Premio Racconti nella Rete 2010 “In Viaggio” di Daniela Coialbu
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Fa freddo e sento come se qualcuno di molto forte mi sbattesse come uno straccio contro il bordo del gommone. Le gambe sembrano non essere attaccate al corpo. Le vedo, magre e screpolate ma non le sento più. Aziz ci sta accucciato sopra. Sembra starci comodo. Io no.
Questi singhiozzi alle mie spalle sono della ragazza nigeriana. Sta piangendo. L’unico punto in cui si vede luce in questo universo nero di acqua e di notte sono i suoi denti bianchi che risalgono dalla smorfia delle labbra. Siamo partiti da poco. L’Italia è lontana, ma forse poi, non così tanto. Me lo ripeto spesso, come una preghiera, ogni volta che il gommone si impenna cercando di montare l’onda come fosse un cavallo.
Ogni volta che questo ammasso grigio di aria ridiscende tra i flutti però, quella sicurezza dentro di me che sussurra non è poi così lontana l’Italia, sembra sgretolarsi lentamente, come la sabbia tra i capelli, come il sale tra la schiuma del mare. Il mare. Chi l’aveva mai visto. Con Aziz giocavamo a chi lo disegnava più grande sulla terra appiccicosa del nostro villaggio. Vinceva sempre lui. Era più svelto di me, in tutto. Poi, a 15 anni, mi diceva, ci riesci anche tu, ora guarda me. E lo guardavo, con i pugni stretti sudati, le unghie nere di terra che mi spingevano forte dentro la pelle e dentro qualcosa che si agitava nel petto, si muoveva come il budello rosso che Kaddour aveva tirato fuori dall’agnello morto davanti casa sua. Io un giorno lo vedrò il mare. Prima di te. Lo sussurravo piano, mentre lo guardavo e lui di spalle disegnava il mare, in ginocchio, a terra. Sulla terra il mare.
Cherifa ha smesso di piangere. Ora i denti non li vedo più. Ha serrato le labbra rosa screpolate. Ha iniziato a tremare. Fa freddo. È buio e fa freddo. Provo a muovere un po’ la gamba destra. La sento come avvolta in una coperta piena di formiche. Calda e brulicante.
Quando ho detto ad Aziz che avrei visto il mare prima di lui mi ha riso in faccia. Voglio vedere se ci riesci, ha detto. Parto per l’Italia. L’ha detto mamma. Lì c’è il mare. Il vecchio Iheb ha detto che l’Italia è come una zampa di maiale che galleggia nell’acqua e nel sale. Quell’acqua e sale è il mare. Stupido, mi dice Aziz. Partiamo insieme per l’Italia. Il mare lo vedremo insieme. Non ero contento ma nemmeno arrabbiato. Pensavo che forse un giorno potevamo andare d’accordo io e Azuz. Forse in Italia, in una casa con la tv e papà che ci prepara il tajine con le olive.
Il giorno della partenza non lo scorderò mai più. C’erano proprio tutti a salutarci. Tutto il villaggio. Il villaggio e Noi. I più forti. Quelli che non avevano paura di niente. Che sfidavano la loro terra e la polvere che tante volte avevano mangiato nei piatti di terracotta, che ridevano in faccia alle malattie, al sudore, al sangue. Quelli che sarebbero tornati ancora più forti e ricchi e con una moglie, anzi con due o tre mogli, dicevano i miei fratelli.
Solo io avevo paura allora? Forse si. Ma non lo dicevo. Ridevo e cantavo con loro e guardavo la mamma aspettando che mi riempisse le mani di coraggio, come quando mi ci metteva il riso. Tutto quello che poteva.
Quel giorno, la mamma mi ha dato un bacio e si è chiusa in casa. È rimasta in silenzio di spalle, con i capelli raccolti in un fazzoletto viola. La guardavo da lontano mentre camminavamo, un piede di fronte all’altro. Ho continuato a guardarla fino a quando non è diventata un chicco di riso. L’ho preso e ho immaginato di tenerlo tra le mani. Ce l’ho ancora adesso qui sul gommone. Sono stato attento a non perderlo. Ogni tanto lo metto nella tasca dei pantaloncini, quando la mano è troppo sudata e stanca e ho bisogno di stirarla.
Però devo rimanere immobile perché altrimenti ho paura che mi scivoli via ed io con lui. Ho paura ed inizio ad avere fame, ma decido di non mangiarlo quel chicco.
Aziz ora ha il braccio che gli scorre nell’acqua. Rischia di cadere ma lui è grande. Può farlo. Lo tira fuori come un pesce volante e mi schizza. Un giorno anche io lo farò. Quando ritorno al villaggio col mio gommone lo faccio anche io. Sarò più grande e più forte. Sento gli occhi che mi bruciano. Le gocce di mare schizzate in faccia mi fanno male e poi questo vento non va mai a dormire, nemmeno di notte. Non è come il nostro ghibli. No. Lui esce fuori solo di giorno e accompagna il sole nel deserto.
