Premio Racconti nella Rete 2018 “Letizia” di Antonella Caputo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018Un rapido ritocco agli occhi sbavati di matita blu oltremare profondo, un ultimo sguardo allo specchio tre per tre del bagno pastellato di giallo e di arancio. Prende il rossetto color nero d’avola e sull’angolo destro in alto vi disegna un cuore e lo attraversa con una scritta obliqua: le jeu est terminé. Fa per andare, ma si volta, torna indietro, s’accuccia sul wc. Poi schiaccia il pulsante dello sciacquone con gesto deciso, un sorriso – sardonico soddisfatto catartico o cosa è cosa non è – le curva le labbra. Getta via la cicca e la lascia lì, a galleggiare nell’acqua che ancora vortica. Attraversa la camera avvolta nella penombra, avanzando come una gatta su zampe d’ovatta. Si chiude la porta alle spalle e respira rapidamente come fosse in debito d’ossigeno, poggiando le spalle al muro per un breve attimo, ma ecco che scende di corsa le scale saltando i gradini a due a due su ballerine di stoffa morbida, esce in strada l’attraversa fino al parco lancia un urlo di giubilo nella notte muta e annebbiata, mette la sacca a tracolla inforca la bici e pedala a rotta di collo.
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Letizia a diciott’anni giocava ancora con le bambole. Aspettava un bambino e intanto si spupazzava Cicciobello. Colmava l’attesa provandogli i bavaglini che ricamava a punto croce e persino i pannolini, per far pratica su di lui e far passare prima il tempo. I pomeriggi erano lunghi da trascorrere. I compiti l’annoiavano e a scuola la mattina ci andava malvolentieri. Tutti i suoi compagni la riempivano di premure e cioccolatini, e le portavano a turno il pane con la mortadella al pistacchio che lei, in quel periodo, sognava anche di notte. Ma Letizia coglieva la commiserazione negli sguardi fugaci che mentre lei addentava lo sfilatino voracemente loro si scambiavano. Erano duri di comprendonio. Aveva spiegato e rispiegato che avevano voluto quel figlio, lei e Dodi. Non le importava se i soldi erano pochi, se lui faceva l’apprendista elettricista con scarsa voglia di lavorare, se vivevano in una stanza a casa dei suoi. Suo padre l’aveva implorata di finire il liceo, avrebbe pensato dopo il diploma a dare una mano in negozio. Lei credeva all’amore eterno sconfinato invulnerabile dirompente e spaccatutto e giocava alle bambole e impazziva per i cartoni di Candy Candy e parteggiava per Terence che era uguale uguale a Dodi e anche fra quei due l’amore sarebbe trionfato.
Il bambino nacque piccolissimo, ma si riprese in fretta. Succhiava latte a volontà e lei lo accudiva rifiutando l’aiuto di chiunque. Il tempo scorreva giocoso, il bambolotto cresceva e lei, finita la scuola, figlio sul seggiolino della bici, aveva cominciato a lavorare nel negozio dei suoi. Il pomeriggio arrotondava lavorando ai ferri tutine per neonati, le aveva esposte in vetrina e avevano riscosso un notevole successo.
Domenico invece non accennava ad uscire dall’impasse dell’abulia. Anzi a giugno aveva anche smesso di lavorare con la scusa che aspettava la chiamata da Rimini per la stagione. Chiamata che non arrivò mai, non si capì il perché. Lei lo guardava stranita, interrogativa, daltonica. Ma lo amava, era il suo Dodi.
Lui cominciò a far viaggi, in Romania diceva: comprava e vendeva auto. Vivevano in un buco di casa che di notte pullulava di scarafaggi e non c’era verso di farli fuori.
L’amore si diramò in altri due figli. Avevano nove, quattro e due anni e mezzo quando in una notte senza stelle senza luna e senza mitezza qualcuno venne a bussare insistentemente alla porta. Si svegliarono tutti e cinque. Lui aprì ed uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Lei portò da bere ai figli, rimboccò loro le coperte, li placò, posò un bacio su ciascuna guancia, spense le piccole abat-jour posate sui due comodini e sussurrando di fare silenzio si spostò lentamente per il corridoio lungo e stretto. Batteva i denti. Si avvicinò, impiegando un tempo spropositatamente dilatato, alla finestra che dava sul giardinetto di fronte alla casa. Due ombre oblunghe, appena percettibili alla luce fioca di un lampione poco discosto, stavano come pioppi neri sul selciato ai lati di quella di Dodi, alle spalle della panchina di ferro che lei era solita occupare nei pomeriggi di domenica, quando era bel tempo, a leggere fiabe o lavorare a maglia mentre i piccoli giocavano. Sembrò una folgore quella che lacerò l’immobilità e si buttò sull’ombra al centro, subito seguita dall’altra. I pioppi parevano un abete sbattuto dal vento adesso.
