Focus.

Aprì l’auto, appoggiò le due valigie sul sedile posteriore e si sedette al posto di guida, mettendo in moto.

Lasciò il parcheggio e si immise con cautela in Gevers Deynootweg, in direzione del centro città.

Il suo appuntamento era alle otto. Tenendo conto del traffico e delle strade innevate, sarebbe arrivato puntuale.

Mentre guidava con prudenza, ritornò con la mente alla notte appena passata.

Alla fine, tutto era andato come previsto.

Aveva portato a termine il suo incarico e il denaro sarebbe arrivato sul suo conto off-shore in giornata. Come tante altre volte, in precedenza.

La sua vittima apparteneva ad un’organizzazione criminale ed era sospettato di aver sottratto denaro di nascosto ai suoi capi. Cose imperdonabili in certi ambienti, che si pagano con la vita.

Luca aveva ritirato a Bruxelles l’auto preparata con il doppio fondo e nella successiva fermata ad Amsterdam gli era stata fornita la Beretta con il silenziatore ed i proiettili.

Ora avrebbe trascorso tutta la giornata incontrando i clienti dell’azienda per cui lavorava. Per tutti, inclusa Ida, era quello il mestiere che faceva per vivere. La copertura perfetta per un sicario professionista.

In serata avrebbe riconsegnato la Ford all’aeroporto di Schipol e i suoi mandanti si sarebbero occupati di farla sparire per sempre.

Rimaneva Wessel.

Una smorfia perversa apparve sulle labbra di Luca.

Avrebbe mandato un whatsup in codice al garage dell’autonoleggio per chiedere un favore all’organizzazione.

Glielo dovevano. In fondo il loro rapporto d’affari andava avanti da anni con mutua soddisfazione.

Sì, si disse Luca al volante, non faranno problemi. Così questo stronzo olandese la pagherà per i suoi modi di merda della notte scorsa.

Certo, gli sarebbe piaciuto sistemare anche gli altri cazzoni.

I due “gemelli” dell’ambulanza, il tassista, la farmacista, l’infermiera, il medico.

Ma non si può avere tutto, si ripeté. Accontentiamoci. Wessel pagherà per tutti. L’importante adesso è gettarsi questa nottata olandese alle spalle. Dimenticarla.

La Ford sbandò di colpo sulla neve, mentre curvava.

Luca corresse la traiettoria con lo sterzo e d’istinto ragionò sul fatto che Wessel nel bagagliaio potesse aver picchiato la testa durante quella manovra brusca.

Non poté fare a meno di scoppiare a ridere.

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5 commenti »

  1. Che tensione e che ritmo ! il tuo racconto Giovanni scorre velocissimo con una tensione in costante aumento e una realtà che appare sempre più surreale.
    La tua narrazione è straordinariamente efficace. Parole e dialoghi essenziali e efficaci. Una trama nascosta che non svela nulla se non una situazione “incomprensibile”
    che lascia il povero lettore in preda degli eventi in una costante escalation. Poi un Grandissimo finale che ribalta velocissimo i ruoli con un senso di rivincita terribile .
    Veramente un racconto coinvolgente e di solida struttura narrativa. Tantissimi complimenti.

  2. Ahahahah! Alla luce di quel che si è rivelato il protagonista, ben gli sta quello che gli è capitato. Bel racconto, complimenti!

  3. Peccato! Volevo Wessel torturato, scorticato e denudato! Che maleducato! Finale troppo ‘buono’ , desideravo sangue per questi s…signori olandesi! Caro Giovanni, mi hai fatto ridere finalmente! Dopo tanti tristi, truculenti, disperati raccontini, un po’ di humour ci voleva! Sei stato proprio Magistr..Ale! p.s. ma la catena Ibis non ti farà causa ? e poi :rumble rumble…siccome il racconto è ispirato a una storia vera, non è che tu sia…ahaha!

  4. Mi ha preso ed è stato un diletto leggerlo fino alla fine. Inoltre, mi pare di aver individuato il punto preciso in cui la parte inventata si congiunge con la storia vera… nel senso che la parte realmente accaduta è quella finale, ovviamente 😉
    Bravo!

  5. Il commento di Laura mi fa morire! 🙂 E visto il sospetto che susciti… Il tuo racconto ci piace tanto, è bellissimo, se capiti dalle mie parti, giuro, ti trovo un hotel con servizio ristorante!
    Scherzi a parte, mi è piaciuto molto, fortissimo senso di rivalsa che si prova insieme al protagonista nel leggere il finale.

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