Vedo una mano legnosa che chiude il ciuffo di capelli di Aziz e lo tira indietro. La stessa mano gli dà uno schiaffo sull’orecchio. Aziz trattiene le lacrime a forza e ricade sulle mie gambe. Io sorrido mi giro e chiudo gli occhi: quando mi sveglio sarò in Italia. Sulla zampa del maiale.
Quando mi sveglio non è più buio. Fa un caldo asfissiante e ho la gola secca come le mammelle della nonna Farida. Quelle della mamma no, sono morbide e lisce come l’acqua. Ho sete, ma devo resistere. Ancora un po’. Cherifa ora ha le palpebre chiuse e non trema più. C’è il sole e non sentirà più freddo. Le sfioro la mano. Ha le dita lunghe e sottili, bellissime. Sono gelate. Vicino a lei una donna, pure lei nigeriana, sposta il busto avanti e indietro come in una danza al ritmo delle onde, con la voce intona una canzone, una nenia dolce, un sibilo velato. Si, la riconosco è quella che mi cantava la mamma quando piangevo per il mal di pancia e non riuscivo a dormire. Ora ricordo. Gli occhi della donna piangono, lei no, sorride e un dente le si appoggia sul labbro bagnato di lacrime e saliva, culla Cherifa. Le tiene la testa tra le braccia. Lei rimane ferma però, forse troppo. Non si muove più.
“Guarda Seddik è l’Italia, la vedo, la vedo, è quella lì! E’ verde e marrone mi sembra, che dici? La vedi? La vedi tu?” Aziz si agita troppo, è in piedi sul gommone ma si abbassa ogni tanto per tirarmi la maglietta e costringe tutti ad aggrapparci più forte ai bordi, stavamo tutti per rovesciarci. Il nostro viaggio sarebbe finito lì. Io non so nuotare e il chicco di riso? Neanche lui credo, ma qualche foglia nel mare lo avrebbe comunque portato a destinazione, me lo sento.
Ora la vedo anche io. Quella macchia verde e marrone si sta avvicinando a noi e finalmente berrò, lì berrò fino a che l’acqua non mi uscirà dal naso, anzi no dalla fronte. Berrò l’acqua, liscia come la pelle della mamma e poggerò a terra il suo chicco di riso che tengo ancora in tasca e che ha resistito fin’ora a questo viaggio. Il viaggio dei forti, di quelli che non hanno paura perché cantano. Poi lo ricoprirò con la sabbia italiana e aspetterò, e anche lui mi aspetterà.
Eh, fa pensare. I personaggi sono definiti bene, e anche l’atmosfera. Grazie!
Ben scritto. Triste come è giusto che sia. Una speranza che solo la disperazione fa maturare. C’è bisogno di raccontare queste storie. Grazie!
Scrittura che suscita una ottima visualizzazione dei fatti con atmosfere calde che si mescolano con la fredda durezza della notte e degli avvenimenti.
Complimenti!
Terribilmente bello! Mi hai emozionato, ma anche atterrito. Brava Dani!!!
…viene voglia di legger”ti” ancora…che altro ci proponi??? complimenti!
Ho vissuto più da vicino ciò che i media riportano come normale routine…
Salve Daniela, ho appena visto l’elenco dei racconti vincitori e scorrendo i titoli la mia attenzione è stata attirata dal tuo “in viaggio” (titolo suggestivo), poi appena ho iniziato la lettura ho compreso a quale viaggio facevi riferimento… Voglio complimentarmi con te per questo racconto sia per il modo in cui l’hai scrtto, che per il tema che hai affrontato (direi che è un’ottima miscela di forma e contenuto; mi hai davvero emozionata, soprattutto con quella immagine della madre che allontanandosi il tuo protagonista vede diventare piccola fin ad essere come un chicco di riso, preso in mano e messo in tasca… brava!). Sono contenta che tu sia fra i vincitori. Complimenti!
Un racconto che fa emozionare nel più profondo del cuore, un viaggio che trasuda di disperazione che contrasta fortemente con la voglia di vivere e di farcela ad ogni costo. …Un contenuto che porta a far riflettere !
La vita immensa solitudine, ma anche immensa speranza…….Complimenti.
“…guardavo la mamma aspettando che mi riempisse le mani di coraggio, come quando mi ci metteva il riso. Tutto quello che poteva. ” solo questa frase merita l’intero racconto.
Intenso e struggente, triste e colmo di speranza … complimenti veramente bello
Carmina Trillino