Lei si morse le labbra per non gridare. Lo lasciarono andare quasi subito. Tornò a casa pesto e sanguinante. Letizia prese il ghiaccio uno straccio umido il citrosil dei cerotti e lo ripulì senza che un solo suono le uscisse dalla bocca, né le venne fuori una lacrima. Aveva solo il labbro inferiore tumefatto per i denti che vi aveva affondato prima. Quella notte Dodi morì.
L’indomani mattina si svegliò prima del sole. Fece tutto con estrema calma. La spremuta di agrumi. Il pane tostato. Il caffè. Tirò fuori dal ripostiglio un borsone. Lo spolverò. Mise sulla tavola la tovaglietta per la colazione. Versò il caffè nella tazza di Titti, nel piattino con Silvestro imburrò il pane e ci passò un velo di marmellata di fichi. Impiegò un quarto d’ora per mangiarne tre fette. Un altro quarto d’ora lo trascorse guardando il vuoto alla luce soffusa dell’alba che addolciva la stanza. Si alzò e macinò i minuti di silenzio che le restavano in preda ad una sorta di frenesia e di tremore e di agitazione, che le fecero scorrere lo sportello dell’armadio, prendere alla rinfusa indumenti mutande calzini, pigiarli nella sacca, una cintura dal cassetto del comodino, fumetti, il dvd preferito, fazzoletti e tutto quello che le venne in mente in preda ad un’urgenza irrinunciabile.
Poi svegliò i bambini. Un sorriso le colorò il volto. Li accudì raccontando loro spiritosaggini e spizzicottandoli sul culetto i fianchi i piedi, colazione bagno vestizione, quindi preparò gli zainetti ed uscì di casa con il piccolo sulle spalle. Li sistemò in macchina – cintura di sicurezza al grande, seggiolini per gli altri due – e disse loro di aspettare un attimo ché aveva dimenticato di prendere il portamonete. Rientrò di corsa, afferrò il borsone, lo posò sul tavolo, un foglio, una matita, scrisse in stampatello, a lettere sbilenche: Non farti più trovare al nostro rientro. Sbatté la porta con fragore, apposta per svegliarlo.
La casa, al tramonto, irradiava un colore che dava d’oltretomba, ma Letizia sapeva che stava dentro di lei, l’oltretomba. Le cose rimangono sempre uguali a se stesse: le sembrò consolante questa certezza. Inventare una verità per i bambini fu più difficile del piano che si era abbozzato nella sua mente per tutta la mattina, dall’alba al crepuscolo, tra il dare ascolto ai clienti e il far capolino sul retro del negozio, dove i figli bivaccavano dopo il pranzo a casa dei nonni, in attesa di far ritorno a casa, prima dell’orario di chiusura. Disse loro che il papi era dovuto partire improvvisamente per una proposta di lavoro in Australia, un posto lontano ma bellissimo dove, se si fosse impegnato tanto, avrebbe portato anche loro. Era partito di corsa, doveva battere gli altri sul tempo, non aveva salutato neanche lei, ma dovevano esser contenti, stasera avrebbero fatto festa, pizza coca cola e patatine a volontà.
I pioppi neri, stavolta in tenuta vertiginosamente verticale, si presentarono due giorni dopo all’ora di pranzo. Aprì l’uscio e si raggelò, nonostante attendesse la loro visita.
“Suo marito, signora.”
“Domenico non vive più qui.”
“Ci dia un recapito, al telefono non risponde.”
“Non so niente di lui. Non cercatelo più qui. Ho paura. Ho tre figli. Ditemi cosa devo fare e lo farò, ma vi scongiuro non suonate a questa porta.”
Lo disse con voce trascinata, gutturale, impastata nella saliva, lo sguardo da lepre, ma fermo, diretto, i pugni serrati.
I pioppi si scambiarono uno sguardo. Quello riccioluto parlò:
“Tranquilla signora. Quindicimila sono. E non ci piove. Ci faccia sapere come e quando. Parola d’onore che qua non ci vede più.”, mise la mano nella tasca posteriore dei pantaloni da divisa militare, le porse un biglietto da visita, abbozzò un inchino. Non attesero risposta, si dileguarono come saette.
Il piano si stemperò. Si definì. Fu farcito di tristezza, d’ineluttabilità, e via via forza determinazione risolutezza dignità ed un guizzo d’orgoglio.
Profilo facebook. Una foto del suo culo con una brasiliana molto succinta. Blu a retina e stringhe intrecciate. Un fake: Delizia. Richieste d’amicizia a manetta. A soli uomini. Del circondario. Professionisti. Over quaranta. Con allegato ad ogni richiesta un messaggio in privato: Non sono una puttana di professione. Valgo tutti i soldi che chiedo. Garantisco massima segretezza e serietà. Prestazione a domicilio. Dalle venti alle ventidue. Only One Stand.
Chiamò Chiara, la ragazza che di tanto in tanto le dava una mano quando i bambini erano ammalati e lei non poteva assentarsi dal negozio. Si accertò della sua disponibilità e si attaccò al pc ogni sera, dopo aver messo a letto i bambini.
Cancellò immediatamente dai contatti chi tentava approcci via chat. Rispondeva a poche domande: età, costo, profilattico sì. Chiedeva luogo e giorno. Il carnet fu presto pieno. Ad operazione avvenuta depennava l’amico dalla smemo e lo eliminava in modo definitivo dal profilo.
Arrivava in ballerine nere a fiorellini rosa, jeans skinny chiari strappati, maglia nera cappellino viola da baseball calato sugli occhi e una sacca rossa da palestra. Il più delle volte le facevano trovare la porta aperta e luci smorzate da paralumi. Lei entrava, cercava l’interruttore, illuminava a giorno la stanza, sorrideva e chiedeva di andare in bagno sotto sguardi spesso attoniti o sconcertati.
Non usciva mai da lì prima di mezz’ora. Qualcuno bussava alla porta. Rispondeva One moment a voce bassa e composta. Lo spaesamento di chi attendeva si trasformava in stupore e salivazione accelerata non appena varcava la soglia, dopo aver girato la chiave e abbassato la maniglia con estrema, studiata lentezza.
Ne veniva fuori tutta nera. Tubino cortissimo e leggermente svasato sulla linea di demarcazione delle autoreggenti trenta denari setificate fascianti e non troppo velate, decolté di vernice a punta tonda modello dolly, tacco dodici sfilato ma non a spillo, cappellino di velluto con falda di dieci centimetri curvata a nascondere lo sguardo che diventò il suo burqa affinché nessuno, mai, le traforasse l’anima. Una volta uno provò a levarglielo. Saltò giù dal letto, riprese i soldi dalla borsa, ne buttò a terra una metà e si chiuse in bagno intimando al tipo di lasciarla andare altrimenti avrebbe chiamato la polizia e avrebbe avuto da perdere più lui che lei. La lasciò passare, imprecando insolenze cui lei rispose solo mostrando il dito medio. Appena arrivò a casa lo bannò.
La prima sera aveva vomitato ulcere e succhi giallastri fetidi. Le volte successive le capitava solo di avere il respiro a singhiozzo per tutta la notte e di non riuscire a buttare giù neanche un bicchiere d’acqua, figuriamoci la cena che Chiara le lasciava sulla tovaglietta all’americana avvolta nella carta stagnola e poi in uno straccio affinché rimanesse tiepida. Si attaccava allo spazzolino da denti e li strofinava a sangue con bicarbonato e limone, compresi lingua gengive e palato. Non dormiva, quelle notti. Faceva proiezioni. Rivedeva il malloppo ammucchiato fra le foto del matrimonio formato cartolina sparse alla rinfusa in una scatola da scarpe e contava il tempo che ancora occorreva. Nelle altre studiava e si addormentava alle tre. Di lì a poco avrebbe sostenuto gli orali di un concorso in polizia urbana. A Belluno. Sulle asperità. Lei che fino a prima di quella notte amava il sud e il sole e il mare. Non vedeva l’ora di andare via con una valigia e i figli. Tutto il resto: lo odiava già e per sempre.
L’ultimo tizio aveva un aspetto raffinato, occhi vivaci e viso beffardo, alla Servillo. Sembrava gentile però e lo fu. Mentre raccoglieva il tubino da terra e il resto le disse:
“Voglio il culo.”
S’immobilizzò con i vestiti a mezz’aria. “One stand, ricordi? E poi il culo non lo do.”
“A me sì, lo darai.”
“Cosa te lo fa supporre?”
“Perché te lo pagherò il triplo, millecinquecento sonanti. Duemila senza preservativo.”
“Non lo do.”
“Ti aspetto qui domani sera, stessa ora.”
*****
A casa il giubilo è diventato un singulto. Ribolle e ha male dappertutto. S’infila nella doccia, anche se l’aveva già fatta in quel bagno. Si striglia con foga, si tampona, si tocca, prova a guardarsi in uno specchio, piegata sul bidet.
Piange per tutta la notte. Piange odio rabbia vendetta. Piange anche vittoria.
La mattina seguente telefona alla madre e non va in negozio. Con il bigliettino da visita accartocciato su cui c’è l’indirizzo che ha controllato su google map cento volte, suona il campanello. Consegna ciò che deve consegnare. Respira forte, fortissimo. Le jeu est terminè.
Grande racconto! Ritmo sincopato che ti attanaglia, prosa fluida e ben calibrata per generare un ansia costante è una necessità quasi fisica di lettura.
Tema difficile,ma ben sviluppato dove la narrazione dei fatti contiene i sentimenti senza indulgenze evocative. Coltellate veloci e precise nella pancia del lettore fanno il resto.
Veramente tanti complimenti, bravissima Antonella.
Grazie per questa lettura così attenta e competente.
Un bellissimo racconto che delinea in modo “asciutto” le scelte della protagonista. Ciò che colpisce è l’andamento della narrazione, il passaggio dalle “cose” semplici dell’amore a quelle dolorose ma necessarie per far fronte alla superficialità affettiva e materiale del compagno. Letizia colpisce per la lucidità e la determinazione, per la scelta di porre termine senza lacrime alla sua storia d’amore, per la scelta di “onorare” comunque tutti i debiti, consapevole che le cose rimangono sempre uguali a se stesse e che lei non si perderà. Complimenti
Notevole.
Lodevole.
Non una parola di più e non una di meno.
Scorrevole sì, come la lama di quel coltello che mi ha fatto piangere lacrime aride. Fendenti nella pancia, esattamente come ha sentito Gianluca.
E pensare che ero convinta che la letizia del titolo fosse un sostantivo e che ci volessi tendere un tranello. E che tranello…
Proprio perché meritevole di speciale menzione, vorrei però capire se c’è un’incongruenza temporale o mi è sfuggito qualcosa.
Il cicciobello e Candy Candy mi sembrano troppo lontani negli anni da Facebook e dagli euro.
Scusami se davvero non ho capito ma l’ho anche riletto. Mi sono fatta male due volte ma ho apprezzato ancora meglio la cura della tua scrittura e la straordinaria capacità della tua penna.
Ripeto perdonami ma sono intervenuta proprio perché è un racconto che mi è piaciuto enormemente.
Grazie, veramente grazie dal cuore per i vostri commenti. Commossa.
Marcella, apprezzo molto la tua attenzione ai dettagli. Ho scelto Cicciobello e Candy perché li ritengo intramontabili. Il primo esisteva quando ero piccola io, lo ho comprato per le mie figlie ed è tuttora in vendita; Candy, ho immaginato abbia colorato l’infanzia di Letizia e che le sia rimasta legata, un po’ come è successo a me. Lo hanno dato in tivù fino al ‘97, appena controllato su Wikipedia, ma il cartone continua a circolare in rete, quindi non dovrebbero esserci incongruenze temporali, o almeno lo spero ????
Un racconto realistico con una bella prosa. La storia è bella e dura, il personaggio femminile paga sicuramente troppo per farsi carico di colpe non sue, e alla fine probabilmente abbandona un contesto che non può cambiare con le sole proprie forze. Bello l’uso differenziato dei tempi, molto raffinato ed efficace nel fornire le giuste accelerazioni e pause: il presente dà velocità alla parte iniziale e finale e le ricollega per descrivere prima l’impeto dell’adolescente e poi la volontà della madre di chiudere rapidamente e definitivamente un gioco accettato anche se tutt’altro che gradito (ma di cui ha in una certa misura stabilito le regole). E poi i tempi al passato per la parte centrale, e quattro righe velocissime quasi senza verbi per la descrizione della realizzazione del piano. Varietà di ritmo, emozioni e temperature affettive (spizzicottandoli andrebbe messo subito di diritto nello Zingarelli) 🙂
Il gioco è terminato ci sarebbe stato tutto come titolo, ma forse il nome vuole essere un riconoscimento più personale. Comunque, se non si è capito ancora: complimenti.
Ora ho capito tutto!
Grazie.
Complimenti ancora, Antonella.
Grande racconto, asciutto, incalzante nel ritmo, icastico nelle descrizioni e abbastanza cinico nello sguardo che si fa sempre più smagato. Molto brava Antonella e sempre efficaci nei commenti Gianluca e Marcella! 😉
Grazie Marco e Paola, e grazie ancora a Marcella.
Marco, ho scelto quel titolo perché mi piaceva giocare con il doppio senso del nome, come ha intuito Marcella (tirare quasi un tranello ai lettori).
Un colpo di pistola a distanza ravvicinata. Un ritmo forsennato, senza un solo beat fuori posto, il metronomo che oscilla su e giù a 150 bpm. Una lingua acuminata come un bisturi, essenziale, perentoria, controllatissima eppure dotata di impetuosa urgenza che scorre sottopelle. Il ritratto di una donna che vuol voltare pagina per sempre: sapientemente composto con poche, furiose eppur spesse pennellate rese da una paratassi priva di ammiccamenti cui fanno da contraltare brevi e intensi flussi di coscienza dalla punteggiatura scarna che permettono di vedere plasticamente i pensieri della protagonista. Un racconto perfetto.
Antonella.
non potevo perdermi un racconto intitolato con il nome di mia moglie; spero vivamente di non fare la fine di Dodi!!!!! 🙂
Hai raggruppato nella tua pagina tutti i massimi commentatori della scorsa edizione (Gianluca, Marcella, Paola e Marco), segno che il tuo lavoro attrae e coinvolge.
E coinvolge parecchio, aggiungerei!!!!!
Personalmente, ho notato una capacità di cesellare i personaggi davvero notevole, al limite del professionismo: Letizia e la sua forza d’animo, Dodi e le sue debolezze, i due “pioppi” così ben congegnati da bucare la pagina.
Grandissimo stile che dona qua e là evocazioni mai pesanti o banali e vedo non vedo che lasciano giusto tempo e spazio all’immaginazione; il ritmo serrato ed i continui, imprevisti cambi di prospettiva condiscono una trama cruda e disillusa con il fascino della miglior suspence.
Pensa che in certi passaggi mi hai ricordato il miglior Faletti, quello di “Io Uccido” per intendersi.
Infiniti complimenti!
Non me ne voglia Anna Rosa, altra magnifica compagna di viaggio della scorsa edizione, per non averla citata nel commento precedente.
È stata solo una mia imperdonabile disattenzione!
Grazie, Livio Romano. Arrossisco. Da uno scrittore quale tu sei, i complimenti valgono doppi.
Lorenzo, grazie anche a te. Mi fai sorridere. In realtà ho da poco pubblicato il mio romanzo d’esordio, ma continuo a sentirmi, appunto, un’esordiente. Ce ne vorrà di strada ancora. Comunque “Letizia” è antecedente alla stesura del romanzo, diciamo che stavo affilando le armi scrivendo dei racconti prima di cimentarmi in qualcosa di più impegnativo.
Adesso ho davvero caputo tutto!
Se questo racconto è solo una prova per affilare le armi, chissà che sciabolate nel tuo romanzo!
Per quanto mi riguarda si può al massimo dire che qualcosa bolle… nel pentolino!
Grazie per il pensiero ai miei intrugli, e benvenuta in questa realtà in cui le parole contano più dei fatti.
Cara Antonella, avevo letto il tuo racconto, ma mi ero ripromessa di farlo nuovamente con la dovuta calma e così è stato. Letizia è fin da l’inizio molto più forte di Dodi, negli impegni che si prende, nelle scelte che fa. Per come descrivi bene sia lei che i fatti, l’ho avuta nitida davanti, durante tutta la lettura: madre che si colora con un sorriso spizzicottando i figli (è piaciuto molto anche a me questo verbo :)), donna decisa e consapevole nel voler chiudere “la questione”. Ha paura, ma si immola, affinché la stessa paura non la provino i figli. Belle anche le immagini di lei che poi si “purifica” con vigore. Molto bello, complimenti anche per il ritmo, che trascina fino alla fine
Grazie Silvia. Sono molto legata a quel personaggio femminile. In questi tempi di grandi violenze contro le donne, anche quella che ho voluto mettere in scena io, ritengo sia una forma di violemza, sebbene più velata, più subdola.
Marcella cara,
a rigrazie!
Sei una di quelle persone che mi piacerebbe conoscere dal vivo, con la quale sento affinità e un certo sfrigolio nei polpastrelli.
Sono felice di aver trovato persone come te in questa nuova realtà. Al di là del risultato finale, “Racconti nella rete” ha il pregio di creare davvero una “rete” è questa è una cosa meravigliosa.
Antonella sei stupenda. Finalmente ho trovato il tuo racconto nella rete e mi piaci sempre di più. Ho letto d’un fiato e rileggerò. Tu lo sai, già sono innamorata di “Senza biglietto di ritorno”. I tuoi personaggi si fanno attraversare dalla vita e poi ci porgono i loro schianti. Le loro rughe dell’anima. Quando ti leggo mi sento meno sola e ho la consapevolezza che la lettura vera salva sempre. Bacio
Racconto strepitoso, da tutti i punti di vista. La narrazione che si limita all’indispensabile, tiene il lettore avvinghiato. Antoine de saint-exupéry diceva che la perfezione non si raggiunge quando non c’è più nulla da aggiungere ma quando non c’è più nulla da togliere. Il tuo racconto è così: solo il necessario, senza sbavature. La trama richiama problematiche non rare, purtroppo e tu hai saputo creare in Letizia un personaggio ricco di forza interiore, orgoglio e dignità che potrebbe essere un valido esempio per le donne che vivono situazioni simili. Stringe i pugni, da sola e a modo suo risolve problemi che non erano suoi. La semplicità con cui organizza il suo piano si scontra con la difficoltà fisica e psicologica che deve affrontare nella sua realizzazione. Letizia non è una puttana e la fine di tutto è per lei una nuova rinascita che coinvolge emotivamente il lettore. Complimenti davvero.
Racconto crudo e asciutto in sintonia con il linguaggio. Non ci sono concessioni e tentennamenti e tutto sembra davvero non modificabile. Ma “le donne lo sanno” di cosa è fatta la paura e la necessità, tutto appare scritto in una condizione di “genere” più che di status sociale e, amaramente, Letizia è una donna che rinuncia alla ribellione e sceglie la testimonianza, senza però essere sopraffatta dalle sue scelte, senza essere mai vittima dell’illusione. La lucidità, la risolutezza, la consapevolezza insieme alla sofferenza sono tratti molto ben definiti e ne fanno una figura non retorica pur se contradditoria, una figura che a volte ti fa stare male, quasi ti fa sentire in colpa. Complimenti.
Grazie di cuore a tutti, veramente.
Questo feedback che permette Racconti nella rete è una cosa straordinaria, non ci si sente abbandonati al proprio destino, al di là di come vadano i risultati.
Ho letto questo racconto ancora giorni fa… Mi ha colpita molto ma non sono riuscita a scrivere un commento abbastanza sintetico quindi ho rimandato. Davvero piena di risorse questa Letizia che passa direttamente dal Cicciobello alla prostituzione dopo aver cresciuto 3 figli praticamente da sola. Tutto sembra naturale per lei potrebbe impugnare un biberon e subito dopo una pistola con la stessa apparente disinvoltura. Molto brava davvero a rendere tutto questo ancora più efficace con un linguaggio diretto e incalzante. Complimenti.
Grazie anche a te, Anna.
Sì, Letizia è una donna forte, una donna dura, pronta a tutto pur di proteggere i propri figli, come certe belve, una tigre, ma questo non è indolore. Chissà che cicatrici le rimarranno addosso per tutta la vita. Con questo racconto ho voluto rendere omaggio a tutte quelle donne che, come lei, si trovano ad affrontare situazioni simili, un esercito, immagino.
Assolutamente si. Ti ringrazio molto per questo infatti.
Mi ringrazi tu? Wow! Felice di essere riuscita a trasmettere quel che intendevo trasmettere.
E grazie ancora a te, Anna!
Scegliere di attraversare l’inferno è un atto di coraggio. Ma il fuoco brucia e purifica e dalle ceneri si rinasce… Bava Antonella, una storia cruda, chissà quante volte vera
Grazie Ester, mi fa molto piacere questo tuo commento, credevo che “Letizia” fosse ormai stato sepolto dagli altri racconti arrivati dopo 🙂
Antonella, mi spiace dover ripetere sostanzialmente quanto è già stato detto nei commenti precedenti. Il tuo racconto è duro e fa male leggerlo perché la tua scrittura è efficace e vera e non concede sconti alla vicenda. Il dialogo con il cliente rappresenta l’apice, il climax di questo dolore, la prova del fuoco che porterà la protagonista verso una rinascita che ne delinea anche la grande forza interiore. Il tuo stile asciutto ma ricco nelle descrizioni si accorda alla perfezione al contenuto del racconto. Complimenti!
Ti spiace, Ivana? Cosa c’è di più bello del ricevere un altro bellissimo commento? Una nuova conferma? Sono felice che tu ti sia ripetuta, altroché!
Grazie infinite, Ivana!
racconto crudo ed efficace che mi è piaciuto davvero moltissimo
Grazie infinite, Sandro! Ormai, avendo scritto il racconto un po’ di mesi fa, non mi aspetto più commenti e ogni volta che ricevo una mail che mi avvisa di un nuovo commento è sempre una piccola festa 🙂
Antonella Caputo, beh da applausi, racconto che si legge tutto d’un fiato, complimenti, scritto molto bene
Mi piace molto, Antonella, la struttura circolare del tuo racconto, il dover leggere l’inizio e la fine per dare un senso più compiuto allo snodarsi dell’intreccio che racchiude nel giro di poche frasi l’arco di addirittura mezza vita e che, come hanno già detto altri, corre via a un ritmo forsennato. Una bella scommessa! Sono d’accordo con Lorenzo Garzarelli nel ritenere particolarmente indovinata la similitudine dei due pioppi che poi riprendi nel testo, creando un bel rimando.
Tu sei legata al tuo titolo, ancorato a questa donna forte che attraversa, con sé intatta, tutta la vicenda, ma anch’io sono convinta, come Marco Floridia, che l’altro, Le jeu est terminè, sarebbe stato più azzeccato – a sottolineare quella struttura circolare che tu dai al racconto – e, forse, avrebbe contribuito anche in questa vetrina a richiamare più volte la lettura del racconto.
Grazie, Simona!
Mi sa che avete proprio ragione, tu e Marco, sul titolo. Letizia, mi è venuto così, senza pensarci troppo, ma non prepara il lettore, non anticipa nulla, non incuriosisce, è vero 🙂
Un bellissimo racconto Antonella. Difficile affrontare certi temi senza essere retorici o banalmente volgari. Concordo anche io sul titolo, che dovrebbe essere più incisivo.
E’ vero, dal titolo non si immagina ciò che c’è dentro. E c’è tanto, dentro. Brava, complimenti davvero.
Grazie Laura e Elena. Come ho già scritto, probabilmente il titolo suggerito da Marco sarebbe stato più incisivo, ma con Letizia credo che in qualche modo volessi depistare il lettore, sorprenderlo, proprio perché non anticipa nulla quel nome. E poi mi piaceva giocare con il doppio senso, perché poi, la Letizia del titolo, mascherata nella forza e nel coraggio, mantiene una sorta di gaiezza, di “letizia”, appunto, che non la “guasta”. Almeno, questo nelle mie intenzioni, quanto ci sia riuscita a trasmetterle è un altro conto 🙂
Mi ha fatto l’impressione di assistere ad una creazione frenetica di un quadro, fatta di pennellate apparentemente casuali, un quadro a tinte fosche di cui percepisci tutta l’essenza quando questo è finito, perchè fino a che lo leggi sei talmente immerso nel racconto che non riesci ad averne una immediata visione d’insieme. Le righe iniziali, con quella insistenza sui colori mi ha portato rapidamente ad avere questa percezione del racconto/dipinto. L’uso della parola è magistrale. Bravissima, Antonella!
Grazie Les UBU! Mi piace moltissimo questa interpretazione, Il paragonare gli eventi a pennellate di colore.
Cara Antonella, il tuo racconto è di un’efficacia mostruosa.Sono rimasta impressionata dalla “maturazione” di Letizia da bambina sprovveduta a donna consapevole delle sue scelte, pronta a soffrire e a sacrificarsi. Non credo che un altro titolo sarebbe stato necessariamente più adeguato, appunto perché tutto lo spazio narrativo è occupato da questo bellissimo personaggio.Grazie mille, mi hai sbalordito!
Intenso ed intrigante pur nella tragicità della storia. Si coglie la mano esperta dell’autrice, che ha saputo rendere “reali e visibili” al lettore anche le piccole sfumature. Complimenti.
Antonella, complimenti. Anche stavolta, mi viene da dire.
Hanno già detto tutto: trama che esprime bene il dramma, stile preciso, scrittura che da morbida diviene secca e cruda col crescendo del dramma.
La forza di Letizia viene fuori come quella delle tante e tante donne che devono riparare ai danni combinati dai loro uomini.
A presto
Luca, che sorpresa! Ho faticato un po’ a capire quell tuo “Anche stavolta”. Poi ho collegato. Che bello. Grazie per il tuo commento. Sei in Racconti anche tu? Provo a cercarti. Ultimanmente mi son persa 🙂
Sono grata a Giada e a Monica per i loro commenti. Grazie, dal cuore!
Ho letto i commenti che mi precedono e sono d’accordo con chi dice che hai scritto un racconto forte e incisivo. Sono d’accordo anche per il titolo, e ho visto che pure tu pensi che “Le jeu est terminé” sarebbe stato meglio. Io non conosco bene il regolamento ma mi sembra che qualche modifica si possa fare, poi ovviamente vedi tu. Il racconto è bello comunque 🙂
Grazie Claudia!
Mi fa molto piacere che “Letizia” viva ancora, attraverso i commenti dei lettori.
In realtà sono affezionata molto a questo titolo. Non c’è un motivo in particolare. Forse mi sembra solo di rendere maggiore giustizia a questo personaggio, lasciandole il nome nel titolo. Ma, come si suol dire: chi vivrà vedrà 🙂
Mi piace molto questa donna, pratica, vera. Si sente molto la fuga in avanti, il climax che accompagna il dramma. Il colore che da rosa diventa rosso sangue, nero. Si sente il freddo del nord arrivare e mordere un’anima forte fiaccata solo dall’essersi accompagnata ad un uomo senza spina dorsale. brava
Grazie, Germana! 🙂
Un racconto concreto e straordinario.Si legge velocemente e con trepidazione. Bravissima.
Lo rileggo ora, dopo mesi, credo fosse gennaio. La vertigine è la stessa, anzi di più e di più. Una bravura spaventosa,hai presente il brivido che ti prende su Oblivion, quando sei lassù e capisci che non puoi più tornare indietro?
Antonella, che te lo dico a fare?!
Anzi, te lo voglio dire, mettiti comoda.
Dunque, innanzitutto…
To be continued…
Bene. Comincia con un ritmo, sembra voler parlare di una ragazzina immatura, inutile; due minuti dopo ha già capito i sentimenti di chi le fa regali per compatirla(uno dei modi più sicuri di avere gente attorno, essere compatiti?), mette in pratica tutte le promesse col padre e coi figli, giustifica Dodi forse perchè l’ha costruito lei così, poi i pioppi lo scoprono o le impongono di accorgersi….fino alla vendetta, che ho temuto fosse sua, di lui, che abbia la sfacciatggine di presentarsi come cliente.
Ma non è così.
La vendetta, l’uso del suo corpo alla fine per usare gli uomini mentre loro la usano, ma lei pensa: ho un esempio di vendetta vestita da puttana di lusso in un libro di Saveria Chemotti, Ti ho cercata in ogni stanza, spero sia un compliemnto se la conosci.
Un racconto duro, bello e ben scritto. Un carattere forte di donna tracciato nei suoi comportamenti, nelle sue scelte.